NON PLUS ULTRA | Le colonne d’Ercole

 

Come se cercasse una via di fuga, il soffio del vento si dimenò pulsante nelle strade. Il suo passaggio gonfiò i panni rigidi al sole e allungò verso il cielo le tende di una finestra. Prima impetuoso e deciso, poi scarico e lascivo, si disperse rapido con uno sbuffo di foglie e polline arancione. L’andirivieni del fiume d’aria calda echeggiava sulle pareti arse dal sole tropicale.
A tratti impercettibile, il turbinio spirava timido e pettinava le fronde della vegetazione cadenzando una sinfonia composita dai rumori delle stradine in cui si snodava. Di colpo protagonista, sembrava combattere la sua stessa fiacca e riunire a sé un impensato respiro per restituirlo con maggiore vigore ai cortili interni delle abitazioni, alzando cartacce e rifiuti di plastica. Quasi a ristabilire la gravità terrena, ogni angolo dell’orchestra tintinnò un’eco confusa. Ne seguì un ritrovato silenzio, le danze vorticose dell’aria si spensero con una flebile, rarefatta, ultima esalazione.

A tratti impercettibile, il turbinio spirava timido e pettinava le fronde della vegetazione cadenzando una sinfonia composita dai rumori delle stradine in cui si snodava.

Gi allungò il collo, fiduciosa di percepire almeno una nota di brezza sulla nuca, ma nel patio interno dell’ostello in cui aveva preso una camera assieme a sua cugina Isotta non si mosse un capello.
Il caldo torrido dilatava le ore pomeridiane nella città di Gianyar. Sul cortile rettangolare affacciavano le camere in affitto. Vicino a ciascuna porta il proprietario aveva posto un tavolo in plastica e due sedie. Presentavano mutilazioni dei braccioli, incongruenze zoppe e barcollanti delle gambe; la plastica, ustionata dai raggi impietosi, con il passare delle stagioni aveva subìto delle variazioni cromatiche a macchie informi.
Le due schiere sgangherate si fronteggiavano inutilizzate da mesi, era chiaro dalla polvere e dal registro delle prenotazioni che le ospiti erano le prime visitatrici dopo molto tempo. L’atmosfera complessiva era comunque permeata da un senso di familiare trasandatezza.

Supina sul letto, Isotta si era lasciata andare in un riposo senza condizionamenti. Sotto al fianco morbido e nudo era rimasta schiacciata la mappa stradale di Bali. Kuta e tutto il Sud dell’isola vibravano insistenti ad ogni giro di ventilatore, mentre il Nord e tutta la riserva naturale ad Ovest accartocciate dal peso dormiente.
Gi leggeva fuori, le gambe distese su uno sgabello, i capelli biondi raccolti con una matita. Voltò vorace la pagina del libro, vicino alla rilegatura si aprì nella cellulosa del foglio un taglio piccolo, il suono della pagina stridette improvviso. Con i polpastrelli della mano destra sfiorò i lembi separati dal taglio seguendone i bordi irregolari: era bastato così poco a dissolvere l’atmosfera del libro, riportarlo alla sua materialità di carta stampata e inchiostro nero. Si guardò svagata nel riflesso degli occhiali da sole posati sul tavolo e tentennò ancora un attimo prima di rituffarsi nella sintassi.
Nel giro di poche virgole il tessuto narrativo la avvolse e la trascinò a Mosca, dove Bulgakov racconta, il diavolo andò a fare visita.

Si guardò svagata nel riflesso degli occhiali da sole posati sul tavolo e tentennò ancora un attimo prima di rituffarsi nella sintassi.

