Vocabolario della fine

Tutto quello che riuscivo a vedere era una V maiuscola. Sapevo che si trattava della prima lettera della parola Vocabolario, inscritta sulla copertina del manoscritto, ma preferivo credere fosse l’inizio di Vittoria, la nostra vittoria.
Continuavo a scavare, tirando via cumuli di terra e frammenti rocciosi mentre Alice, Leo e Tata ridevano come pazzi; le loro voci echeggiavano nella grotta caricando l’aria di una vibrante isteria, quasi a voler riempire la somma dei nostri vuoti, in attesa che l’esistenza si riappropriasse del senso perduto. Duecento anni prima, l’animo umano era stato squarciato e il suo contenuto gettato tra le gigantesche fiamme di un fuoco ingordo; la realtà aveva perso i propri colori e il Grigio era diventato il nuovo ed unico sentimento, la nuova ed unica emozione; le imperfezioni dello spirito erano state proibite da una Legge che noi, esplorando quella grotta e riesumando quel vecchio dizionario, avevamo violato.

Le loro voci echeggiavano nella grotta caricando l’aria di una vibrante isteria, quasi a voler riempire la somma dei nostri vuoti, in attesa che l’esistenza si riappropriasse del senso perduto.

Brancolavamo nel buio in cerca di risposte, e quella reliquia cartacea le conteneva. Temevamo fosse tutto un gioco e che oltre al lavoro, le abitudini e i vanti materiali, non ci fosse che il mero istinto di sopravvivenza: finalmente, davanti ai nostri occhi veniva pian piano concretizzandosi la speranza di un significato altro, in grado di nutrire le giornate, farle sembrare meno vane. Dopo tanti sacrifici, potevamo leggere.
Estrassi il libro dalla cavità in cui era stato sepolto. Lo aprii con delicatezza, voltandomi verso gli altri:
«Allora, Fede?», mi domandò Tata. «Che dice?»
Lessi la prima riga in alto, nella prima pagina:
«Colui che ama vive per sempre. Colui che, invece, rifiuta l’amore, è destinato a morire…
Aspettate, cosa vuol dire?»
«Non fermarti, vai avanti», disse Alice.
«Amare vuol dire ferire e farsi ferire. Significa farsi aprire e aprirsi all’altro e insieme ricucirsi. Amare è un meraviglioso trauma. Scrivo questo dizionario, questo romanzo, augurandomi che la lingua dell’uomo possa un giorno risorgere. Vocabolario, 1928».
«Secondo voi cos’è questo numero?», chiese Tata.
«Sarà l’anno in cui è stato scritto» ipotizzò Leo.
Il freddo iniziava a farsi sentire. Decidemmo di andar via e nascondere il libro nella cantina di Alice, dove ci saremmo incontrati la sera successiva per studiarlo insieme.

Il giorno dopo, a lavoro, fu un incubo. Mi occupavo della moderazione delle immagini per il Mercato Pubblicitario, ma tutto ciò a cui riuscivo a pensare era il desiderio di ferire e di farsi ferire: perché mai qualcuno dovrebbe voler fare del male e riceverne altro? La domanda continuava a riaffiorare nella mia mente insieme all’immagine vaga di Alice, che con i suoi occhioni da bimba mi supplicava di colpirla, di farmi spazio nel suo involucro di carne e di conoscerne ogni minimo dettaglio, ogni singola vibrazione.
Le ore scorrevano sotto al mio sguardo mangiato dalla stanchezza quando l’Orologio Universale suonò il segnale di spegnimento delle macchine. Raccolsi le mie cose e mi incamminai verso casa di Alice, nel blocco femminile Upsilon.
Le abitazioni del Grigio erano tutte uguali, rettangoli di cemento, a distinguerle soltanto un numero.
Bussai al trentasette e lei venne ad aprirmi: era in pigiama, nonostante fosse ora di cena, i capelli arruffati e una sigaretta fra le labbra. Bellissima.
«Entra pure», disse.
L’ambiente all’interno, per quanto ordinato, emanava una certa idea di trascuratezza, un indefinibile caos proveniente dall’aria che vi circolava, forse, o dagli atteggiamenti stessi di Alice.
«Sai, ogni tanto sento di perdermi in un baratro. Allora fumo. Fumare mi riporta alla realtà.»
Aveva questa abitudine, Alice, questo bisogno costante di dare una spiegazione. Ogni suo gesto, ogni sua azione aveva un perché; la mancanza di parole imposta dal regime la distruggeva rendendola logorroica, ma solo nel privato.

Aveva questa abitudine, Alice, questo bisogno costante di dare una spiegazione. La mancanza di parole imposta dal regime la distruggeva rendendola logorroica, ma solo nel privato.

«Leo e Tata ci raggiungeranno a breve. Cosa vuoi fare?»
Ripensai al suo sguardo. Ciò che avevo provato e che provavo non poteva esistere secondo il nostro sistema.
Scoprii che, per rifiuto o per Legge, ero destinato a morire.
«Mi offri una sigaretta?» risposi. Lei prese il pacchetto dal tavolo e me ne porse una.
«Sai come si fa?»
«Ti ricordo che ho cinque anni in più di te.»
«Ma meno esperienza».
Fece una piccola pausa, poi aggiunse: «Sono contenta di avervi conosciuti. Te, Leo e Tata, intendo. Siete gli unici aspetti veri della mia vita.»
In quell’istante suonò il campanello, Alice si precipitò alla porta ed entrarono Leo e Tata. Poi sparì nel buio delle scale che portavano in cantina, riemergendo poco dopo con il Vocabolario tra le mani. Ci sedemmo tutti e quattro in salotto e aprimmo il libro sull’ultima pagina:
«La notte scorsa, quando sono tornata a casa, ho trovato una lettera piuttosto interessante. Mi dispiace non avervi aspettato, ma la curiosità era troppo forte. Sentite qua: Mia cara Angie, figlia mia, perdere te è stato perdere tutto. La voglia di combattere, il desiderio di vincere, la speranza di un futuro. La morte ti ha portata via da me e da tua madre quando non avevi la minima idea di cosa fosse il mondo. Ora questo mondo non esiste più: solo fantasmi, e fucili ovunque.  Angie, cara, come farò a ricominciare? Davanti a me vedo soltanto disperazione, un fondale nero che odora di morte: non so come farò a venirne a galla.»
«Finisce così?» domandò Leo.
«Sì.»
«E cosa vuol dire?» domandò ancora.
Conoscevo la risposta: non c’era via di fuga.
«Nessuno ti getta un’ancora, nessuno ti può salvare. Dal nulla non si scampa e noi siamo nel nulla», disse infine Alice.
Rassegnato e al contempo terrorizzato, presi una sigaretta dal pacchetto di Alice. La fine era giunta e non avevo le forze, il tempo e le parole per oppormi.

 

Opera di Dayana Stano

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