Assiduo anatomista della mostruosa fissità del mare,
Non puoi ancora vederlo sermoneggiare al riparo della nuca, a fior di labbra,
Legato dal serico filo dell’immutevole. Le parole escono asciutte
Senza che le turbi l’ennesimo volo di coppie griffate e tatuate,
Quali colombe dal cliché chiamate
Delle foto al tramonto: “Dài donne” strillano i cedroni, gli influencer, i legionari-alfa,
“Dài nostre benevole, Eumenidi precotte,
Un refolo di seno, però occhio al capezzolo, ché instagrammiamo tutto”;
Eseguono tra molli contumelie: libere schiave, valchirie da esibizione. Lui,
Poco più in là, seduto, immoto, lo slancio mastoideo
Svela i fonemi soltanto all’acqua sporca estuaria: “Per questa vita ho dato, disseminato
Granchi e psicoterapie, denti marci, spermi di Cadmo. Per questa vita butto lì il miocardio,
Lo getto come rete di posta che non tirerò per improvvisa ipotetica burrasca,
Lasciando che si ammalloppi alle boe. Pronuncio la formula nuncupativa
A uso del notaro divino: rinunzio per sempre ad amore di donna. La ripeto, faccio passare
Quei secondi di sacramentale silenzio”.
In casi simili, per il gusto pungente del dramma
Unito alla bellezza dei luoghi, Krishna non si fa attendere. Stasera ovviamente compare
In forma essudata di bagnino, capelli arbusto, rossa canottiera d’ordinanza, qualche lemma
In dialetto per depistare. Addormenta i remi e con voce rivelata, di miele salato ultraterreno,
Notifica a Bhishma che a questo giro, per questo vaudeville costiero, la rinuncia
Non gli darà poteri di vita o di morte su se stesso. Dalle tasche mézze, il divino balneare
Estrae una foto di lei, ancora velenosa e bellissima
In quel tailleur mortuario professionale; le lunghe mani stringono il cellulare
Nel ritrarsi, i polsi ossuti sono volate al galoppo, la pelle un bruckneriano
Tremolo di secondi violini dentro un inizio misterioso. E quel suo cielo contemporaneo
Soppalcato in cartongesso, casa o studio o alcova, emana una perlacea liquida soffusa
Anestetica promessa. “Però guarda bene, se spremi il cristallino
Puoi contornarne gli occhi sofferenti: gli stessi che foravano
Di gioia la carta da zucchero di Borgo La Croce. Quando l’infelicità di qualcuno
È petrolio che morde altrui ali, noi dèi non concediamo nulla in cambio, se non la punta di scalpello
Dell’intuito: ciò che in segreto chiedi di plasmare, il giorno di tua morte, è stato tre anni fa”.
Se ne va dalla scena tirando un bestemmione così spigoloso e odoroso
Da non riconoscerlo più –sicuri che sia lo stesso beato del Bhagavadgita?
Si slamma alle spalle con studiata veemenza la porta in legno che separa
La spiaggia dalla pista ciclabile.
Ben dopo la cadenza mestruata
Del crepuscolo, non si scatenano applausi né frasi d’oboe, ma lotte:
Ecco le Erinni del terrore, del senso d’impostura di fronte allo sfarzo libertino sul lungomare,
Pronto a sprizzare nottetempo orpelli e darwinismo sui cantoni del mondo.
La terza furia, che occuperà il tuo buio, è il cavatappi
Nello stomaco di una vita o creatività senza lei, una lunga brodosa ipertrofia prostatica,
Fatta di apnee, di gite ospedaliere, d’infermiere sboccate,
Del catetere di qualche orgasmetto di barberia, di qualche seghetta
Concessa con la mano dell’assassino, guardando indietro, pensando al visagista.
Povero Bhishma, raggirato dai celesti tecnocrati!
Hai ormai una sola carta da giocare, la nascondi
Ben dentro la sapienza epistolare e la promessa della prima uva.
Rimango affascinato dalla capacità di rielaborazione del dato letterario tradizionale e, insieme, dalla capacità di proiettrlo nel momento storico-socale…
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grazie Massimo. Il merito va ripartito equamente tra me e i Numi indiani 😉 un abbraccio
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