La particolare abilità di Luce

Luce è sotto la doccia da un po’, rilassata, con il getto ad alta pressione che le colpisce la schiena. Le piace bollente. Raccoglie l’acqua nelle mani unite a coppa e prova a manipolarla, poi allarga piano le dita ma non succede niente, l’acqua le cade sui piedi, immutata. Non riesce ad agire sui liquidi.
Si avvolge nell’accappatoio dell’albergo, immersa in un denso nembo di vapore che nasconde ogni cosa. È corto, così lo allunga tirando verso il basso il bordo inferiore, e gli aggiunge anche un cappuccio, modellando il tessuto come fosse creta. Si asciuga lentamente, a occhi chiusi, e poi spara l’aria calda del phon sui corti capelli biondi.
La camera è piccola, chiara, luminosa. Se il letto avesse dei sentimenti ora proverebbe nostalgia del suo corpo; ha dormito talmente poco. Nell’agitazione notturna Luce ha scalciato lenzuola e coperta sulla moquette, e là sono rimaste. Si sente ingrata, quel letto è molto comodo. Così lo rimette a posto.

Raccoglie l’acqua nelle mani unite a coppa e prova a manipolarla, poi allarga piano le dita ma non succede niente, l’acqua le cade sui piedi, immutata. Non riesce ad agire sui liquidi.

Si veste senza badare agli abiti, come al solito, rivivendo con la mente quello che ha sognato. La casa di legno marcescente, l’aria da respirare che non le basta, un prurito a un polso. Grattandosi si graffia; solleva un lembo di pelle, lo tira con le unghie e scopre una carta geografica sottocutanea, continua a spellarsi fino al gomito, fino alla spalla, si sbuccia scoprendo linee, colori, città, nazioni, confini, fiumi, laghi, oceani, monti, pianure su tutto il braccio sinistro, respira oltre la propria capacità, sovraccarica i polmoni, va in iperventilazione.
Pettinandosi davanti allo specchio del bagno, fissa il riflesso di quel braccio; quell’arto geografico di cui non è riuscita a leggere neanche il nome di un luogo. La sua seconda pelle è una mappa indecifrabile. Poggia il pettine di metallo sul ripiano e controlla meglio il braccio, alla ricerca di un segno rimasto sull’epidermide, ma non trova nulla. Riprende il pettine senza manico, tenendolo dalle due estremità, lo tira verso l’esterno e lo allunga, allarga i denti con le dita e, una volta ottenuta la forma che desidera, ricomincia a ordinarsi la capigliatura.
Si affaccia alla finestra. Un silenzio irreale permea il panorama, in un’alba dai colori inverosimili. Genova è viola come un occhio pesto. Sembra un pesce che prova a uscire dal mare arrampicandosi su una collina verde. Un pesce volante viola.
La ringhiera alla quale si poggia ha delle croste di ruggine che la deturpano, dandole l’idea di un corpo in decomposizione. Scrosta via quel sudiciume rossiccio facendo ricomparire la tinta originaria, torcendola qua e là per donarle una nuova forma. Sospira.
La sua contemplazione da sesto piano genovese è interrotta dal trillo del telefono in camera. Le dicono che c’è una chiamata per lei: sua madre. Sbuffa e se la fa passare; sapeva che non avrebbe atteso molto prima di usare il numero che le ha inviato per messaggio, ma sperava di avere qualche ora in più di silenzio.

La sua seconda pelle è una mappa indecifrabile. Poggia il pettine di metallo sul ripiano e controlla meglio il braccio, alla ricerca di un segno rimasto sull’epidermide, ma non trova nulla.

