Vocabolario della fine | Caterina Migale

Tutto quello che riuscivo a vedere era una V maiuscola. Sapevo che si trattava della prima lettera della parola Vocabolario, inscritta sulla copertina del manoscritto, ma preferivo credere fosse l’inizio di Vittoria, la nostra vittoria.
Continuavo a scavare, tirando via cumuli di terra e frammenti rocciosi mentre Alice, Leo e Tata ridevano come pazzi; le loro voci echeggiavano nella grotta caricando l’aria di una vibrante isteria, quasi a voler riempire la somma dei nostri vuoti, in attesa che l’esistenza si riappropriasse del senso perduto. Duecento anni prima, l’animo umano era stato squarciato e il suo contenuto gettato tra le gigantesche fiamme di un fuoco ingordo; la realtà aveva perso i propri colori e il Grigio era diventato il nuovo ed unico sentimento, la nuova ed unica emozione; le imperfezioni dello spirito erano state proibite da una Legge che noi, esplorando quella grotta e riesumando quel vecchio dizionario, avevamo violato.

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Contro il carattere estetizzante del nuovo realismo

Ci hanno insegnato a non temere il nulla che governa le nostre esistenze. La mancanza di senso tra una parola e quella successiva, il trauma della pagina bianca. Le parole ‘violenza’, ‘guerra’, ‘amore’, ancora prima di significare qualcosa, sono suoni articolati che nella nostra mente riproducono determinate immagini delle cose e delle sensazioni che abitano il mondo. Infatti, siamo alla costante ricerca dell’esatta correlazione semantica tra parola e sua immagine evocata.
C’è una generica tendenza, nell’immaginario occidentale contemporaneo, di totale pessimismo e conseguente conservatorismo che io trovo – oltre che limitante – di una spocchia francamente insopportabile: l’abitudine eurocentrica e tipicamente nostrana a considerare il mondo esterno come qualcosa di finito, sepolto, non più capace di suggerirci alcunché di sensibile e degno di nota.Continua a leggere…