Questo, l’unico mondo | Elena R. Traina

This, the Only World di Charlotte Turnbull, pubblicato in lingua originale su Mslexia, vol. 86.

Traduzione di E. R. Traina

Il giorno prima che Sophie se ne andasse, lui mancava da casa da più di due settimane. La sera prima lei aveva accarezzato l’acqua che si gonfiava e agitava, il caldo e il freddo infrangendosi l’uno nell’altro; ciò che aveva creato lei, invece, era tiepido e mite. I bambini erano nudi sulla soglia del bagno. Ormai erano dei gran spilungoni; non poteva più tenerli in braccio insieme. Però erano ancora lisci e lattei, la pelle priva di imperfezioni. Si lasciarono fare le pernacchie sul pancino. Rotolandosi dalle risate, non se la sentì di inventarsi un’altra bugia sul perché non l’avevano ancora visto.
– Lo vedremo presto. Come sempre, no?  
Fu concisa e piena di rassicuranti paletti. Ci sperava. – Entrate nella vasca.
Ma si erano fermati, in silenzio, seduti con le braccia strette intorno alle ginocchia. Tutti e tre si guardarono. Si rese conto del suo errore. Si erano accorti del suo tentativo di confondere le acque.
– Ho preso un libro un po’ diverso, stasera – aveva promesso, aiutandoli a entrare nella vasca, insaponandoli, sciacquandoli, e avvolgendoli negli asciugamani puliti.
Si appoggiò contro il muro, seduta sul lettino che ancora si ostinavano a condividere, in mezzo a loro, stretti a lei nei pigiamini coordinati a fantasia natalizia nonostante fosse estate inoltrata. Piegò le ginocchia sotto il piumone e aprì un libro della biblioteca mostrando loro una foto della fossa delle Marianne.
– Questo qui può sopravvivere in piena oscurità, vive per tutta la vita là sotto. Non vede mai la luce del sole! – Indicò il pesce mostruoso, evocando creature da incubo che, nel pericolo, si facevano luce da sole. Non esisteva solo la sua, di luce.

Gli occhi dei ragazzi erano spalancati. Si prostrarono su di lei per scambiarsi qualche smorfia allegra.

Chiuse il libro con dolcezza. – E tutto questo esiste per davvero, in fondo al mare dove sguazziamo anche noi. – Inspirò nei loro capelli puliti e soffici, e li mordicchiò sul collo, dove soffrivano il solletico. Promise che li avrebbe portati al mare molto presto, convincendoli che questo, il loro mondo, era tanto affascinante e straordinario quanto il suo.
Si attardò a fare le valigie e, prima di andare a letto, puntò la sveglia presto, per partire alle prime luci dell’alba.

*

A mezzanotte, lui aveva spalancato la porta con così tanta forza da farla balzare a sedere ritta sul letto. Stava in piedi sulla veranda, chino sul suo bastone. Perdeva sangue dal naso. I capelli lunghi e filamentosi gli serpeggiavano sugli occhi mentre la pioggia si riversava su di lui. Sophie non poteva dire con certezza se stesse veramente piovendo, perché sapeva quanto gli piacevano gli ingressi teatrali.
– Ciao, tesoro.
Lei stava sulle scale, aggrappata al corrimano, sconvolta quanto ammaliata. Mentre cercava degli asciugamani puliti e metteva a bollire l’acqua, lui le mandò una sfera di luce a illuminare la cucina.
– Accendi la luce e basta – sbottò lei.
– Vorrei non essermene mai andato – mormorò lui, seguendola. – Quando ti vedo tutto il resto non ha più importanza. Le guerre, le campagne, le forze del male e i loro eserciti, i popoli in pericolo… Sembra tutto un gioco infantile quando sono qui con te.

Lei gli camminò intorno, cercando di non inciampare nel suo mantello grigio, disteso a onde sul pavimento. Entrò nella sala da pranzo, senza rispondergli. Aveva già sentito quella storia.