– Luce, cosa ci fai a Genova? Perché sei là?
– Devo pensare, ma’.
– E non puoi pensare a casa?
– Ho bisogno di stare sola. E volevo vedere il mare.
– Sei sicura di voler prendere una decisone?
Tenendo il telefono tra la spalla e la testa, apre il portatabacco, mette un filtro fra le labbra, prende una cartina e ci distende sopra un mucchietto di tabacco.
– Sì. Devo farne qualcosa.
– Il tuo potere non è assoluto. È incompleto. Non puoi modificare quello che ti pare.
Appena sente la parola potere inspira con un improvviso risucchio di naso e trattiene l’aria per un po’ prima di ricacciarla, respingendo il fastidio.
– Lo so già.
– Ricordalo sempre. Abbiamo fatto tutti gli esperimenti possibili. Soltanto i solidi, Luce, soltanto quelli riesci a cambiare, non fare stupidaggini.
Posiziona il filtro su un’estremità della cartina e la chiude, senza bisogno di saliva.
– Mi sono diplomata e ora devo decidere cosa voglio fare, tutto qua. E voglio farlo da sola stavolta. Ho diciott’anni ormai, non farò cazzate, non ti preoccupare.
– Dici sempre così: non ti preoccupare. Poi devo correre ad aiutarti perché esageri con la concentrazione e ti senti male.
– Parli di cose vecchie.
– Io sono vecchia. E noiosa. Ma tu lascia stare liquidi, gas, vegetali e animali, non ti forzare.
Prende l’accendino e incendia la punta della sigaretta. Aspira osservando la fiamma che mantiene viva, tenendo pigiato il pulsante.
– Ripeti sempre le stesse frasi.
– Lo capisco che hai voglia di stare lontana da me, ti senti oppressa. Ma ti sto proteggendo, da te e dagli altri, nient’altro, e lo farò finché potrò.
– L’antimateria ti saluta, ma’ – e interrompe la telefonata.
Poi, con la sigaretta fra le labbra, prova ad afferrare la fiamma con due dita, bruciandosi, e l’accendino e la sigaretta cadono a terra.
Non è un potere, ripete più volte nella testa, soltanto un’abilità… limitata.

Indossa la giacca di pelle sintetica ed esce dalla stanza chiudendo la porta. Si ferma e si volta di scatto; ha dimenticato la chiave della camera. Ci pensa su e decide di lasciarla dov’è per non correre il rischio di perderla. Dà un’occhiata al corridoio lungo e vuoto, affonda la mano e poi il braccio nella porta, trapassandola, mette la sicura dall’interno e se ne va.
Appena fuori raggiunge il centro della piazza per guardare meglio la struttura dell’hotel a quattro stelle in cui ha deciso di soggiornare a tempo indeterminato; la disponibilità illimitata della carta di credito le permette questi privilegi. È un edificio antico, lo ha scelto perché ne apprezza il lavoro di restauro. Le piace. Luce vuole bene alle cose.
Un taxi le si ferma davanti e ne viene fuori una bella donna in abito da sera, con evidenti postumi da sbornia. Decide di farne a meno e si dirige verso la fermata degli autobus. Vuole mescolarsi nella folla. Camminando estrae dal portafogli un vecchio biglietto usato, passa un dito sull’inchiostro dell’obliterazione che svanisce.
Mentre attende l’arrivo del mezzo pubblico viene tirata su la saracinesca di un negozio e il suono metallico delle cerniere la infastidisce.
– Dovrebbe oliarle – suggerisce al proprietario assonnato. Ma quello non capisce di cosa sta parlando e solleva le spalle.
– Le cerniere – aggiunge indicandole, come se fossero visibili.
– Con tutto il da fare che ho… – le risponde infastidito, borbottando altro di incomprensibile, prima di sparire dentro la bottega.
Sull’autobus ci sono soltanto persone anziane e qualche sudamericano. Sembra un ospizio mobile, compreso di badanti. E che sguardi arcigni hanno quei bianchi nonnetti, sembrano tutti di pessimo umore. Tra salite e discese di una città acquatica, decide di essere arrivata alla meta, senza badare alla fermata, scegliendo la più consistente concentrazione di persone per strada.

Da molto non tornava a Genova. Con un lieve senso di spaesamento, ferma sul marciapiede, attende qualcosa che la indirizzi. Sente una musica e si ferma davanti a un negozio di dischi che espone una chitarra in vetrina. Là dentro il volto del cantautore impegnato è dappertutto. Luce tende l’animo idealista al suono di quelle parole che esplodono di libertà, inondando le strade. Adora De André.
Ritorna a passeggiare sulla via, ripensando alle teorie che negli anni la madre ha formulato su quello che definisce il suo “potere”. Non hanno mai compreso perché Luce riesce a plasmare le cose e forse non lo sapranno mai. È un puro processo artigianale, di deformazione della materia, un lavoro manuale, non mentale. Troppe volte si è posta domande sulla propria natura, ma questo è il momento di chiedersi dove potrebbe portarla questa dote. Attraversando bancarelle di libri, film e dischi, divincolandosi in un mercato che vende frutti di mare e pesci ancora boccheggianti, raggiunge una panchina libera su cui accomodarsi.
Ammira l’orizzonte e le navi che segnano tracce armoniose sul mare, mentre il vento sposta le nuvole e il sole cambia posizione, e immagina di vedere entrare nel porto la Corsica, dando pacche sulle spalle a migliaia di persone che approdano sulla terra dei poeti e dei navigatori. Sono Luce, annuncia ai nuovi arrivati, una ragazza taumaturgica che può modificare gli oggetti e attraversarli, scherzando racconto che la mia pelle è rivestita di antimateria. Non voglio vivere sotto strati conservativi, voglio un obiettivo ed essere determinata a raggiungerlo. Ne ho bisogno in ogni sostanza, in ogni molecola, in ogni atomo che mi costituisce.
Non l’ha mai detto a nessuno e si ritrova a riflettere sui modi in cui può usare quel bizzarro talento. Le viene in mente di tutto, idee facili e convenienti; potrebbe arricchirsi senza sforzo, ma per lei sono cose che non contano. Materialismo è un concetto a cui dà un significato personale, diverso da quello comune; quel termine ritorna spesso nei suoi pensieri ultimamente, ma con un altro significato. Amore per la materia. Padronanza della materia. Il materialista è un guerriero che lotta in nome della materia. Il materialismo è la religione della materia.

