Agire e non agire

Dalla crime fiction al noir, dal poema cavalleresco alla distopia, dal war movie alla fantascienza, la letteratura si è sempre occupata del rapporto conflittuale dell’essere umano rispetto a ciò che lo circonda e non gli consente di esaudire i suoi innati desideri e le sue naturali pulsioni. Si parte dalla forma classica con il rapporto conflittuale tra uomo e natura, che si tramuta nello scontro omerico uomo-contro-uomo e finisce per arrivare, con l’avvento della modernità e successivamente alla rivoluzione francese, allo scontro uomo-contro-Dio. Vi è una letteratura ben disposta in questo senso, che va da Dostojevskij a Lautréamont e, in linea di massima, pone le angosce dell’uomo moderno in rapporto alla società stessa o, per dirla à la Sartre, “gli altri”. È l’inizio dell’era moderna, i bisogni dell’uomo sono profondamente cambiati ma, nella sua immutata volontà di espandersi e progredire, sente ancora il bisogno di un conflitto che non ponga come principio di fondo il giudizio divino. Assistiamo così a ciò che l’esistenzialismo francese ci ha abituati a considerare come inevitabile ed eterno: la condizione nichilista dell’uomo in reazione all’assenza di un principio ordinatore. Non a caso, ciò che mette in scacco l’esistenza di Kafka non è tanto il concetto di lecito e non lecito, quanto i terribili fantasmi che infestano la società in cui vive: il lavoro, la legge, la famiglia.

Ciò che mette in scacco l’esistenza di Kafka non è tanto il concetto di lecito e non lecito, quanto i terribili fantasmi che infestano la società in cui vive.

Per fortuna è poi arrivato Camus a ricordarci che potevamo senz’altro essere felici, come Sisifo, anche se il mondo non aveva alcun senso, e che l’uomo, anziché disperarsi nella propria condizione, poteva benissimo fregiarsi degli sforzi fatti, non per puro stoicismo, ma perché, al contrario, questi sforzi – e di conseguenza, anche questo rapporto conflittuale tra esistente e esistenza – rendevano la vita degna di essere vissuta.
Non che l’uomo sia mai potuto rimanere seduto in un angolo sentendosi realizzato senza avere un conflitto (interiore o esteriore) che lo tormenti. Infatti, in epoca postmoderna, assistiamo a una letteratura che, da Borges a David Foster Wallace ai fratelli Wachowski e passando per Umberto Eco, pone l’uomo in conflitto con la tecnologia, sorta di dio sostitutivo, fino a giungere al conflitto più grande, quello con la realtà stessa. È questo il concetto che Ballard (autore di Crash, da cui il film omonimo) proponeva a proposito del simulacro, ovvero del significante in assenza di un significato vero e proprio. “Accettiamo facilmente la realtà”, scriveva Borges, “forse perché intuiamo che niente è reale”.

“Accettiamo facilmente la realtà”, scriveva Borges, “forse perché intuiamo che niente è reale”.

Ebbene, quale intuizione può mai essere stata più azzeccata, dato che nessun libro di fantascienza – ad eccezione forse di Orwell – aveva effettivamente previsto internet?
Arriva poi Roland Barthes a introdurre il conflitto definitivo, quello del personaggio nei confronti dell’autore. È così che, finalmente, lo scrittore diventa libero di vivere avventure rocambolesche, storie di narcotraffico ed eccessi anche se non li ha vissuti sulla propria pelle: è la morte del biografismo.
Di fronte alla nuova letteratura, definita “senza inconscio” (cfr. minima&moralia) e ai vari e fortunatissimi memoire che riempiono gli scaffali delle librerie nostrane, a questo punto ci viene da domandarci se effettivamente la sovrabbondanza di noia presente in molti scrittori contemporanei sia dovuta a una mancanza di conflitto di fondo. Una mancanza di conflitto si traduce automaticamente in mancanza d’azione, non c’è mistero che tenga, ogni cosa viene svelata, ciò che conta è la mia esperienza diretta in rapporto ai fatti di cui sto parlando, e il fantasma del biografismo si ripresenta come una nemesi. In altre parole, l’eccessiva convergenza tra arte e vita dà luogo a un eccesso dell’una e all’assenza dell’altra. Non ricordo neanche più quand’è stata l’ultima volta che mi sono addormentato davanti a un film sul quale campeggiasse la dicitura “Tratto da una storia vera”.
C’è anche una letteratura di conflitto, un conflitto che a volte, ma non sempre, nasce da una questione di classe e approda anche per questo a un attrito con il mondo circostante. Spesso però questa non regge il paragone con la letteratura “ufficiale”, viene relegata agli ambienti militanti e non viene considerata dai grandi colossi editoriali, eccezion fatta per i Wu Ming, che comunque rientrano nel filone del romanzo storico con varianti postmoderne. Ciò non comporta, a nostro parere, alcuna innovazione, e deriva dal fatto che l’operazione del collettivo – ex Luther Blisset – appare tutt’al più come una forma di “conflitto simulato”.

