NON PLUS ULTRA | Oltre le colonne d’Ercole

 

 

 

Parte II

 

Illuminato dalle flebili luci delle candele, il rito sciamanico iniziò nel silenzio.
Il maestro prese in esame Isotta, le strinse le mani sudate, le punse i piedi con la coda dell’incenso e iniziò a parlare tenendo gli occhi chiusi, il volto in direzione di Ketut. Le sue affermazioni si rivelarono tutte corrette, di una puntualità esaltante. Sapeva del fratello maggiore di Isotta, conosceva l’affanno della ricerca di un lavoro attraverso cui era passato; nominò, in ordine corretto, le grandi città che aveva visitato: Londra, Milano, Ibiza, per tornare poi alla sua città natale, Palermo. Ketut tradusse in inglese, ad ogni pausa alzava il mento verso l’alto, con un semplice e contenuto dondolio della testa dichiarava il suo successo, come se avesse puntato sul cavallo vincente e fremesse dal bisogno di compiacersene.
Nel silenzio assordante della notte senza luci, il frinire delle cicale riprese prepotentemente volume. L’aria notturna era umida e carica d’acqua e sulla schiena di Gi si formò un rivolo di sudore caldo. Lo sciamano si voltò verso di lei, le afferrò con forza il dito del piede destro e iniziò, chiusi nuovamente gli occhi, a sciorinare un fiume di consonanti.
“SSHAHAAASHIIIIASHSSSSSSSHHHAAAA”
La giovane era esausta, si senti esterrefatta dalla consequenzialità travolgente degli eventi, dalla fisicità di quell’incontro. Si abbandonò con la schiena al muro, stendendo le gambe verso le mani tozze dello sciamano, non oppose resistenza a quella presa fastidiosa e sciolse i muscoli.
“SSSSSHHAAAHSHUUUUSHHHHUUUUUUHSHIIA”
Il suono sibillino raccolse a sé un gruppo ciondolante di ragazzini curiosi e inespressivi che si radunarono silenziosi, le bocche serrate e le mani unite in un groviglio di braccia. Si avvicinarono di pari passo alle spalle dello sciamano. In quel momento si avvertì una percezione emotiva prepotente animata da incomunicabilità e distanza, un canyon irto di timore e ritorsione recise indissolubile i partecipanti. Da una parte Gi, schiena al muro, avrebbe voluto svanire nelle trame della parete, a costo di lasciare il piede tra le mani dello sciamano; dall’altra, un mostro, quasi un ibrido antropomorfo.
Il maestro, dalle fisionomie grezze e il gruppo di bambini alle sue spalle, ondeggiavano guadagnando millimetri di spazio, avanzavano impercettibili, probabilmente fermi, le sembravano statuari, fusi in un’unica, duttile creatura alata. Così al contempo li vedeva tanti, prima protesi verso di lei, poi di nuovo statici e impenetrabili, ora invadenti e raccolti, lasciavano che il sinistro affiorasse cristallino dalle carni giovani, dalle guance paffute, dalla loro incongruenza a quella situazione. Come un filo rosso, la gamba nuda di Gi legava i due nuclei, lasciava che la profezia trovasse una terza volta sfogo attraverso il fiume viperino delle consonanti. Lo sciamano torse e schioccò la lingua, il suono le si arrampicò lungo il polpaccio, la coscia, le strinse i fianchi e i polsi, le serrò gelido la gola come un serpente.

Lo sciamano torse e schioccò la lingua, il suono le si arrampicò lungo il polpaccio, la coscia, le strinse i fianchi e i polsi, le serrò gelido la gola come un serpente.

La tensione si sciolse e le parole tornarono a fluire in un idioma comprensibile, pesarono il doppio nell’oscurità e presero consistenza con lentezza, si combinarono tanto aspramente da evocare la potenza archetipica di un incantesimo, il loro naturale potere magico le spogliò da possibili orpelli interpretativi, severo lo sciamano parlò con Ketut, pronto interprete:
«Morirai a trentacinque anni dopo sei anni di paralisi. Il tuo male è ancora silente ma presto prenderà il cuore e i polmoni, sarà il tuo cancro».
Le parole hanno un effetto in bocca e uno nelle orecchie, così distruggono e creano, similari nei suoni, antitetiche nei significati per chi le ascolta.
Quella notte presero presto altre sembianze, velocemente misurarono il loro peso fuori dall’elemento dell’aria, si tuffarono sino al fondale dell’Oceano Pacifico, tra i flutti del mare assunsero veloci la combinazione fonemica di un’antica ricetta orale tramandata per generazioni dai medici sciamanici dell’isola. Qui, alimentate dalle correnti più profonde, le parole evocarono la natura animale di uno squalo. Tra i varchi rocciosi del fondale marino esplose una nebulosa di sangue vermiglio e budella. Ne affiorò, sempre più nitida, la forma anatomica di un fegato e di una piccola sacca trasparente al cui interno un umore denso si rivelò alla luce. Mentre il sangue dell’animale si diradava sottile e i resti scivolavano morbidi sul letto sabbioso, la fisionomia della cura assunse la connotazione precisa di una possibilità di riscatto al presagio funesto di morte e sofferenza.
Le lettere tornarono allora in superficie, pregne di salsedine, grevi di contenuti, aleggiarono ancora una volta, sconnesse, sopra la testa di Gi prima di piombarle contro come una pioggia sottile di aghi metallici.

