La poesia è un fucile o una pietra da scagliare: come in un’opera di Sarenco, i versi hanno sempre in sé qualcosa di ergonomico. Lautréamont parlava della poesia come di un ponte, posto che un ponte si costruisce solo per oltrepassare un fiume. Che il fiume sia dentro o fuori di noi è indifferente; avremo raggiunto il nostro obiettivo qualora le due cose coincidano.
Il poeta è un produttore di valori ma, prima di tutto, è un ripetitore di valori. E ancora prima di ripetere, lanciare, divulgare e propagandare valori, il poeta rilancia ritmi, suoni e segni, perché c’è prima il segno del significato e non sapremmo che farcene dei segni se non ci indicassero qualcosa. Se Leonardo da Vinci non fosse vissuto in quel mondo litigioso che era l’Italia del Rinascimento non avrebbe inventato le sue mirabili macchine di morte. Il nostro mondo non è meno litigioso, e a ragione. Breton nella prima pagina di Nadja dice di essere colui che infesta. Ciò che infestiamo, in quanto poeti, sono ritmi, suoni e segni: è il mondo attorno a noi che prima di tutto ripetiamo e a volte sembra strangolarci.
Non può esistere una poesia ingenua e l’unico modo per fare una poesia onesta è farne una disonesta, cioè non stare alle regole del gioco.
Ripetere è un atto altrettanto carico di responsabilità che il variare: noi diciamo qualcosa e questo non è indifferente innanzitutto a noi stessi. Non può esistere una poesia ingenua e l’unico modo per fare una poesia onesta è farne una disonesta, cioè non stare alle regole del gioco. Ogni discorso di retorica è, in ultima analisi, il problema di quale visione abbiamo del mondo, da quale lato della barricata stiamo sparando. Lo dicevamo prima, la poesia è un’arma che deve essere utilizzata nella lotta. Se le regole del gioco sono che il fucile deve essere utilizzato come un cacciavite, il poeta disonesto deve ricordare: “Quella che è in mano è un’arma e io la utilizzerò per combattere”. Questa è la parola d’ordine della coscienza poetica rivoluzionaria, il risultato della consapevolezza di essere dei ripetitori di valori e, pertanto, di poter anche variarli. Scriveva Brecht: “Noi rivoltiamo i fucili/ e facciamo una guerra diversa/ che sarà quella giusta”. Che tutto questo parlare di guerra sia inopportuno e velleitario potrà obiettarlo solo chi non sa che farsene di quello che ritiene essere un cacciavite. La guerra unilaterale in cui siamo, volenti o nolenti, coinvolti è quella del capitalismo contro la vita, l’amore e l’arte. La consapevolezza storica dell’atto poetico è il punto di partenza della poesia materialistica.
La poesia è disoccupata, i poeti sono un esercito di riserva espulso dall’industria editoriale. All’interno del capitalismo la poesia non avrà mai un futuro né può averlo: è stata ridotta a piangere su uno scaffale.
La politica culturale del capitalismo ha trasformato la poesia nell’ancella dalle dita delicate del romanzo. Il linguaggio “senza inconscio” del giornalismo ha annichilito le risorse tecniche e stilistiche della letteratura, adagiandola sul tutto indifferenziato della mercificazione culturale. La poesia è disoccupata, i poeti sono un esercito di riserva espulso dall’industria editoriale. All’interno del capitalismo la poesia non avrà mai un futuro né può averlo: è stata ridotta a piangere su uno scaffale. La letteratura borghese dalla fine dell’Ottocento, cioè dall’epoca della sua fase imperialistica, è stata, eccetto il Futurismo, fuga dalla realtà, fino a quella straordinaria fuga che fu il Surrealismo. Nell’impasse cronica del mondo moderno, il romanzo offre le migliori garanzie e, per i più sensibili, c’è quella congerie di poesia intimistica che riempie raccolte e almanacchi (librerie, al momento, no). Ripetere questa tradizione è una responsabilità che non vale la pena di addossarsi, almeno per noi che, con Luciano Anceschi, pensiamo che la poesia sia “accrescimento della vita”.

Come si può essere rivoluzionari quando non c’è una rivoluzione? Se riformuliamo la domanda, la risposta sarà intuitiva: come si può dissentire quando tutti sono, o sembrano, d’accordo? Capovolgendo gli argomenti, rivoltando i fucili, con la variazione. Se manteniamo lo sguardo sulle esperienze avanguardiste italiane e straniere è per ribadire l’irrinunciabile primato della creatività, delle infinite possibilità di montaggio e smontaggio, di costruzione che ci offre il gioco dei costituenti materiali poietici con il significato che via via ne emerge. L’attrito percettivo è un carattere fondante di ogni poesia che oggi non voglia essere solo un diario intimo. Ritmo e suono sono le prime armi del poeta, quelle tradizionali e ancestrali. Ma è la consapevolezza della dimensione visiva che offre il campo più interessante di sperimentazione. La lezione della poesia concreta restituisce alla pagina, piuttosto che ad un non meglio indicato “spirito”, l’ambito originario di produzione dei significati. Se la realtà in cui viviamo non funziona, dobbiamo essere in grado di trasporre strutturalmente e materialmente questo cortocircuito nelle nostre opere. La poesia è il filtro distorto con cui aggiustiamo le illusioni prospettiche della realtà e può giocare, in tal senso, una funzione importante di critica al sistema e di opposizione all’imperialismo estetico.
[…] rivoluzionaria qui è la forma. Come lui stesso ha scritto nel supposto teorico che va a comporre Poesia e Rivoluzione è Poesia (autoproduzioni Neutopia, NdR): «Il poeta è un produttore di valori ma, prima di tutto, è un […]
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