L’orchestrina | Nicola Dardano

Un abile direttore d’orchestra sa sempre come distinguere le voci dei singoli strumenti. Se una sola corda stride, se un tasto suona sghembo o un colpo arriva tardi, lui subito se ne accorge e riesce a intercettare, nel prodotto melodico della buca intera, l’esatta parte in errore. Ogni musicista lo sa e quando sbaglia, sbaglia sapendo di esser visto, perché sempre sente addosso l’attenzione del Maestro: l’infallibile giudizio del suo orecchio, che mai gli perdonerà una svista.
Così, non appena si accorse di aver cannato l’attacco, il Terzo si fermò e fece silenzio. Forse il fiato gli si era spento in gola, o forse la bocca aveva disegnato con le labbra un cerchio troppo stretto; fatto sta che la voce ne era uscita rotta, stonata e pure un po’ stridula, simile al gridolino di un bimbo più che all’ululato richiesto. Il Primo e il Secondo non si lasciarono scoraggiare e continuarono per un po’; ma le loro voci, da sole, non riuscivano a rendere tonda la gravità del suono, e per quanto i due si impegnassero, per quanto si guastassero la gola cercando di riempire il vuoto lasciato dal compagno, nient’altro ottenevano che un canto falso e fiacco, le cui note tradivano l’ideale profondità dell’ululato, ne snaturavano la terribilità e la risonanza. Il compito si era fatto insostenibile, e il Primo pensò che era inutile continuare così, se solo in tre potevano riuscire. Si fermò, e pochi secondi dopo anche il Secondo ammutolì. Tutti e tre rimasero zitti, fermi dov’erano nella radura, mentre attorno a loro la boscaglia ridonata al silenzio iniziava a riempiersi di nuove voci, intonate dal coro diverso e più ricco delle bestie: si riusciva a distinguere, sopra il cinguettio costante e eguale degli uccelli, l’improvviso ruggito di un lontano predatore, il bramito terrorizzato della preda in fuga, il grido folle e solo della scimmia; ma l’orchestrina, che sedeva per terra in mezzo all’erba, non ascoltava queste note, e attendeva impaurita un solo suono: quello sordo e secco dei passi di Pietro, che a breve avrebbero percorso la boscaglia, e l’avrebbero percorsa per punire.

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Lucy | Angelica Damiani

 

A differenza delle altre mattine M. spalanca gli occhi al settimo squillo della sveglia. Al suo fianco un corpo femminile snello e perfetto giace immobile, assopito dal sonno. Prima di alzarsi lo contempla. Come di fronte a una scultura frutto del genio umano, si domanda come sia possibile che quella pelle vellutata non abbia l’ombra di un’imperfezione.
Osserva i seni pieni e simmetrici, le lunghe gambe, i lineamenti dolci del viso. Non può desiderare di meglio. Dalla finestra del quarto piano case e tetti avvolti nella nebbia.
Non soffre il freddo, ma tira il piumone fino a coprirle il collo, non vuole rischiare prenda colpi d’aria pericolosi.
Sono le 7.15, i figli dei vicini al piano di sopra corrono già per la casa, il soffitto vibra, ogni volta M. ha la sensazione possa crollare da un momento all’altro.
Anche lui desidera un figlio, non una di quelle bestie simili a cavalli, ma una creatura eterea, di cui prendersi cura, a cui donare il proprio amore. A Lucy non ne ha mai parlato, ma conosce bene la situazione, questo è fuori discussione, lo sapeva fin dall’inizio.
Non è un problema, lei l’ha accettato così com’è. Non le importa del suo stipendio, dei vapori acri sprigionati dalle macchie sui muri dovute alla pioggia.
Dal primo giorno, in quello spazio di quaranta metri quadrati, si sono presi cura l’uno dell’altra. Coccolato da quelle mani setose e quelle unghie curate, ha capito cosa significhi avere qualcuno accanto, qualcuno a cui raccontare le giornate sempre pronto ad ascoltarti.
Le pareti bianche della casa si sono annerite con il tempo, riviste e poster tappezzano pavimenti e pareti così che è difficile distinguere le une dalle altre. Non fosse per l’allergia, M. avrebbe voluto un gatto. Il giorno in cui aveva deciso di prenderlo è andato nell’appartamento dove si trovava la cucciolata. Gli occhi hanno cominciato a lacrimare e gli sternuti si sono susseguiti uno dopo l’altro, fino a quando è corso via.
A giorni alterni si domanda se Lucy provi gli stessi sentimenti, poi la guarda, e tutti i dubbi svaniscono volatilizzandosi dalla testa al pulviscolo atmosferico.
Non escono mai di casa, M. a stento può permettersi cibi in offerta e prodotti da discount. Non che prima le cose andassero meglio, ma l’ultimo investimento ha sancito il suo tenore di vita.
Tra due settimane arriverà il compenso di febbraio. Per festeggiare il loro terzo mese ha già in mente la serata, tra piatti da gourmet che cucinerà lui e vino rosso. Finalmente potrà regalare a Lucy la collana con tre fiori stilizzati. La fissa dalle vetrine della gioielleria ogni volta al ritorno da lavoro. Quel ciondolo semplice e magnetico, da subito lo ha desiderato per la sua Lucy.
Per tutta la casa sono sparsi sul pavimento i vestiti della sera prima, la camicia e i pantaloni di M., le mutandine e il reggicalze che voracemente le ha strappato di dosso, il vestito nero aderente.
A quel pensiero M. ha un’erezione, sente il desiderio salire dalle viscere. Vorrebbe possederla all’istante, ma Lucy dorme, non se la sente di svegliarla. E poi è tardi, questa mattina ha già perso troppo tempo.