Lui raccolse lo strascico e si sdraiò sul divano mentre lei gli puliva il volto e le nocche con attenzione. Cercò di raccontarle di come aveva dovuto trovare un tale erede per un certo trono; come aveva messo fine alla tirannia di quel negromante; voleva che le importasse di un qualche regno dorato asservito da un mostro dispotico. – Sono stato rinchiuso per mesi in una torre; non l’ho voluto io. – Voleva che sapesse quant’era coraggioso, e quant’era difficile la sua vocazione. È così e basta insistette. Cercò di prenderle la mano ma lei se lo scrollò di dosso. Vide il labbro di lui tremare mentre gli metteva i cerottini sulla coltellata che gli segnava la guancia.
– Per favore, sussurrò lui. – Per favore.
Ma quand’ebbe finito, gli lasciò un bicchiere d’acqua sul pavimento vicino al divano e spense la luce. Che si arrangi con la sua sfera, pensò.
Lo so che mi ami ancora. – Nell’oscurità, suonò come la voce di un terzo bambino che non aveva voluto. – Non è cambiato niente – la pregò lui.
Era questo, il problema. Quando l’aveva conosciuto era così giovane; un vascello che traboccava ancora di perdono e ottimismo.
Ora si trascinò su per le scale; nonostante tutto, incapace di mentirgli. Lì, fino alla fine.
Non si era neanche degnato di chiederle dei bambini.

Il mattino dopo se n’era andato, ovviamente. Sul cuscino aveva lasciato un grazioso pendente di un minerale mutante proveniente da un altro regno, a forma di una creatura indefinibile. Lei lo ficcò in un vasetto vuoto di yogurt e portò fuori il sacco della spazzatura.
Infilò le chiavi della casa vuota nella cassetta della posta insieme a un biglietto con il loro nuovo indirizzo, chiedendogli di avvisarla per tempo nel caso avesse voluto vedere i bambini.

*

Portò i bambini a vedere sua suocera un pomeriggio di inizio settembre, prima del nuovo quadrimestre. Le avevano fatto una torta, e portato decine di disegni di suo figlio. Seduta sulla poltrona, la nonna li studiava attentamente dal suo grembo. Indicava qualche dettaglio; commentando com’erano stati bravi a immortalarlo, assecondando il teatrino. Sophie scorse un dito lungo lo scaffale di libri, cercando di non ascoltare, di non gridare.
Mentre i ragazzi erano fuori ad arrampicarsi sugli alberi, l’aveva seguita in cucina e aveva asciugato i piatti senza lasciarli scolare.
– Potresti darci una mano, adesso che siamo da soli? – chiese, e immediatamente si pentì di averla messa giù così, immaginando che impressione dovevano aver fatto le sue parole alle orecchie della donna.
– Nessuno vi costringe a rimanere da soli. In casa sua dovrebbe sentirsi il benvenuto.
Annuì. Da lei non si sarebbe dovuta aspettare alcuna comprensione. Dopotutto, se si fosse schierata dalla parte di Sophie, questo cos’avrebbe detto del suo lungo e vuoto matrimonio?

*

Non si svegliava più trovando sigilli di pietra sul tavolino, o rami di sorbo lasciati ad arrostire sui fornelli. Addio anche alle maledizioni da strofinare via dalla porta prima che se ne accorgessero i vicini.
Basta bugie.
Ma c’è un prezzo per ogni cosa. La novità della casa nuova aiutò i bambini a superare il trauma del cambiamento. Si erano ambientati bene, alla fine. Ma a volte le sembravano un po’ annoiati; guardavano molta più televisione; e non si aspettavano più l’inaspettato.

Stavano per uscire. I bambini avevano disegnato tutta la mattina. Il più grande aveva messo insieme un libro speciale, raccontando nel dettaglio i poteri di suo padre con la conturbante accuratezza dei bambini. Il mio papà e il custode di un bastone di lucce. E gentile e coragioso. Sconfige i dragi e trasforma i troll in pietra.