Materialismo è un concetto a cui dà un significato personale, diverso da quello comune; quel termine ritorna spesso nei suoi pensieri ultimamente, ma con un altro significato. Amore per la materia.

– Lucia!
Solleva lo sguardo e nota la figura longilinea che le sta di fronte. Non si era accorta di quella ragazza vestita di rosso, con giacca sagomata, gonna stretta, gambe da fenicottero, stivali col tacco, lunghi capelli fluenti e giganteschi occhiali da sole.
– Non sono Lucia, mi hai scambiata per qualcun’altra.
– Invece sei proprio tu, andavamo a scuola insieme, alle medie. Sei sempre uguale. Io sono Clelia, non ti ricordi di me? – e toglie gli occhiali, come per smascherarsi.
– Clelia? – riflette lei – ma certo, scusami, non ti ho riconosciuta. Comunque il mio nome è Luce, non Lucia.
– Ah be’, ci sono andata vicina – le risponde sorridendo, con una bocca larga che mostra tutta la bianca dentatura. E le si getta accanto, si strofina sul suo fianco e l’abbraccia, come fossero state amiche. Luce prima si irrigidisce, ma dopo un attimo diventa accomodante.
– Che ci fai a Genova, anche tu vivi qui adesso? Io abito da sola in un grande appartamento di fronte al mare, proprio come desideravo.
Clelia sembra non respirare quando parla, le sue parole sono un unico flusso senza pause.
– Sono qui per qualche giorno.
– Che peccato, potevamo vederci, fare qualcosa di bello insieme, ti avrei fatto conoscere delle persone, io ne conosco tante. Esco tutte le sere. E cosa studi? Ti sarai iscritta all’università, eri brava a scuola e leggevi un sacco, stavi sempre con un libro in mano, così seria… mica pensavi a divertirti – dice con sparuti risolini.
– Università? Non lo so, ancora non ho deciso… però ci sto pensando.
– Io frequenterò il DAMS, indirizzo cinema, i miei mi hanno fatto vedere un mucchio di film da piccola, mi è venuta questa passione, e poi magari mi iscrivo a un corso di recitazione. Ho anche pensato di scrivere un saggio cinematografico. Veramente l’idea è di un mio amico, ma lui non vuole neanche provarci, dice di non sentirsi in grado; per me è una stronzata, la verità è che è un vigliacco, ha paura che gli venga male. Io non gli rubo l’idea, eh, gli ho chiesto se posso farlo e mi ha detto di sì.
– Un saggio su cosa? – le domanda Luce, senza partecipazione.
– Su Gian Maria Volonté. Lo so che ne hanno già scritti tanti su di lui, ma questo ha un punto di vista originale: il simbolismo delle sue morti nel cinema. È morto in venti film e durante le riprese di quello che è diventato l’ultimo, è morto davvero. Li so a memoria, li vuoi sentire?
– Ok – dice perplessa. Non credeva che anche a lei piacessero gli artisti del passato.
– In ordine cronologico: – si lega i capelli in una coda e con entusiasmo comincia l’elenco – A cavallo della tigre, Un uomo da bruciare, Il terrorista, Per un pugno di dollari, Per qualche dollaro in più, Faccia a faccia, A ciascuno il suo, I sette fratelli Cervi, L’amante di Gramigna, Uomini contro, I senza nome, Sacco e Vanzetti, Il caso Mattei, L’attentato, Giordano Bruno, Lucky Luciano, Actas de Marusia – Storia di un massacro, Todo modo, Il caso Moro, L’opera al nero – concludendo con grande soddisfazione.
Luce invece ha la sensazione di una porta che si chiude, di una lampada che si spegne, di un lavandino che si ottura. Non sa cosa dirle. Clelia è teatrale in ogni gesto e in ogni posa che assume, sembra la caricatura di se stessa. Vorrebbe che se ne andasse, che la lasciasse con i suoi pensieri, che la smettesse di rintronarla con tutte quelle parole. Ma non lo intuisce e ricomincia a parlare, come se avesse la necessità di riempire ogni spazio di silenzio.
