Affinità e divergenze tra la Poesia di strada e me

Da alcuni anni mi interesso di Poesia di Strada; è un argomento, come la Street Art, al quale ho dedicato alcuni articoli e brevi saggi. Alcuni hanno definito questo mio lavoro pioneristico, di certo ha incontrato, e incontra, non poche difficoltà, soprattutto di ordine metodologico. Per prima cosa, individuare con certezza che cosa sia la Poesia di Strada non è molto semplice e dunque mi limiterò, in questa sede, a dire qualcosa di lapalissiano: una poesia collocata nello spazio urbano è una Poesia di Strada – è il contesto nel quale interviene che le conferisce questo attributo oltreché, si presuppone, altre caratteristiche. Street Art e Poesia di Strada si compenetrano e sono fenomeni che rientrano entrambi nell’ampio contenitore della Creatività Urbana. Proprio su quest’ultimo aggettivo, urbana, vorrei concentrare la prima parte di questa breve riflessione: è inevitabile che dei versi siano disposti nello spazio pubblico e, solo in tempi recenti, si è pensato che questa potesse essere una forma espressiva che godesse di una relativa indipendenza, nata dalla sovrapposizione di due esperienze divenute nel tempo contigue. Numerosi sono i graffiti a Pompei ed Ercolano, alcuni dei quali esprimono un certo grado di poeticità. Ovunque sia esistita una metropoli a qualcuno è passato per la testa di incidere un segno del suo passaggio su un muro e, in molti casi, queste impronte ci sono pervenute, ma niente sappiamo di chi sia stato il loro autore. Cambiano i mezzi, i luoghi, le lingue, lo stesso non accade per i campi semantici di riferimento e per alcune caratteristiche di formulazione, il fuoco del racconto non si spegne. Una volta c’era il carbone o un punteruolo, ora ci sono i marker e le bombolette, una volta c’erano i piombi veneziani o un’abside, oggi il retro di un supermercato o il seggiolino di un autobus.

Una Poesia di Strada è una poesia collocata nello spazio urbano – è il contesto a conferirle questo attributo oltreché, si presuppone, altre caratteristiche.

La contemporaneità metterebbe a nostra disposizione molti strumenti ma adottarli, ora che non hanno ancora raggiunto un ampio grado di diffusione, richiederebbe un rigoroso lavoro di ricerca, ricerca che, in quest’ambito, è quasi assente. Siamo arrivati al punto di osannare Peregrine Church, Stati Uniti, per il semplice fatto che, usando della vernice idrorepellente, ha prodotto degli stencil visibili solo nei giorni di maltempo o se qualcuno ci rovescia sopra una birra. I materiali con cui produrre le nostre istallazioni o tracciare delle parole sono molteplici e ora, alla portata di tutti. Basterebbe sfogliare dei cataloghi online di prodotti chimici o prendersi un pomeriggio per fare due chiacchiere in un fab-lab o in un colorificio. Perché, oltre alle parole, sarebbe il caso di considerare quale possa essere il modo più efficace per fare sì che queste siano lette. Prefigurare quale sensazione possa cagionare al passante la mescianza di colori, forme, caratteri, rilievi e superfici.

Oltre alle parole, sarebbe il caso di considerare quale possa essere il modo più efficace per fare sì che queste siano lette.

Ci sarebbero, oltretutto, ancora numerose aree dello spazio pubblico dove le nostre frasi, freddure, ammonimenti e dichiarazioni possano fare la loro comparsa e che, al momento, sono quasi del tutto sgombre. Basterebbe guardare, da questo punto di vista, a Jenny Holzer e alla sua istallazione parigina del 2001, dove parole di luce sono state proiettate su una colonna alta 36 metri. Pare però che la categoria degli sperimentatori si sia, almeno qui da noi, rarefatta a tal punto da risultare nei fatti estinta – gli epigoni, nel frattempo, benché affetti da un evidente complesso di Edipo, godono di un ottimo stato di salute. Epigoni la cui duplice colpa sta nel fatto che si sono ritrovati a percorrere un sentiero già battuto e, pur ammettendo la loro ingenuità di partenza, perseverano in quella direzione anche quando, oramai, hanno maturato una minima coscienza. Ovvero, contesto il fatto che tra loro, salvo poche eccezioni, nessuno abbia prodotto uno stile riconoscibile e, soprattutto, difficilmente imitabile, sia nelle modalità con cui la parola è rappresentata, sia in quello della formulazione dei testi. Quello di Gio Evan non è un idioletto perché chiunque, con un po’ di pazienza, potrebbe produrre testi tali e quali ai suoi, come del resto, testi tali e quali ai suoi hanno affollato per decenni le agende scolastiche di ogni ragazzo e ragazza. Esiste poi il Mep, il quale ha fatto del mortifero appiattimento, della soppressione della cifra individuale, un delittuoso canone estetico.

Pare che la categoria degli sperimentatori si sia, almeno qui da noi, rarefatta a tal punto da risultare nei fatti estinta.

Da quando ho iniziato il mio lavoro di avanscoperta, attendo che sull’orizzonte mobile compaia qualcosa capace di stupirmi. Qualcosa che rivolti l’intero scenario, uno scenario povero e variegato dove da troppo tempo i nomi prominenti sono pochi. Pochissimi. Così, considerati i pro e i contro del percorso artistico di Ivan, questo è il writer a cui, ancora una volta, sono costretto a riferirmi. Lo confesso, la Poesia di Strada come fenomeno sociale italiano ha quasi vent’anni, e oggi mi piacerebbe parlare del lavoro di un Nathan Coley o Robert Montgomery, artisti inglesi nati a cavallo tra i ’60 e i ‘70, benché la loro occupazione sia la poesia esposta e la site-specific art, ma non mi è possibile. Ivan rimane l’apogeo che ha conosciuto questo movimento, forse perché i risultati da lui ottenuti sono, tutt’oggi, quelli tra loro più coerenti sotto più punti di vista. Gli stessi suoi detrattori, dall’interno, si muovono su posizioni assai simili alle sue, quasi identiche, in molti casi sovrapponibili: cambia l’estensione dei testi ma non il ricorso, oramai asfittico, al calembour, a un linguaggio piano e spontaneo che ha, nei casi più riusciti, più cose a che spartire con il copy editing che con i luoghi della letteratura. Figuriamoci dell’arte.

