Get up, stand up. Una storia d’amore | Andrea Frau

Jin conobbe Irene in negozio. Lì ci passava dieci ore al giorno, non avrebbe potuto conoscerla in un altro posto. L’attività, classico negozio di cinesi, era della sua famiglia. E per famiglia s’intende padre, madre, fratelli, zii biologici e non, inclusi vari cugini, in senso molto lato, come chiosava sempre lui.

Il fatto che lui uscisse con una ragazza italiana non era visto di buon occhio dalla famiglia, genitori in testa. Jin si vedeva con l’italiana magra, come la chiamavano i suoi, dopo lavoro. Rimanevano a chiacchierare in macchina anche fino all’alba. Quando bevevano un po’ più del solito lei provava anche ad abbozzare qualche frase in mandarino, per lei era facile parlare d’amore, perfino in quella lingua straniera, lui invece faceva fatica, non aveva ancora trovato una lingua adatta ai suoi sentimenti. Il cinese era la lingua del rifiuto, della rabbia, l’italiano quella del sarcasmo e del disincanto. Quando lui arrivava a lavoro, sbattuto, con gli occhi pesanti, la madre lo guardava come se quello fosse il ritratto della vergogna. Vergogna che avrebbe disonorato tutta la famiglia, compresi i cugini in senso lato, per chissà quanti secoli.

Irene studiava lingue orientali, per cui lui, scherzando, le diceva che la loro più che una relazione sembrava un tirocinio. Quando ci lasceremo ti spetteranno 6-7 crediti, la scherniva. Lei dopo la laurea avrebbe voluto andare a Shanghai per imparare sul serio la lingua e questo fatto era motivo di liti. Era ironico come un ragazzo che aveva rinnegato le sue radici fosse innamorato di una ragazza occidentale che recitava Confucio e praticava tai-chi. A Confucio preferisco Osho o Coelho e al tai-chi il wrestling in TV, ghignava lui. Quando lo diceva si immaginava la statuetta di Mao piangere sangue e ne provava sadico piacere. Lei metteva il muso quando lui esagerava, ma lo giustificava, trovando tenero quel disincanto un po’ malinconico. Mettiamola così, io ho eretto una grande muraglia e il tuo amore mongolo cerca di espugnarla, ironizzava Jin.

Irene aveva ancora le cuffie che comprò il giorno che si conobbero. Cuffie che, dopo un anno, sorprendentemente, funzionavano ancora. E allora pensò che tutti gli oggetti, come gli amori giovani, sono delicati ed è il modo in cui te ne prendi cura a fare la differenza. I ragazzi pensavano al loro amore come a un’efemera contro natura.

Le loro conversazioni erano incontri di lotta, parevano una sitcom. Si divertivano a inscenare piccoli scontri di civiltà, amavano punzecchiarsi e, visti da fuori, erano molto divertenti.
Tu mi hai trovato in questo negozio nel reparto cinici asiatici venduti all’imperialismo americano. Non posso che essere merce scadente.
Veramente le mie cuffie funzionano ancora.
Ma non pensi al male che fai al made in Italy?
Non fornisco il mio utero alla patria, non sei l’unico traditore, evidentemente.
Non so manco io chi sono. Sono una volgare imitazione di un italiano, una cineseria senza valore.
Sentire dire cineseria da te è come vedere Primo Levi che distribuisce I Protocolli dei Savi di Sion.
Cerco di copiare malamente le emozioni di voi italiani, faccio del mio meglio.
Ma smettila, con me non attacca. Ti ho visto commuoverti ascoltando Il negozio di antiquariato di Niccolò Fabi.
Dopo la via cinese al socialismo, spero ci sia anche una via cinese al romanticismo.

Jin era l’unico in famiglia a parlare correttamente italiano, leggeva molto, fin da piccolo, fumetti Marvel, libri d’avventura, amava Benni e Pennac, il neorealismo italiano e covava un’insana passione per i cinepanettoni. Quest’ultimo piacere proibito, vezzo ostentato di libertà e rivolta, vessillo di individualismo occidentale, non si sa quanto fosse sincero o politico. Amava presentarsi come l’unico bambino cinese ad aver apprezzato Mulan. E per questo da piccolo sognava i guerrieri di terracotta marciare minacciosi verso di lui.

Era in Italia dalle scuole elementari e, da quando aveva memoria, aveva sempre sognato di mollare il negozio e scappare via. In serie aveva pensato di: intraprendere una carriera da rapper, fare il gamer professionista, lo youtuber, il giocatore di poker online, il broker cinico e nichilista: tutti progetti abortiti sul nascere. Nella mia testa vige la politica del sogno unico, finora ho abortito già quattro, cinque sogni. Una testa sgombra da sogni è più lucida e produttiva, diceva facendo la caricatura del ligio funzionario comunista. Ma c’era un sogno, inconfessabile, che era scampato alla sua politica repressiva: la stand-up comedy. Gli sarebbe piaciuto parlare della sua famiglia, di come si sentisse un alieno, di quanto non sopportasse la cultura del sacrificio dei suoi, il loro senso del dovere, ma anche dei pregiudizi sui cinesi e del vuoto morale dei suoi coetanei che tanto invidiava. Sarebbe stato il primo comico italo-cinese: si immaginava come un pentito di mafia con la voce contraffatta. La stand-up comedy per un cinese era impensabile, era l’equivalente morale di una manifestazione a Tienanmen di tibetani omosessuali capitalisti. La comicità che aveva sentito in patria non andava oltre gli equivoci linguistici o i giochi di parole, anche molto raffinati. Ma mai nulla che contestasse l’autorità o mettesse minimamente in discussione lo status quo.