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Vocabolario della fine | Caterina Migale

Tutto quello che riuscivo a vedere era una V maiuscola. Sapevo che si trattava della prima lettera della parola Vocabolario, inscritta sulla copertina del manoscritto, ma preferivo credere fosse l’inizio di Vittoria, la nostra vittoria.
Continuavo a scavare, tirando via cumuli di terra e frammenti rocciosi mentre Alice, Leo e Tata ridevano come pazzi; le loro voci echeggiavano nella grotta caricando l’aria di una vibrante isteria, quasi a voler riempire la somma dei nostri vuoti, in attesa che l’esistenza si riappropriasse del senso perduto. Duecento anni prima, l’animo umano era stato squarciato e il suo contenuto gettato tra le gigantesche fiamme di un fuoco ingordo; la realtà aveva perso i propri colori e il Grigio era diventato il nuovo ed unico sentimento, la nuova ed unica emozione; le imperfezioni dello spirito erano state proibite da una Legge che noi, esplorando quella grotta e riesumando quel vecchio dizionario, avevamo violato.

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I Vertumni in topless | Rodcinque

«Non si dovrebbe mai scopare per gratitudine.»
Stava assumendo la forma di chi ti prende per il culo. Quell’uomo di settant’anni, nudo e fiero come le statue delle piazze e altre cose vecchie, bloccato nel flash del momento, stregato da qualcosa che non era lì. Però era nudo e non era il caso. Anche il suo sbattersene era sincero. Per noi diventò irresistibile. Gli davamo più o meno il fantomatico “lei”, in formule discutibilmente ibride, del tipo:
«Scusi signore, ma che cazzo sta facendo?».
Non lo turbava. Ci snobbava cancellando i passi giù per una breve discesa. Gli stavamo talmente dietro da renderci conto che si andava verso un delirio di sagome.
«Lampedusa, tu ti trastulli altrove; fossi qui, ti sentiresti a una festa da McDonald’s.»
Volevo fare il simpatico. La ressa se ne stava lì, e si sporgeva a forza di zoom nella nostra direzione. Smantellavano le strade con bozzetti argentati. Un lamento cigolava fra gli angoli bianchi di quei capelli. A colpi di treppiede, buffetti sulle ruote e frustate di dentiera, orde di anziani ansimanti incedevano contro il sole. Ordinati tipo una legione di Immortali persiani, lenti come l’esercito di terra cotta di quel famoso mausoleo cinese. Un cronista avrebbe detto che «infuriavano, infuriavano dipinti fuori da sé stessi, desnudi e particolarmente affaticati». Non ci spostammo finché tra loro e noi si creò una distanza di circa duecento metri. A quel punto, divenuto evidente che ci avrebbero arati nel giro di un’ora se non ci fossimo mossi, prendemmo una rincorsa eroica, con quella sincera disperazione di quando c’è in gioco la vita. In fondo potevamo essere in pericolo, no?

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