Se lo stringeva al cuore, questo devozionale di fogli A4 che lei gli aveva dato una mano a pinzare. Non riusciva a concentrarsi per giocare con suo fratello: non stava zitto, camminava avanti e indietro, aspettando che fosse l’ora di andare.
Lei incartò dei panini al formaggio e tagliò delle carotine. Aveva imparato a sfuocare lo sguardo per non dover guardare i disegni. Spesso si ripetevano. Lui, l’enorme triangolo grigio nel centro, e loro al suo lato stringendogli la mano: La mia famiglia. Ormai era abituata a ignorare le icone di quella trinità dolorosa e distorta.
Speriamo che papà ce la faccia, ma non è detto. Toccava a lei gestire le aspettative, perché a volte, quando andava bene, all’ultimo momento appariva una poiana che le mollava un biglietto di scuse. Se andava male, aspettavano per niente e dopo qualche ora tornavano a casa. Per questo portava sempre una distrazione, un piano di riserva; un nuovo giocattolo, o un fumetto o qualcosa di dolce. Troppi pomeriggi erano stati rovinati da un improvviso cambio di programmi.
Il piccolino le si avvicinò sventolando un foglio: – Mamma, mi scrivi “eroe”?

*

Allacciò le cinture ai bambini, che esultarono e cantarono sul sedile posteriore mentre passavano di fianco a fattorie e piccole proprietà fino alla brughiera. Ovviamente, lui la macchina non ce l’aveva. Viaggiava a cavallo; quella località remota faceva comodo a lui, mica a loro. Inoltre, in questo modo a lei non era concesso alcun attimo di tregua, un po’ di tempo per andare a tagliarsi i capelli o a fare una corsa. Poteva mai essere una coincidenza?
L’ultima volta che era tornato si era accorta che si era dato alla pipa. Aveva gli occhi rossissimi. Non aveva risposto a metà delle loro domande. Aveva mangiato quasi tutte le patatine, lo snack preferito dei bambini ai picnic. Non era riuscita a lasciarli da soli con lui per chiudersi a leggere in macchina. – Non farlo mai più.
Gli aveva sussurrato in codice la possibilità di andare per tribunali, ma la conversazione era rimasta in sospeso.
Si mise in spalla lo zaino pieno di cibo e acqua e fece strada tra le rocce. Seguirono il corso di un ruscello assottigliatosi dopo una lunga estate senza piogge. Camminarono lungo la cresta e attraversarono un prato d’erba secca in direzione del picco roccioso. I bambini spaventarono un branco di pony selvaggi facendo a gara tra di loro, colmi dell’energia che riservavano per il loro papà. Nonostante tutto, era un momento perfetto, vedere i loro due cuori pulsare di gioia pura all’infuori di lei. Per ora.
E poi lei si distrasse, cercando nel cielo i presagi alati del destino.

*

Era sdraiata sulla coperta da picnic. I ragazzi, sempre agitati, le danzavano intorno; seminando formaggio dai panini. Chiuse gli occhi al sole ardente dell’autunno, e offrì preghiere minacciose e blasfeme agli dèi dei mondi dei quali lei aveva solo sentito parlare: – Se volete lui, allora date ai suoi figli quello di cui hanno bisogno. – Un bagliore di luce bianca. Le nuvole si diradarono e lui era lì, galoppava attraverso il prato sul suo bianco destriero dalla criniera argentata spiegata al vento. Il bastone era alzato, il mantello grigio fluttuava. I bambini gridarono e corsero verso di lui. Lei li seguì, lentamente.

Permise ai bambini di fare un giro sul cavallo. Non fece commenti sulla mancanza di caschi o imbracature. Ricordò ai bambini di bere.