tavola 6

La chimera si lasciò seguire tutta la notte, ruggendo e scivolando padrona tra i tetti di Gianyar. I raggi lunari lasciavano intuire a tratti la testa di capra e il corpo deforme, a tratti le fauci feline e la spessa criniera. La coda squamata di serpente splendette vivida come un metronomo, scandì i suoi passi felpati rivelando impietosa la sua natura mutevole. Ritrovò Gi in un vicolo cieco, senza vestiti, rosea al pallore lunare, spoglia di ogni certezza.  Lei tremò e boccheggiò, nel tentativo sordo di implorare aiuto e rinvenire. Si dimenò come un pesce durante gli ultimi spasmi di vita, prigioniera delle lenzuola sudate, spalancò gli occhi nel buio della stanza ed esausta riprese sicurezza e respiro, osservando con cura gli oggetti sul comodino, le finestre accostate, il letto di Isotta vicino al suo, la piacevole sensazione che ogni cosa fosse al suo posto, non aggredita dall’universo onirico. Eppure, nonostante l’iniziale sollievo, rimase insonne fino a mattina, succube della percezione insanabile che quel giorno il mondo metafisico avesse arbitrariamente abbattuto un muro, a gamba tesa, disarmandola facilmente, lasciandola in preda ai deliri e alla profezia dello sciamano.
Non bastò aprire gli occhi per interrompere il timore che le aveva generato quella fiera nel delirio notturno, come non era stato sufficiente ignorare lo sciamano per dimenticarne la condanna. Durante quelle ore, in attesa che la sveglia suonasse, l’esperienza della sera prima si riassemblò vivida ai suoi occhi e bastò poco perchè ogni elemento della stanza svanisse nuovamente sottomesso al potere evocatore dei ricordi. L’ombra dello sciamano sistemò nuovamente gli strumenti vaticinatori muovendosi incorporeo tra i letti, replicò ogni suo gesto, mescolò il passato al presente, ripropose la sua profezia a scaglioni nel buio e quando finalmente venne la luce svanì tra i rumori del giorno, lasciando Gi straniata tra i pensieri e gli oggetti.

Spalancò gli occhi nel buio della stanza ed esausta riprese sicurezza e respiro, osservando con cura gli oggetti sul comodino, le finestre accostate, il letto di Isotta vicino al suo, la piacevole sensazione che ogni cosa fosse al suo posto, non aggredita dall’universo onirico.

Il programma del giorno successivo prevedeva una colazione frugale al mercato e la partenza durante le ore ventilate del mattino. Gyanar d’altronde non era stata presa in considerazione se non per una pausa ristoratrice dai chilometri percorsi, disegnato sulla cartina dell’isola sopra al nome della città era stato impresso con una penna rossa un punto interrogativo, sottolineato da una scritta recante il nome dell’ostello di Ketut. Il sospetto fu proprio di aver generato un quesito rimasto insoluto che ora aleggiava sulla città e pendeva a carico degli zaini, seguendone ostinato le tracce, celato dal riso amaro, il punto interrogativo di Gyanar si materializzava nei momenti di pausa e di silenzio.
Constata l’impossibilità di tacere l’argomento con allegra noncuranza, le compagne di viaggio iniziarono ad escogitare un modo per esorcizzare il malocchio e si rivolsero a tal proposito ad una figura altrettanto autorevole, riconosciuta a livello familiare nella loro piccola comunità come un mentore dalla personalità enigmatica ed eclettica. Un rappresentante che potesse contrastare con armi di pari livello la sentenza dello iettatore sciamanico. La decisione fu presa a seguito di plurime riflessioni pregne di una reverenziale consapevolezza, era ovvio che al rimedio sarebbe dovuta precedere una pesante filippica circa la decisione imprudente di aver acconsentito ad un incontro con uno sciamano del luogo.
In Indonesia, nelle comunità rurali, uno sciamano è ritenuto conoscitore di verità al pari dell’oracolo di Delfi, al contrario nella società occidentale moderna è difficile trovare un corrispettivo che non venga messo in discussione dalla cultura medico-scientifica. Eppure, taciuta da una patina scettica ed illuminista, si annida sotto al grande mantello degli argomenti tabù l’anima scaramantica dei piccoli rituali popolari, il substrato folkloristico delle dicerie e dei proverbi. Messa in campo, la secolare tradizione napoletana avrebbe reagito da oltre 15000 km via aria al vaticinio maledetto, salvo poi tornare a far parte del non detto fatalista.
La filippica risultò inclemente come previsto: perché non accontentarsi di seguire le vie del turismo ordinario?