Di colpo la maniglia della serratura scattò verso il pavimento e la porta che collegava l’androne alla segreteria si aprì lentamente. Si affacciò sul cortile il volto di un uomo di mezza età, gli occhi smeraldo rispondevano alla luce del sole con un ventaglio di sfumature caleidoscopiche, la pupilla si stringeva come la cruna di un ago. Rimase qualche secondo in bilico su un piede, osservando il profilo della giovane turista mentre sfogliava il libro in silenzio.
Ketut aveva iniziato a lavorare nell’ostello di famiglia da prima che fosse in grado di ricordare, protetto nel ventre della madre. Crescendo aveva svolto quei compiti domestici e organizzativi ripetendoli senza eccessivo zelo, con le stesse imprecisioni e dimenticanze con cui aveva esordito da bambino. Eppure, quel giorno, ebbe per poco la percezione di essere l’ospite e di dover chiedere il permesso prima di accomodarsi nel suo cortile. Mascherò la timidezza con ostentata disinvoltura, si fece avanti scattoso con un sorriso meccanico e si sedette sulla sedia di fianco alla turista. Ketut non aveva mai viaggiato in vita sua se non per andare a far visita ad alcuni parenti nella parte Nord Est dell’isola; eppure questo modesto ostello in cui viveva, gli aveva dato la possibilità di viaggiare stando fermo, incrociare lo sguardo curioso con chi di strade ne aveva percorse tante e si fermava per una notte o due in una delle sue camere. Gli era capitato di parlare con coppie adulte, giovani solitari o in gruppo e con delusione di percepire la noia nei racconti. In queste occasioni Ketut si sentiva a disagio, pervaso dalla delusione che queste persone fossero incomplete, alla continua ricerca di qualcosa che lui stesso non avrebbe soddisfatto o che si aspettassero la rivelazione eclatante, in tutti quei chilometri percorsi, di un goffo gestore di camere. La sua storia personale sembrava assumere un ruolo decisivo nell’intreccio multietnico delle vite degli altri. Cercava di rivedere i loro paesi d’origine, assorbire dalle loro parole la necessità frizzante di eludere i confini e osservare la specie umana sotto altri punti di vista.
Si presentò con un’audace stretta di mano, gli occhi languidi indugiarono a lungo, era evidente che lei stesse aspettando una motivazione a quell’incontro. In mano stringeva ancora il volume, tra una pagina e l’altra un segnalibro ricamato teneva il punto di lettura, Gi non ci fece affidamento e strinse la carta ruvida tra le dita, avrebbe proseguito volentieri senza ulteriori formalità.
La dinamica dei minuti successivi, se avessimo potuto osservala dal vivo, avrebbe fornito dettagli per comprendere meglio ciò che accadde in seguito e l’implicazione, forse maliziosa, di Ketut nella storia. I due si inerpicarono in una conversazione fitta e densa di riferimenti, il flusso delle parole perse il senso della circostanza. Parlarono a lungo del culto dei morti animista praticato nell’isola, un sincretismo unico al mondo, tradizione e folklore balinesiano permeavano la religione induista di matrice indiana in un contesto ricco di tradizioni antichissime ancora oggi vive e professate con culti e manifestazioni secolari in tutta l’isola.
Gi, ascoltando assorta le elucubrazioni di Ketut, avvertì più volte la certezza di essere attratta dai rituali mistici e taciuti al turismo ordinario come se avesse appena scoperto una scorciatoia segreta e intima verso i retroscena più lontani dalla cultura occidentale. Volle conoscere i particolari macabri sulle tecniche di conservazione dei cadaveri, si stupì di essere attratta dagli  angoli bui e nascosti delle credenze animiste, dai rituali esoterici e oscuri che si celavano dietro la quotidianità isolana. La materia si fece ancora più intrigante quando Ketut le parlò della medicina tradizionale che veniva praticata da una figura istituzionale nella vita del villaggio.
Solo la sillabazione lenta e carica di reverenza della parola “sciamano”, evocò in Gi le stesse percezioni mistiche che andava scoprendo tra le pagine del libro, si nutrì di ogni fonema e in un attimo restituì a Ketut un’espressione impaziente.

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L’androne dell’ostello divenne gradualmente buio, la luce diurna si fece flebile e incerta, il caldo tropicale più clemente e delicato, il profilo di Ketut affiorava morbido tra le ombre. In lontananza continuava a sentirsi il traffico cittadino. Sul tavolo, pettinato dal vento crepuscolare, le pagine del libro aperto lasciavano intravedere la copertina e la firma dell’autore. Fu in questo momento che Gi realizzò del tempo trascorso. Isotta era uscita da un po’, l’aveva salutata con un cenno senza allontanare lo sguardo dal volto di Ketut. Faceva già ritorno dal mercato notturno con un vassoio ricco di verdure speziate e riso.
Con Ketut pattuirono di vedersi la sera stessa per le undici, lui le avrebbe introdotte allo sciamano.

Con Ketut pattuirono di vedersi la sera stessa per le undici, lui le avrebbe introdotte allo sciamano.

La cena si svolse in un silenzio raccolto, il coinvolgimento emotivo di Gi nelle conversazioni pomeridiane l’aveva lasciata esausta e afona. Giocò con gli avanzi di verdure e i chicchi di riso nel piatto: associò tra i suoi ripensamenti un chicco ad un momento diverso dell’incontro con Ketut, li rimescolò a lungo, li mise in fila indiana. Si stupì di quanto non avesse proferito parola per tutta la durata della conversazione, eppure il monologo non aveva mai toccato punti morti e lei, che per natura si lasciava andare a voli pindarici e castelli di carte, ogni volta si era dimostrata un’attenta ascoltatrice. Tuttavia, e non nascose un certo imbarazzo per averlo pensato, era stata seccata dall’irruzione fuori programma nel suo spazio di lettura.
I chicchi di riso nel piatto furono sul punto di prendere una forma geometrica prima che li rimescolasse ancora in una spirale rozza. Il viso raccolto su una mano, lo sguardo perso e affascinato, ogni tanto abbozzava un sorriso. Isotta si chiese di sfuggita e senza eccessivo interesse cosa avesse il riso di così comunicativo, salvo poi riprendere a leggere la guida turistica. Le parole di Ketut rimbombavano sconnesse nella mente di Gi, non riusciva a figurarsi l’incontro ormai prossimo con lo sciamano e godeva adrenalinica nell’attesa che la natura del viaggio si rivelasse.