Lui agitò il bastone e sparò stelle di luce da acchiappare. Le luci si disintegravano nel nulla di cui erano fatte. I ragazzi presero il bastone e lo ficcarono nel suolo, facendolo tremare e dislocando un macigno. – Attenti – li ammonì lei, poi si voltò per mettere via i contenitori di plastica vuoti, preferendo non guardare.
Alla fine ritornarono da lei, in cerca di qualcosa da mangiare, o di un maglione per scaldarsi. Lui le chiese se aveva un antidolorifico.
Lui indicò una roccia e ordinò ai ragazzi di correre fino a lì; accettarono la sfida senza fare domande. La circondò con le sue braccia, e lei lo lasciò fare. Le baciò la fronte e lei non si tirò indietro. La stava mettendo alla prova, cercando di risolvere l’enigma che era lei; scorrendo un dito sulle rune scalfite sul suo impenetrabile viso di pietra. Voleva constatare se aveva ancora la mappa che indicava la via per la sua porta nascosta.
Lei gli diede l’unica chiave che serviva per arrivare al suo cuore: Torna a casa – disse. – Prepara la cena. Leggi loro una storia. Mettili a letto.
Aveva mal di testa, diceva; era sveglio da tre giorni, diceva; aveva promesso che sarebbe andato a trovare sua madre, diceva.
Lei annuì.
– I ragazzi sono tutto per me – disse lui in tono difensivo ora che aveva perso la sua occasione con lei, – ma ho un altro mondo da sistemare prima che possa stare con loro come ho intenzione di fare davvero.
– Cerca almeno di non dimenticarti dei loro compleanni.
Lei si tirò lo zaino sulle spalle. Non li guardò mentre si salutavano.
Sapeva che lui aveva sormontato la vetta per guardarla mentre caricava la macchina, mentre allacciava le cinture ai bambini, esausta. Per guardarli tutti mentre si inoltravano nella difficile serata che li aspettava.
Lei chiuse il bagagliaio. Solo quando alzò lo sguardo verso di lui, lui si voltò. L’aria si separò e lo vide scomparire attraverso un’accecante crepa nel suo mondo, che scintillò, chiudendosi dietro di lui, allettandola a lasciarsi alle spalle ogni cosa e a seguirlo. Anche lei ora era grigia e avvizzita, ma l’avrebbe seguito sempre e comunque; per qualsiasi altra cosa, invece, era rovinata.

*

La sera prima del compleanno del suo bambino più grande, prese il libro di magia rubato dalla casa della nonna ed evocò una galassia di stelle al piano terra, tutta per loro. Poi restò sveglia tutta la notte. Aspettava che si svegliassero, che si precipitassero in camera sua, che la trascinassero giù dal letto, al piano di sotto, per dirle che lui era tornato a casa e per mostrarle che cos’aveva lasciato.


Illustrazione di Juan Osorno

Víctor Rodríguez Núñez | La “nervosa ossatura di tutte le cose”

La poesia di Víctor Rodríguez Núñez, poeta cubano naturalizzato statunitense, è un richiamo naturale che si solleva mite tra gli strepiti della modernità. Ne Il quaderno del topo muschiato, edito in Italia da Taut – casa editrice milanese con passione «incendiaria» per stessa ammissione del suo direttore, Alberto Pellegatta, qui anche in veste di curatore e traduttore – lo sguardo di Núñez si rivolge allo spettro completo dei sensi; il significante della sua poetica è il mondo, venato da dedizioni particolari, dediche amicali che non escludono un suono diacronico fra il poeta e il paesaggio che lo ingloba. Núñez è, prima di tutto, un inventore: riattualizza il simbolismo di altri poeti ispanofoni – come gli «sciami di monete» di Lorca, per fare un esempio, ma la lista potrebbe essere lunga: in esergo al testo, Antonio Cisneros, Pigmeos, Anacreonte, René Char, Ana Ajmátova. Autori uniti dal loro comune interesse verso la sfera altra, dis-umana, che vede l’animale come naturale completamento dell’umano e non come essere a sé stante, escluso dal nostro inconscio. Questa zootopia, per usare un neologismo, è frutto di un attento gioco di rimandi che ha nell’oscillazione tra gli elementi il suo punto di forza. Núñez però li fa propri e li risignifica completamente, scrivendo un’opera del tutto originale e fuori dagli schemi. Se per Herbert il topo era il simbolo del declino della civiltà occidentale ne La città assediata[1], per Núñez è invece il preludio per un ricongiungimento con la sfera animale: la «nervosa ossatura di tutte le cose».