Spesso la letteratura di conflitto non regge il paragone con quella “ufficiale”, viene relegata agli ambienti militanti e non viene considerata dai grandi colossi editoriali.

Sarebbe opportuno, invece, che gli scrittori contemporanei facessero un uso del conflitto in senso propriamente artistico – o se approdassero, se preferite, a un uso politico e dunque conflittuale dell’arte – in modo da trovare il proprio scontro per cercare di superarlo, perché da sempre è questa la condizione necessaria che produce l’azione, e che trasforma il pensiero in atto concreto, almeno per quanto riguarda le alte e fumose sfere dell’immaginario.

 Foto di Gregory Crewdson

4 pensieri su “Agire e non agire

  1. davvero un’ottima analisi sulla d’esistenza narrativa contemporanea. sarà che ormai divento vecchio, ma negli ultimi decenni ciò che giunge a scaffale segue regole d’ingaggio ben prestabilite. chiamalo neuromarketing, se vuoi, o realtà di colosso, fatto sta che la domanda che sorge spontanea è: nel momento in cui l’artista si pone in conflitto sociale/politico/culturale con il sistema di pensiero unico e dominante (che in fondo è quello di mercato, no?) è lecito attendersi che il colosso (cioè il mercato) lo sostenga? la matematica dice che è un assurdo commerciale: l’artista in conflitto è per definizione un profitto mancato, a meno che non si supponga che esista un potenziale “mercato del conflitto” nella società, ovvero che l’ambiente militante annoveri vaste percentuali della popolazione, cosa di cui dubito fortemente alla luce dei fatti (al massimo c’è un mercatino rionale per quello che già tu definisci il modo calzante il “conflitto simulato”). quindi? per me sfondi una porta aperta quando scrivi di fare un uso politico – nel senso di arte del pensiero che spazia da Popper a Veca – e dunque *conflittuale* dell’arte. in altri contesti ho scritto di come la letteratura di evasione abbia estesamene sovrascritto la letteratura di invasione (cioè quell’incursione di pensiero che ti apre gli occhi dall’interno). eppure faccio fatica a cogliere come immagini di affrontare l’unico vero e attuale conflitto universale che non è né contro natura, né contro l’uomo stesso, né contro Dio, né contro il senso delle cose e neanche contro la tecnologia, ma contro il mercato globale. e più mi guardo intorno e meno sono possibilista visto che, grazie anche alla dottrina del “nuovo umanesimo” predicata dai globalizzatori, l’essere umano ha ormai acquisito la passività mentale e la rassegnazione dello schiavo nelle piantagioni.

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    • Esattamente, quello che ho cercato di mettere in luce nell’editoriale è appunto il bisogno di una letteratura che si disponga in questo senso poiché il conflitto sta alla base di tutta la grande letteratura, da Shakespeare (uno degli autori più “conflittuali” del suo tempo) a De Lillo (giusto per citare un autore contemporaneo). Di quale conflitto – esistenziale, politico o sociale – possiamo parlarne, su quale parte orientarsi sta sempre all’autore.

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