Dopo mesi di valige i vestiti perdono il loro colore originario, gli elastici si cristallizzano e ogni drappo di stoffa, con la stessa morbidezza di un asciugamano da mare dopo anni di salsedine, si inaridisce ricordando al tatto più una vecchia maglia d’orbace che un batuffolo di cotone. Gi e Isotta si vestirono difilato, la scelta era limitata e malconcia, ad ogni modo è bizzarro chiedersi quale sia l’abbigliamento adatto ad un incontro del genere. Andarono a chiamare Ketut nella sua guardiola all’ingresso dell’ostello. Socchiusa la porta dell’androne, i tre si avviarono senza convenevoli verso le moto. I sorrisi e le battute spensierate, i giri di parole consumati il pomeriggio si dissolsero con il calare della sera. Calzarono i caschi e scambiarono un ultimo, fugace, sguardo prima di accendere i motori. Lungo le strade illuminate e caotiche della città, come mosche, si divincolarono dal traffico statico e chiassoso della tarda sera, rallentando nei vicoli e lungo le vie brulicanti di persone e suoni abbaglianti. Il centro cittadino vivificato dal ronzio degli scooter fu tradotto in un ventaglio di percezioni simultanee, un palcoscenico gremito di maschere e costumi impastato dalla luce ocra dei lampioni. A quelle informazioni tronche, le straniere, a cavalcioni sulla sella risposero in silenzio, alienate e strette l’una all’altra. Dopo poco il panorama mutò: lasciarono alle spalle le arterie pulsanti della cittadina e alla voce delle strade e ai colori delle insegne si sostituirono le ombre notturne e i versi degli animali proprietari di quel tratto di vegetazione tropicale.

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La giungla fitta straripava dai margini dello sterrato disseminando grossi frutti dall’odore acre che, ai raggi dei fari, rivelavano sciami vibranti di moscerini e insetti più grandi. I mezzi si arrampicarono lungo i fianchi sterrati di una collina, tra banani, alberi di papaia e liane, procedettero in fila indiana fendendo ad ogni tornante gli alti muri verdi con gli abbaglianti. Il vento scompigliò i capelli che scivolavano a ciocche sulla nuca delle ragazze e le frustò dolcemente sulla schiena umida un’ultima volta prima che fermassero il motore, togliessero i caschi e seguissero a piedi la loro guida fino all’ingresso di un cortile.
Non una parola di complicità pattuita, né uno sguardo caldo al ricordo delle conversazioni pomeridiane, non un accenno. Quando arrivarono Ketut varcò risoluto il cancello e, imbracciato il casco, si incamminò con piglio virile ed espressione compunta, inscenando una sorta di marcetta sgraziata, probabile retaggio di qualche pellicola militare.
Il cervello di Isotta tesseva intrecci intravedendo poche possibilità di sopravvivenza, si chiese se sarebbe stata in grado di stendere un uomo colpendolo con il casco del motorino e si sorprese a tastare con le unghie il materiale interno dell’imbottitura e a verificare la resistenza della cinghia esterna. Elaborò un’equazione rocambolesca i cui coefficienti erano forza di trazione, il materiale dell’oggetto contundente e l’impatto sul cranio del guardiano dell’ostello. Ma rimanevano insolute le incognite: riflessi dell’aggressore e numero di uomini con cui avrebbe dovuto battersi per liberarsi e raggiungere il muro di cinta per mettersi in salvo.

