Ai miei più cari amici | Alessandro Triolo

Incartato come pioggia nel vento
dei putridi malauguri delle malparvenze spagnole
ritrovo l’uomo: nudo, curvo dentro una scatola di ferro
a urlare per il freddo gelido delle sue trachee
che paralizza le ossa e congela i polmoni.
Sgrida i cani per fuggire via da un fetente mostro,
accogliendo in sé la solitudine della povertà
in sé diventata pura essenza di campagna.

Adoro pensare che i miei più cari amici
fanno l’amore sotto le lenzuola dei padri
mentre urlo, pigiando con forza i tasti di questa protesta
e piango per la mancata esperienza
che avrebbe per un attimo
o solo per un millesimo secondo d’ebbrezza
sconvolto ancora una vita inutile
nella guerra civile tra la mia gola
e il buon senso degli astronauti,
pronti a gestire i voti di condotta dei meno ubriachi.

No, non posso non ammettere
di amare i tuoi composti abbracci
e le tue gonne che lasciano
scoperte le gambe da contadina.

Correvo con la bocca secca
su una strada di provincia per raggiungere
i tuoi ebbri seni da cerbiatta sincera.
Canto, canto – ancora una volta per te
adesso lo ammetto: lo scrivo a piena voce!
Per i tuoi occhi verdi e rossi
– come la giacca patriottica di Alberto –
canto perché avrei voluto stringerti la mano
oggi che l’oggi non esisteva
oggi che saremmo potuti essere noi, oggi
con le nostre ridicole occhiaie
le camminate claudicanti da mostri
e due facce tristi e da spavento
si carezzavano grezzamente.

Ah, che meraviglie!
Riscopro nelle tue braccia
e nelle fantasie dei tuoi occhi
che rivelano in me
quella frenesia poetica
che permette solo al cuore di scrivere versi
e rimpianti per un mancato
caotico bacio
di una serata ora così becera
da illuminare un pianto
in un sacrificio di cristiana risurrezione.

Mi abbandono dunque
dolcemente
al flusso lento e sdolcinato
dei ricordi e delle millenarie ipotesi
mentre pigio ancora nevroticamente una tastiera
e vi prego
Ti prego, Yvonne,
FATEMI URLARE un

VI ODIO, assassini della mia vita,
rei di occupare ogni mia regione
aver oppresso i miei sentimenti quotidiani
in morbose paure da finti piccoloborghesi
Vi odio, dal profondo del cuore
voi, coloro che sanno solo dire e porre barbari NO
nella passione,
che nella poesia è come uccidere un neonato,

Avete sgozzato ogni mia speranza
vermi del vostro capo-reparto
distrutto le mie forze;

E ancora mi credete sano?
Credete di ritenermi vostro fratello,
amico, amante:
vostro figlio?

La realtà, cari pidocchi,
è che non sono che una voce vacante
su una tastiera vecchia
che parla dei propri segreti
da soap opera
per ammettere –
sì, a pieni polmoni –
di amare a pien’anima
una ninfa dai colori di castana seta
che so – noto con pietà
piangere negli angoli della sua nuova casa
perfetta come non può essere la realtà.

Liberate dunque i canarini dalle gabbie di ferro
e strappate i capelli
alle vostre sorelle gementi
che hanno la nostra stessa pelle da cinghiali
affamati di gioie quotidiane,
che si risparmieranno i timidi
sorrisi da confessione
con quegli imbarazzi che nemmeno Dio,
nemmeno un signore strapagato
varcherebbe più la soglia del nostri occhi
per le oscenità da noi figurate

E dov’è, però
la bellezza di questi giorni d’esame
se non nel peccare di fantasia?
Ammettere il putrido desiderio
di possedere tra le proprie nude braccia
un corpo spoglio di ogni pudore,
non è forse il rifiorire
di una timida escrescenza d’adolescenza
mai morta
che si ripete
nel suo decadente rifluire
in una storica bevuta alcolica
e in cinquanta versi impregnati di sambuca?

Quanta vergogna possiedono i tuoi angeli?
E i miei che ammettono
(che ammetto)
in una immortale passione
nel mirarti a tre quarti
in una notte priva di stelle
e con gente fetente di soldi.

Quanta giovinezza nei tuoi sguardi?
Chiamate dei boia per staccare la mia testa
per concimare il mio corpo
che ancora indugia,
stride come una mosca schiacciata,
di aver potuto vivere
una vita
irreale
che nei versi di un ebbro canto
di marinaio morente,
assume i connotati di una lotta
fra chi ti ama
e chi ti possiede

E il mio cuore
è una triste carta stagnola
pronta a essere bruciata nel fuoco
d’agosto: nella brace d’agosto
da un sozzo contadino.

Questa è la fine:
una morte sudata, impregnata
di una dolorosa gastrite cosmica

Per esclamare
Oggi
come allora
TI AMO
VI ODIO
a spalle larghe e petto in fuori,
soldato inerte, pronto adesso a morire
per comporre un verso
di resistenza dissolta.

Così mi spengo
ed invoco una lode
ad un’esistenza rimata in versi,

arreso,
mi adatto

Immagine di Boris Mikhailov

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