Se per Herbert il topo era il simbolo del declino della civiltà, per Núñez è invece il preludio per un ricongiungimento con la sfera animale, la “nervosa ossatura di tutte le cose.”


Non solo topi muschiati – o nutrie, che dir si voglia: l’immaginario «zoologico» dell’autore si popola di oche affamate, cani randagi, granchi mondani, salmoni cocciuti, conigli nottivaghi. Sullo sfondo, la morte, che per il poeta dell’Avana «cinguetta» una nota afona, priva di grazia, mentre la vita scorre come un fiume incontrollabile, che si protrae come la sua prosodia:

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Nessuno ormai si preoccupa delle piene
abbattimenti di nidi

                                   preghiera avanguardista

del fiume Agabama uscito a dismisura
è che il discorso ha proiettato le sue dighe
può trascorrere
con equanimità con nitidezza
l’erba e il tu hanno complottato
perché il fiume torni a essere
scabrosa dialettica
[…]
tua madre sull’altra sponda

                                   non ti lascia attraversare

Torna alla mente, leggendo questi versi, la scena meravigliosamente descritta dallo scrittore cubano Reinaldo Arena – anch’egli esule negli Stati Uniti – nella sua autobiografia, Prima che sia notte, quando la madre lancia maledizioni al padre del ragazzo, dall’altro lato del fiume. O ancora, il racconto del messicano Juan Rulfo, Es que somos muy pobres, nel quale il fiume che esonda scandisce un fondamentale passaggio tra vita e morte, «dialettica» appunto: il decesso degli animali, per chi è vissuto in campagna, rappresenta difatti la sciagura, poiché non soltanto sono fonte di sostentamento per gli uomini, ma parte integrante della nostra esistenza. Il paesaggio cui fa riferimento Núñez è però prettamente nordamericano, come si evince da altri versi dove torna il tema della fine della vita come principio ordinatore:

23

[…]
la vita è come un fiume dell’Oregon
termina in spuma

                        nello stagno repentino

la corolla dei venti profuma di muschio
gli sfinteri aprono
sbalzi di deposizioni d’uova controcorrente
la pioggia è la prova
che si deve rammendare il cielo.

Il decesso degli animali, per chi è vissuto in campagna, rappresenta difatti la sciagura, poiché non soltanto sono fonte di sostentamento per gli uomini, ma parte integrante della nostra esistenza.

Vi è, in questo senso, una proiezione degli accadimenti atmosferici come intrinseca prova di volontà, nel continuo rimando panteistico dell’esistenza all’opera d’arte, alla pittura: «un volo a spirale/ senza piacere né vertigine/ la cifra della tua carne.» Laddove le labbra del poeta si fanno «preghiera in marea», tutto appare al suo posto, in una ricostruzione ondivaga dell’universo, che ha, come in Whitman, la sua perfezione nella formica, così come nel granello di sabbia.[2]


[1] Zbigniew Herbert, Rapporto dalla città assediata: «Lunedì: magazzini vuoti, un topo è divenuto l’unità di valuta»

[2] Da Walt Whitman, Foglie d’erba:E la formica è ugualmente perfetta, come un granello di sabbia,/ come l’uovo di uno scricciolo,/ E la piccola rana è un capolavoro pari a quelli più famosi.»

Victor Rodriguez Núñez, Il quaderno del topo muschiato, Taut Editori, Milano
Traduzione di Alberto Pellegatta, testo spagnolo a fronte, 106 pagine