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I tre ospiti arrivarono in un piccolo salotto sotto un porticato esterno con tappeti e cuscini porpora quando ormai Isotta fantasticava riguardo le prime pagine dei giornali europei, le indagini disperate di amici e familiari, le ricostruzioni degli inquirenti riguardo misfatti e retroscena del curioso guardiano. Si disincantò con il forte odore dell’incenso, lo sciamano sistemava con precisione metodica ogni cosa. Presero posto a semicerchio seduti a gambe incrociate sui cuscini e attesero in silenzio, Isotta rosicchiava le unghie.
Il maestro era un uomo solenne, dalle poche espressioni ermetiche, gli occhi neri, sottili e penetranti. I tratti somatici ricordavano una provenienza mongola o nord-asiatica piuttosto che indonesiana, la fronte bassa, quasi inesistente, inquadrata da spire di capelli neri, strideva con le proporzioni ampie del resto del volto: largo all’altezza della mascella, lasciava spazio alla bocca carnosa i cui angoli arricciati e disegnati da una sottile linea di baffi mori, gli attribuivano una smorfia ambigua, simile ad un sorriso. Dalla nuca tozza e unta di sudore, un rasta nero e ispido arrivava fino alla parte bassa della schiena. Gi lo osservò sistemare le offerte votive davanti ad un altare ligneo a Garuda, il Dio uccello che incarna l’ascesa dal piano materiale alla più elevata consapevolezza spirituale.
In quel momento di attesa e formale ospitalità ispezionò ogni dettaglio, sforzandosi di imprimere quei particolari nella mente. Si domandò quale fosse il percorso iniziatico che consacrasse uno sciamano e in che modalità differisse tra le varie comunità, se fosse eredità delle generazioni precedenti o frutto di una vocazione individuale. Forse condizionata dalla moltitudine di pensieri per la mente, avvertì un senso di profondo riguardo per la medicina tradizionale: il ritorno alla naturalezza degli elementi, ad un rapporto totemico con l’energia dell’universo mediato e traslato da un uomo in vece di tutta la comunità. Inoltre la sua cultura erboristica doveva essere immensa, una conoscenza orale centenaria, maturata da generazioni di asceti, vissute probabilmente nello stesso luogo sperduto.
Gi si guardò intorno, i ragionamenti di poco prima erano giunti al termine e le conclusioni l’avevano restituita al fiacco momento di stallo. Di colpo il maestro si voltò e le rivolse uno sguardo fulmineo che parve di rimprovero. Silenziò e trattenne il respiro prima di compiacere ancora quei pensieri galoppanti e osservare assorta la fronte del maestro. Poco sopra la linea delle sopracciglia, nel punto in cui aveva impresso una pennellata di vernice rossa, volle disegnarvi un grande occhio, l’iride indaco e la pupilla nera oltre il nero. Fu allora attratta da quell’idea, la porta verso le altre dimensioni, la visione ultrasensoriale e mistica cui aveva accesso quell’uomo tramite il terzo occhio.
Lo accompagnò fedele con lo sguardo in attesa che terminasse la cerimonia preliminare, ormai confidente e accoccolata sul cuscino, rimpianse di non avere con sé la macchina fotografica per testimoniare con orgoglio il prezioso momento, chissà non risultasse meno romantico riprodotto su uno schermo. Inspirò, il sorriso bonario che illuminava gli occhi si ruppe in una smorfia di ribrezzo. Alle pareti del porticato, davanti la schiena nuda dello sciamano, erano appesi diversi quadri, le dimensioni ampie, i colori intensi, sulle tele erano rappresentate visioni orrende di cannibalismo e violenza. Un’arcigna anziana masticava con ferocia il piede di un neonato sottraendolo alla madre. Gi trasalì. Gocce fredde di sudore bagnarono la fronte, il volto paonazzo e gli occhi vitrei, un’onda di calore le fece fischiare le orecchie: le immagini dei quadri si mossero sanguinose in quel banchetto di membra umane e neonati lacerati.
Sgranò gli occhi, fece leva con le mani sul tappeto, si voltò scattosa verso Isotta e, cercando di eludere lo sgomento, prestò attenzione alle parole di Ketut. Eccitato per l’imminente rituale vaticinatore, si dimenava sul cuscino gesticolando frenetico con le mani, allungava il busto dondolandosi verso il soffitto. Con un inglese elementare, storpiato dalla pronuncia indigena, a gran voce rivelò alle due turiste che un gruppo di asteroidi avrebbe colpito la Terra nel 2023, mietendo e decimando la popolazione terrestre ma senza determinare la fine della specie. Ketut reduce da questo drammatico evento avrebbe continuato a vivere in pace e serenità fino agli 85 anni. Non riuscì ad enfatizzare le note tragiche di questa catastrofe naturale e presentò il momento di protagonismo sotto una luce trionfale e celebrativa: Ketut il sopravvissuto! Ne era così convinto che non ci mise molto ad avere il consenso delle due ragazze. Se in quel frangente un asteroide infuocato avesse varcato l’orizzonte notturno non ne sarebbero rimaste stupite, in quella dimensione surreale ebbero entrambe l’impressione che potesse succedere di tutto. Dopo qualche minuto di monologo, le narici dilatate di Ketut si distesero mentre riprendeva a parlare con il solito spirito cordiale. Le arterie del collo svanirono sotto la pelle bruna e le sopracciglia rimasero corrugate ancora poco prima di calare sulle palpebre stanche.

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Continua
Illustrazioni di Olga Hendel

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