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Nell’immagine, opera di ivan

Parlando sempre in termini generici, c’è il ricorso al verso libero o, per meglio dire, all’andare accapo. Un andare accapo che non trova alcuna giustificazione né in termini di ritmo né in termini della scansione semantica del testo ma che comunica, solo in forma visiva, che quella che stiamo affrontando dovrebbe considerarsi “poesia”. Della poesia si salvano gli aspetti più immediati e ridondanti e, se già questo non bastasse, li si urla, li si usa con violenza – la violenza che spetta a ogni prodotto di facile consumo. Non è, come già si accennava poc’anzi, nemmeno rintracciabile uno studio del lettering capace di farci dimenticare le carenze stilistiche. Non è possibile scorgere, in termini più generici, una ricerca nell’ambito della grafica, del design, che abbia saputo proporci un’identità visiva che non si manifesti usurata e posticcia, né tantomeno un autore, il cui profilo poetico e artistico sia altrettanto maturo. Anche se mi volessi riferire ad altri contesti storici, le sperimentazioni in quest’ambito di alcuni degli aderenti del Gruppo ’63 – per quanto tutt’oggi si distinguano ancora in termini di qualità – sono state una produzione occasionale, priva di una sistematicità determinante.

Della poesia si salvano gli aspetti più immediati e ridondanti e, se già questo non bastasse, li si urla, li si usa con violenza.

Non c’è però, oggi, diffuso spirito di ventura. Figuriamoci, allora, di avanguardia. Così dobbiamo raffrontarci a una iterazione, senza soluzione di continuità, di pratiche non solo già note a chi, per passione, le studi, ma addirittura abusate con tale sfacciataggine da suscitare avversione. Nulla cambia, o sta cambiando, se la si guarda da questa specola.

Se almeno la Poesia di Strada si esaurisse in una ricerca di natura meramente linguistica, confrontarne i risultati con quelli maturati in altri contesti di occorrenza del genere poetico sarebbe più semplice; tuttavia anche ciò sembra, in questo momento, non solo azzardato ma impensabile. Il valore dei versi che effluiscono da questa congerie non è paragonabile, se non di rado, con quelli che gremiscono blog, antologie, riviste. O che è possibile ascoltare da alcune delle voci più rappresentative del poetry slam. In ultima istanza, la Poesia di Strada non è – o non è più – capace di proporsi come territorio di confine e ibridazione tra Street Art (e l’arte contemporanea in generale) e letteratura. Eppure a un poeta di strada si chiederebbe proprio questo e non il collocarsi a metà tra due mondi. Il poeta di strada non dovrebbe, dunque, appropriarsi solo dei tratti per lui confortevoli dell’uno e dell’altro ambito, rifiutando allo stesso tempo un confronto con chi, a pieno titolo, si sia dedicato al writing o alla scrittura in versi e alla loro critica, non essendo la Poesia di Strada, per sua definizione, un’arte autonoma ma meticcia. Il risultato del poeta di strada dovrebbe essere un rimescolamento, un accumulo di sedimenti e suggestioni, lo stesso che avviene con tutto ciò che un ghiacciaio conduce, in un lungo periodo di masticamento, erosione, a grandi distanze dalla sua origine ricompattandolo in una vasta morena. Ecco dunque che gli elementi rocciosi danno vita a qualcosa che prima non esisteva e che altera, in modo definitivo, il nostro paesaggio, una u che trattiene l’acqua e che si ricopre, con il volgere degli anni, di un tessuto arboreo. Del resto, ogni persona che voglia essere protagonista di un rinnovamento, di una rivoluzione, deve considerare che dovrà affrontare un mastodontico sforzo di natura intellettuale perché è questo il tributo che il nuovo reclama. Nel caso della Poesia di Strada, un lungo ragionamento che almeno lambisca la storia dell’arte e della letteratura e che, oltretutto, affronti con serenità altri studi – l’estetica, la sociologia, il design – in altre parole, tutte queste cose, non solo alcune, dovrebbero trovarsi nella valigetta degli attrezzi di un poeta di strada, anche se spesso non trovano posto.

Foto di Filippo Braga

Un pensiero su “Affinità e divergenze tra la Poesia di strada e me

  1. […] Poesia di strada è tuttavia un’espressione a me cara, e non solo per una forma di sano campanilismo: oltre a essere un’espressione del tutto italiana, come spesso ricorda Ivan[1], essa infatti indica un permeabile confine entro il quale si cerca di far convergere pratiche tra loro molto dissimili, la maggior parte delle quali accomunate da una cifra spontaneistica. Ad altre latitudini alcuni di questi interventi sarebbero accolti nell’alveo della site specific art[2], qui, nella penisola, si è sentita l’urgenza di tracciare una cornice. Se questo accade è per dare appunto ragione, nella lingua, a una necessità che riguarda un gruppo di persone. Una coscienza – pure dove non si riscontra un manifesto né un programma – definisce la natura di un organismo le cui cellule, insistendo su questa metafora, sono gli individui, il quale può mutare le sue sembianze nel tempo e pure morire. […]

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