Il Chocó, Colombia, è una terra in bilico tra le onde aspre dell’oceano Pacifico e la fitta giungla tropicale, che con le sue palme da cocco si sporge fino a lambire la costa. I suoi abitanti, i chocoanos, si confondono con l’oscurità delle notti senza luna. Poiché la loro pelle nera non gli fa mai dimenticare l’Africa, a cui furono strappati cinquecento anni fa come schiavi e mai restituiti.
Nuquí, Panguí, Jurubidá, Jobí. I nomi dei villaggi hanno sapore indigeno, parlano di un passato in cui i nativi popolavano queste lande prima di ritirarsi in nidi remoti nel cuore della foresta e cedere il passo alle comunità di cimarrones, gli schiavi neri che fuggivano dalle miniere nelle fauci della terra e riparavano in luoghi impervi pur di sopravvivere.
I chocoanos sono i figli degli schiavi ribelli nella terra della luna, che ne è la signora.
La luna governa le maree col suo pallore di pietra. Puja y quiebra dicono i suoi abitanti quando parlano dell’alta e bassa marea che ingrossa i delta dei fiumi, divora le spiagge e i muri marciti delle case e trasforma i villaggi in isole sparute.
I chocoanos mangiano riso con platanos fritos e bevono il dolce siero delle noci di cocco come l’acqua, che in questa terra non è potabile. Vivono in case di legno colorato col tetto di foglie. Essi stessi le costruiscono a una spanna dal suolo, per non farsi inghiottire dal ribollire dell’oceano quando c’è l’alta marea o un fiume incollerito dalla pioggia.
Chi atterra a Nuquí avrà sorvolato l’incredibile coltre di alberi che invade il tropico, interrotta solo dallo scorrere di qualche lungo fiume serpeggiante tra le chiome. Il caldo assale come uno stormo di avvoltoi, l’afa infiacchisce, ma i chocoanos ridono sotto il sole sferzante e non si lamentano.
Non conoscono vetture private: a prestare servizio in paese è il chocho, una macchinina a tre ruote che non teme il fango delle strade terrose. Quando invece le circostanze impongono spostamenti più lunghi, la giungla non lascia scelta. Resta il mare, attraversare le sue acque a bordo di una vecchia lancia dal motore forte, con la probabilità di scorgere il nero di una coda di balena tra le onde.

I chocoanos sono falegnami, cacciatori, soprattutto pescatori. I Curanderos no. Nel municipio di Nuquí ne è rimasto solo uno, Emigdo, geloso custode delle sue conoscenze antiche. Parla di come curare i portatori del mal de ojos[1] disciogliendo sui loro occhi manteca di maiale nero, antidoto infallibile con cui ha guarito una donna che rischiava di ammazzare i propri figli per via del suo sguardo violento. Racconta di rimedi contro la sterilità, di come trattare il mal de nacimiento e di serpenti inviperiti che seguono le loro vittime fino all’uscio di casa per affondare i denti nella viva carne.
“Persino gli indios vengono da me a farsi curare”, commenta con una scintilla nello sguardo, quando una donna dai lunghi capelli scuri fa capolino dalla sua porta.
“Persino gli indios vengono da me a farsi curare”, commenta con una scintilla nello sguardo, commenta Emigdo, con una scintilla nello sguardo.
Emigdo lavora con le anime dei suoi pazienti, ma ne conosce anche i tre spiriti, quelli che accompagnano ciascun individuo fino alla fossa e ne bisbigliano il destino a chi può sentirlo. Per vederli si alza all’alba e fissa gli occhi sulla luce del sol nascente, affinché i raggi gli rischiarino la vista.
I chocoanos maneggiano il machete con destrezza, come fosse il prolungamento affilato delle loro braccia.
I falegnami costruiscono le loro case poco a poco: ogni piccolo risparmio si converte in un’anta di finestra, una porta, un listone per il pavimento. Così fa Prudencio, falegname di Arusí, un paesino di trecento anime senza negozi, né chochos. Fabbrica letti, barche, piccole abitazioni, abbatte lui stesso gli alberi nel fitto della foresta. Mostra la sua dimora e ricordando con orgoglio il tempo in cui per arrangiarsi copriva il suolo con rottami di altre costruzioni. Gli manca ancora un po’ per finirla, ma ci vive già da anni.

I pescatori usano canoe scavate nei tronchi, così piccole e sottili che a starci seduti dentro ci si sente nel ventre di un’onda.
Prospero è un pescatore del piccolo comune di El Valle. Con la sua esile canoa risale il corridoio di mangrovie ai margini del fiume o getta l’amo in mare aperto. Non passa giorno senza che la sua lenza si tenda. Al resto ci pensa madre terra con i suoi frutti sugosi che pendono dagli alberi. Banane, cocco, papaya, anón. Le galline, che ruspano l’arena polverosa a ogni angolo di strada. Un uovo a tavola non manca quasi mai.
“Può darsi che qualcuno patisca la fame per un paio d’ore”, commenta Prospero, “ma poi sicuro troverà chi lo aiuta e, barattando un bene con un altro, un boccone lo si riesce sempre a rimediare”. Nessuno è mai morto di fame nel Chocó. La malaria, invece, quella sì che ammazza, quando l’aeroporto è lontano e le cure non si trovano che a qualche centimetro più a est sul mappamondo, oltre quella fitta coltre d’alberi che fa sentire su un’isola più di quanto non faccia il mare.
Ed è nei recessi più nascosti della giungla tropicale, lontano dalle pattuglie e dai posti di blocco, che i narcos esercitano indisturbati le loro attività. La coca, imbarcata nei porti lungo la costa, viene poi spedita a Panama e da là, attraverso il Messico, giunge a destinazione, negli Stati Uniti. Quando una lancia super veloce con a bordo un carico di droga viene abbattuta dall’esercito, el oro blanco si riversa in mare ed ecco che si scatena la pesca del carico perduto. La pesca bianca, come la chiamano, è un affare. Chi recupera la merce la rivende ai produttori e il ciclo si ripete.
Anche il ciclo delle acque si ripete: le onde tornano a inghiottire le spiagge, la pioggia ricade brutale dalle nubi e ancora una volta il Chocó cambia le sue vesti luminose del mattino per quelle opache della sera.
All’ora del tramonto, quando il sole è già annegato oltre la linea incurvata del globo, quando il temporale ha imperversato e i fulmini hanno irradiato il cielo come lampadine quasi fulminate, in quel momento in cui l’aria è sospesa, passeggiando per le strade limacciose si ascolta un’unica eco e una luce tremolante esce da ogni porticina aperta sull’orlo della notte. Tutti ridono all’unisono, stregati dalla stessa filastrocca.
Ficchi la testa oltre l’uscio di una casa e dovunque scorgi la stessa scena. Tutti pendono dalle immagini parlanti di un vecchio televisore, tutti sintonizzati sullo stesso canale, come ammaliati, ridono e piangono insieme, uguali a chi si stringe attorno al fuoco ad ascoltare le storie degli avi per scacciare i fantasmi della notte.
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