– Quando Volonté muore si sacrifica per esaltare il senso profondo della storia. Si immola per il personaggio, si martirizza in nome dei suoi ideali, diventando una bandiera rivoluzionaria. Morendo stabilisce un collegamento tra la sua arte e la vita. Sceglie i copioni per impegno civile, recita per denunciare i mali della società. Ne parlo come se fosse vivo perché è un simbolo immortale, quello della ribellione nell’arte cinematografica. Se pensi che è morto mentre girava le scene di un film, ti rendi conto di quanto la carriera sia stata per lui un’autentica missione.
E Luce strabuzza gli occhi. Riflessioni del genere meritano tutta la sua attenzione. Anche lei sa esprimere complessità e contrasti, considera, forse è meno banale di quanto sembra.
– Posso farti una domanda? Oltre questa ovviamente – riprende Clelia, dopo essersi voltata bruscamente.
– Volevo dirti che il saggio potrebbe essere davvero molto interessante, comunque sì, fammi questa domanda.
– Ti sembro strana, vero? – dice cambiando tono di voce ed espressione.
– Strana? Be’, non parlavamo mica tanto alle medie, quindi…
– Lo sai dove stavo andando? – le chiede all’improvviso, rimettendo gli occhiali e mordendosi le labbra.
– Come potrei saperlo? – ma le è chiaro che sta accadendo qualcosa di insolito.
– In questura, a denunciare per stalking quel tipo seduto in macchina – e per indicarlo fa un impercettibile cenno con il capo.
Luce non si volta per guardarlo, sa di non doverlo fare, nei film non si fa mai in certi casi.
– È più grande di noi… sposato, e ha dei figli. Mi sta facendo impazzire. Speravo che vedendomi parlare con una persona se ne andasse. E invece no, non si muove. Ma ora mi muovo io, devo andare – e libera i capelli dal nodo, per coprire il viso.
– Dici sul serio?
– La vita è difficile, Luce. I soldi sono indispensabili e non tutti siamo fortunati come te che hai una famiglia ricca alle spalle.
– Mia madre è ricca, mio padre non so neppure chi è. Ma che c’entra questo con quel tipo?
– Sono una escort e lui ha scoperto dove vivo.
Luce schiude la bocca per dire qualcosa ma non le esce fuori neanche una parola, sono cose di cui non sa nulla, e batte le palpebre rapidamente.
– Scusami, forse ti ho sputato addosso il mio segreto perché tra poco dovrò dirlo a degli estranei per potermi difendere da quel maniaco, ma tieni la bocca chiusa, fammi questo favore – e si alza di scatto, allontanandosi a grandi falcate, prima che riesca a domandarle se desidera essere accompagnata in questura.
Luce rimane seduta, interdetta, e la osserva sparire nel caos urbano, notando una macchina costosa che segue la sua scia. Si rulla una sigaretta e la accende senza distogliere lo sguardo, finché tutto si perde in ciò che non può vedere.
Abbassa gli occhi sulle proprie mani, interrogandosi su cosa potrebbero fare per aiutarla. Non lo sa. La sigaretta fuma tra le dita di una mano e l’accendino è nell’altra. Ogni volta la prima boccata è al butano, pensa. Quanto gas ha aspirato durante la combustione di tutte le sigarette fumate? Quanti accendini ha inalato? E modifica l’accendino, dandogli la forma di una sigaretta, con la parte metallica a fare da filtro.

Balza in piedi. È germogliata una suggestione. In un fremito capisce come vuole usare la sua particolare abilità: concretizzare visioni, manifestare pensieri rendendoli tangibili, sorprendere, esporsi, esprimersi, estendersi sugli oggetti e, attraverso di essi, spogliarsi e forgiare se stessa.


Ogni cosa è malleabile per me, considera, dura soltanto all’apparenza, niente è indistruttibile, niente è definitivamente inutilizzabile. Torna a sedersi, scomposta. Si fruga nelle tasche della giacca, tira fuori il telefono e scrive a sua madre: Voglio creare ma’, lavorerò i materiali come nessun altro può fare, le mie opere saranno atti definitivi, creazioni immutabili. Sento di avere tanto da dare. Devo tirare fuori quello che finora mi è rimasto dentro, per essere parte di qualcosa, per capirmi e farmi capire, per volermi bene. Voglio iscrivermi all’Accademia di Belle Arti, indirizzo scultura. Andrò a Carrara. Stai serena. Ciao.

Illustrazione di Tiago Galo

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