Taciuta da una patina scettica ed illuminista, si annida sotto al grande mantello degli argomenti tabù l’anima scaramantica dei piccoli rituali popolari, il substrato folkloristico delle dicerie e dei proverbi.

Ciao.

Dagli sciamani, cartomanti o interpreti del futuro che siano, non bisogna mai andare in nessun caso, in nessun caso offrirgli ensazioni o condizioni personali, né tantomeno parlare a costoro di fatti e circostanze intime.
La buffa coincidenza è che la notte scorsa ho sognato − te lo racconto in sintesi − che la mamma, mentre salivamo una scalinata, cadeva battendo la schiena e non si rialzava più, rimanendo paralizzata. Eravamo all’estero, anche se tutto sembrava ricordare Napoli. A un certo punto del sogno mi ritrovavo nello studio di un mago, un chiaroveggente, un tipo alto più di me, riccioluto e con i baffi, insomma un vero moro che non voleva essere giudicato, non ammetteva battute sul suo conto. Benché avesse una nutrita corte di suoi scagnozzi tutti maschi, era tuttavia buffissimo nella sua solennità. Sulla testa aveva un piccolo cannocchiale tappezzato di gemme, e voleva convincermi a comprare una sorta di pozione per farla guarire, che in realtà era sapone per i piatti color orancio.
Uscendo da questo luogo senza aver concluso nulla, notavo una vecchietta che introduceva del sale dentro il cofano della mia Mercedes Cabrio, a mo’ di  malocchio. A quel punto, arrabbiatissimo, mi sono svegliato.
Dallo sciamano non si va!

Prendi del sale dando le spalle alla sua posizione geografica senza che nessuno ti veda, con la mano sinistra tieni il sale piccolo o grosso che sia nel palmo e con la mano destra prendi un piccolo pizzico e gettalo indietro, oltre le spalle, in direzione dello sciamano. Partendo dalla spalla sinistra, prosegui con quella destra. Ripeti tre volte, senza che nessuno ti veda. Il sale deve ricadere non sulle spalle ma a terra, dietro di te. Se a questa operazione accompagni la recita della parola “sciò” per tre volte avrai annullato ogni effetto malefico e di jella.

Poche ore dopo, seguì una seconda, breve mail:

Rispetto alla mail precedente, prendi tutto col beneficio d’inventario. Mi costringi, essendo superstizioso come tutti i napoletani, a un confronto ignorante. Invece bisogna essere evoluzionisti convinti come Darwin e non credere nelle suggestioni popolari prive di ogni riscontro scientifico.
Ci sono cose che non ci sono date sapere, soluzioni che la nostra mente limitata non può abbracciare. Noi apparteniamo agli atomi lucreziani. Al determinismo democriteo, ai secoli di cultura scientifica di cui siamo la progenie.

Al termine di ogni racconto si apre una pagina bianca.
Così Ulisse, al limitare del mondo conosciuto, prima di valicare le imponenti colonne create da Ercole a segnalarne i confini, ripensò all’intreccio che aveva ordito lungo il cammino, una trama densa di orme e parole.
Alle sue spalle, spirava fraterno il vento salato del Mediterraneo, la schiuma ne imbiancava la superficie. Affacciandosi trepidante, sull’oceano al di là di Gibilterra, Ulisse spinse lo sguardo in avanti, fin dove gli fu possibile arrivare con la vista. Quando si perse tra le onde e la foschia dell’orizzonte proseguì e con la mente impugnò la possibilità di scrivere un nuovo panorama.
In quel momento, per poco, vacillò all’idea di spingersi avanti ma volle conoscere di più, oltre il divieto che la natura umana gli aveva inflitto, oltre il Non Plus Ultra. La linea netta di confine, divenne poi una crepa indistinta, lui ne fu demiurgo e distruttore.
Chiuse gli occhi accecato dai raggi del sole, e per un attimo, quando li riaprì, vide ogni cosa bianca, come fosse una pagina ad inizio capitolo.

Link alla prima parte

Illustrazione di Olga Hendel

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