Un metro quadrato di cielo blu

 

In una città triste, in un quartiere triste, è possibile che la prima giornata di pieno sole passi inosservata. Può anche succedere che si faccia notare, ma non si abbia il tempo di approfittarne.
Io, oramai, di tempo ne ho da vendere e poi il mio quartiere è famoso per essere trendy. Della città, invece, non ho granché da dire. Sono seduta sul davanzale della finestra, e ho voglia di una cicca.
So già che non ne troverò nel mio appartamento, sto cercando di smettere, se non altro per dare l’impressione di fare qualcosa. Guardo che succede nella corte interna dell’isolato: il tetto del garage dove l’estate scorsa qualche giovane dinamico ha piazzato delle piante che non sono sopravvissute all’inverno. Qualche gioco di plastica qui e là a completare il ritratto desolante di un prefabbricato. Un triciclo blu, un secchiello grigio e le palette rosse e verdi dei ragazzini del terzo piano ai quali ogni mattina, attraverso il soffitto, sento spargere la loro giovinezza fin sotto al mio cuscino. Se davvero la felicità sta nelle piccole cose, allora sia lodato il cielo che non si trovino lì ora, sul tetto, a riempire il vuoto con le loro urla stridenti. È che rimbombano, qui.

Se davvero la felicità sta nelle piccole cose, allora sia lodato il cielo che non si trovino lì ora, sul tetto, a riempire il vuoto con le loro urla stridenti.

La superficie del tetto bitumato è tagliata in due dai raggi del sole, grigio uggioso da una parte, scintillante dall’altra. Mi domando, tra l’altro, cosa diavolo si siano inventati questi mocciosi per conficcare quelle palette rosse e verdi sul tetto del garage. La caccia al tesoro è annullata bambini, c’è il cemento sulla spiaggia. Fra qualche mese, quando il sole sarà più deciso, l’afa diventerà soffocante ma adesso, comunque, mettiamo la felicità nelle piccole cose: il caldo timido emanato dal cemento è un balsamo per le mie ossa, fisse sul bordo di questa finestra che non conoscerà mai nient’altro che l’ombra.
Mi ricordo perfettamente quel primo giorno di primavera che, se posso dire, è stato il primo giorno non troppo lontano ad avere il privilegio di venire ospitato nella mia memoria. Non perché abbia approfittato di quella giornata, no, sono rimasta rifugiata in casa come ogni domenica. A suon di sei giorni su sette in laboratorio, sopporto più i neon che il sole. Il problema della domenica è che non cade mai a inizio settimana.
Sì, ho teso le braccia per due volte quel giorno, per poter sentire i raggi del sole accarezzarmi la mano fino al polso. Come potrei fare adesso, se ne avessi voglia. Ma di quella domenica me ne ricordo soprattutto perché diede inizio a quello strano fenomeno delle cocorite. Avevo ancora il mio lavoro in quel periodo, ma non avevo che quello nella vita.
E Bingo, il gatto.
Bingo è morto. L’ho trovato la settimana scorsa dietro la cornice delle aiuole all’entrata del palazzo. La zampa posteriore sporgeva un po’, irrigidita, altrimenti non l’avrei notata al rientro dal laboratorio.
È spuntata la vecchia del sesto piano, quella che tutte le settimane viene a suonare alla mia porta per dirmi signorina, come siete buona. Gentile com’è, mi ha detto buongiorno sorridendo. Io non ho risposto: fissavo il corpo del gatto, gonfio tra le cortecce di pino e gli arbusti sempreverdi, tristi d’estate come d’inverno. Non mi ha chiesto come mai non fossi a lavoro, quella mattina.
Ero appena stata licenziata e insomma trovare il gatto lì, sotto casa, era piuttosto grottesco. Avrà pensato che soffrissi nel vedere la bestiola senza vita, perché la sua mano mi sfiorò il braccio. Mi sono sforzata di non fare un balzo indietro, le membra flaccide delle persone anziane mi fanno venire la pelle d’oca. Mi sono voltata verso di lei per abbozzare un piccolo sorriso come si deve. Ho sempre pensato che sarebbe crepata prima del mio gatto, quella lì.
Per consolarmi, mi porse le palle di grasso per uccelli che aveva l’abitudine di portarmi ogni settimana. Mia cara, mi disse, per i nostri amici pennuti. Una volta mi presi la briga di spiegarle che solo le cocorite mangiano quelle palle e che le cocorite sono nocive per la biodiversità. Quando ho capito che non afferrava dove volessi arrivare, ho aggiunto che è per questo motivo che non si vedono più i passeri.  Lì per lì le ha fatto effetto.
Sono salita a cercare un sacco dell’immondizia e dei guanti di lattice.
Bingo amava la primavera. Aveva l’abitudine di portarmi degli uccellini che in genere non si dava la pena di uccidere. La primavera annunciava giorni fasti. In quella famosa domenica di primo sole, mi portò una cocorita, bell’è morta questa volta. Mi ero alzata per aprire la porta ai miagolii, ed era lì dietro, fiero, con una cocorita tra le zampe. Non aveva tracce di sangue, né di sofferenza. Il suo piumaggio luccicava di un verde mela: era morta stecchita ma di una morte buona. Bingo entrò con l’uccello in bocca. Volevo quasi congratularmi.
Appena fu entrato divorò la caramella di piume, incurante del mio sguardo – sconvolto o affascinato, chi può dirlo. Il fatto è che di solito non li mangiava, gli uccelli.
Da quel momento, la situazione non è migliorata. Tornando dal lavoro, trovavo regolarmente delle piume verdi o gialle sul pianerottolo, a volte una o due zampe. Un’altra domenica, notai una piccola pallina verde sul tetto del garage. Ho visto Bingo avvicinarsi felinamente, poi, quando ho riguardato, entrambi erano scomparsi. Da allora, tutte le mattine ho preso l’abitudine di scrutare il tetto del garage. La scena si ripeteva, sempre uguale: cocorita-giace, gatto-che-striscia, gatto-afferra-cocorita, nessuna-traccia-del-crimine. Le cocorite morivano più o meno sempre nello stesso posto, dal mio lato del cortile. Sentivo che avrei dovuto punire Bingo per quel che aveva fatto, ma come fargli capire che lo avevo visto ingoiare la bestiola a crudo e che non si fa, quando veniva a miagolare dietro la mia porta e a sfregarsi contro le mie gambe con il suo portamento seducente? Non mi portava più cadaveri, li mangiava direttamente sul pianerottolo davanti alla porta. Cadevano sempre nello stesso punto, ho provato a scrutare il cielo ma niente, né cavi elettrici né altro, solo il triangolo delle Bermuda delle cocorite. Un metro quadrato di cielo, un metro quadrato di cemento.
Inoltre, risparmiavo sui croccantini.

Tornando dal lavoro, trovavo regolarmente delle piume verdi o gialle sul pianerottolo, a volte una o due zampe.

Ora che il compianto Bingo non è più di questo mondo, le cocorite si ammassano. Ieri mattina, giuro, le ho viste sfilare lungo il vetro, in verticale. Mi stavo versando una tazza di caffè in salotto, mi sono bruciata la mano e mi sono catapultata verso la finestra. Il tempo di aprire, in cielo: niente. Tre cocorite al suolo. Una in più rispetto al giorno prima, morta stecchita come le altre. Le zampette tese.
Oggi, terzo giorno dopo l’enigmatico decesso di Bingo, aprendo le tende, sul tetto: niente. Penso involontariamente al servizio di raccolta dei rifiuti e mi domando se i netturbini siano già passati a svuotare il bidone dove ho gettato il sacco dell’immondizia dal dubbio contenuto. Mi chiedo anche quante vite il mio gatto avesse già bruciato, prima di finire in quel sacchetto. Mi attardo un po’ sulle possibili cause della scomparsa della specie Psittacula krameri, penso alla velocità della loro caduta libera, a quello che si dice sulla lotteria e sui meteoriti. La probabilità, la fortuna e tutte quelle altre cose. Lascio la scomoda posizione sul davanzale della finestra. È l’ora di fare il mio solito giro al bar tabacchi all’angolo.
Da quando non compro più le sigarette, ci sono i biglietti della lotteria. Non vinco mai niente e pago due volte di più, ma almeno non mi gioco la salute. E poi i meteoriti, non si sa mai.
Infilo la giacca e vado verso la porta. Prima di spingere il battente di vetro in basso, proprio dove mi ero bloccata, inebetita davanti al cadavere obeso di Bingo, scorgo la vecchia del sesto piano. Lei non mi vede, né lei né i marmocchi del terzo ai quali sta parlando. Delle nuove palette di plastica blu e rosso fiammante poggiano sulle loro spalle. Le loro posture noncuranti e fiduciose, come se partissero a cercare un tesoro nello Yukon. Ascoltano attentamente le istruzioni della vecchia, ma non sento cosa dice. Ha un sorriso a fior di labbra. Uno dei mocciosi porta un sacchetto del Carrefour. Distinguo tre sporgenze attraverso la plastica bianca, non più grandi di un kiwi. Attraverso il bianco traslucido, del verde e del giallo.

Da quando non compro più le sigarette, ci sono i biglietti della lotteria. Non vinco mai niente e pago due volte di più, ma almeno non mi gioco la salute. E poi i meteoriti, non si sa mai.

La mano striata di vene della vecchia fruga in una sporta rosa. Come quando mi allunga le sue palle di grasso per uccelli, distribuisce delle caramelle a ognuno dei bambini. Ricevuto il dovuto, se la filano di corsa. Il braccio di quello che tiene il sacchetto ruota, la plastica descrive dei semicerchi nell’aria, sballottano all’interno tre piccoli pompon.  La vecchia guarda i bambini allontanarsi, poi vedo il suo sorriso rivolgersi lentamente verso di me. Un sudore freddo mi invade al pensiero che in una decina di secondi la sua mano magra e macchiata, la sua mano inondata di vecchiaia, si avvicinerà al mio corpo. È l’ora delle palle di grasso. Mia cara, per i nostri amici pennuti. Tre brividi mi accarezzano la spina dorsale.
Resto piantata lì come una stupida, seguendo con lo sguardo la vecchia che si allontana incespicando verso l’ascensore. L’odore rancido delle palle di grasso mi penetra le narici. L’ascensore si richiude, la signora comincia la sua ascesa. Rimango immobile ancora qualche istante, mi domando vagamente se in sua presenza mi sono mai lamentata di altro, oltre alle cocorite. Non saprei, dei ragazzini del terzo piano per esempio.

Foto di Maurizio Di Iorio
Traduzione di Viola Ottino

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