Jin non sopportava l’idea di sacrificare la sua individualità per il partito, la famiglia e, ora capì, neanche per l’amore. Irene non lo vedeva come un sacrificio, ma come una scelta. Non capiva quel suo modo di ragionare così drastico, pensava che in una vita c’è spazio per tutto, e che se proprio uno deve rinunciare a un po’ di sé, quale causa è migliore dell’amore? Probabilmente Jin non era così innamorato.

Una sera, in macchina, ebbero l’ultimo litigio. Irene perse la pazienza e sbottò: Da soli, siamo tutti prodotti difettosi, inutili, un senso lo troviamo solo insieme. E noi due, brutto coglione, ci siamo trovati anche se tu vuoi distruggere tutto. Perché ti fa paura avermi trovato, ti terrorizza amare qualcuno, l’unica cosa che sai fare è fare commentini sarcastici per ostentare distacco, ti piace stare sul tuo piedistallo. Pensi di non essere in grado di amare e soffrire come tutti, di non poterlo sopportare o di non meritarlo? Ma una volta demolito tutto, cosa ti rimane? Resterai da solo, te lo dico io, e l’ultima cosa da distruggere sarà te stesso.
Bel monologo, lo puoi rifare però urlato? Così lo vendiamo a Muccino.
Irene sorrise amareggiata, si ricompose, pensò che lui non meritava più la sua rabbia, gli chiese di scendere dall’auto e da quel giorno smisero di sentirsi.

La ragazza aveva sua madre, le amiche, le colleghe; Jin era solo, come aveva sempre desiderato. Anche lui pianse, stette male, certo, ma sdrammatizzò subito e uscì dalla stanza canticchiando con un cuscino sulla faccia penso a lei ascoltando al buio, F. De Gregori. Il trucco per non soffrire era sentirsi distante dalla sua specie, guardarsi da fuori e rifiutarsi di perpetuare ridicoli cliché. Che quei cliché, banalmente, fossero quello che ci rende simili e umani, a lui pareva non importare.

Il giorno dopo la madre accusò Jin di aver rubato dei soldi dalla cassa. Il ragazzo non negò nonostante non c’entrasse nulla. Si prese addosso tutte le ingiurie del caso con conseguente melodramma famigliare e andò via di casa. Quell’accusa per lui fu una benedizione, l’ultima spinta che gli serviva.

Una sera Irene, uscita con le colleghe di corso, si era ritrovata in un locale che non conosceva. Una persona all’entrata spiegò ai ragazzi che era appena iniziato uno spettacolo comico. Lei chiese: Rimaniamo? sperando in una risposta negativa. Tutti dissero di essere curiosi ed entrarono. Il locale era pieno, avevano trovato gli ultimi posti.

Meglio mangiare carne di cane che il corpo di Cristo. Irene sussultò, conosceva quella battuta.

Sul palco vide Jin. Non lo vedeva da tre anni. Jin era palesemente brillo, sembrava a suo agio, con quella sua solita aura decadente.

Jin parlava a raffica, il suo italiano perfetto, ogni tanto zoppicava per la foga e per l’alcol. Si esibiva come se tutta la sua famiglia fosse in prima fila ad ascoltarlo. Era un’epifania, uno contro tutti, da solo contro i suoi fantasmi. Si fermava solo per un sorso di birra. Calibrava bene violenza verbale ad attimi di tenerezza molto buffa. Un po’ terrorista, un po’ poeta. Dolce stilnovo e sesso anale, avrebbe detto lui.
Ridevano tutti, stava andando bene e lei ne fu contenta. I loro sguardi si incrociarono, lui tentennò per un attimo. Poi continuò.

Illustrazione di Sergio Ingravalle

5 pensieri su “Get up, stand up. Una storia d’amore | Andrea Frau

    • In Cina non apprezzarono per nulla Mulan. Stravolge proprio il significato della storia. Non è una storia di emancipazione personale e affermazione individuale. Infatti, come ho scoperto leggendo Giada Messetti, Mulan nella storia originale ritorna ai suoi lavori domestici, considerati tipicamente femminili. In pratica, una volta compiuto il suo dovere torna al suo posto. Come dovresti fare tu, dopo questo commento. Scherzo :))
      Per rispondere alla tua domanda sono del tutto ignorante sui classici Disney, vidi la vhs di Lilli e il Vagabondo da piccolo e la ricordo con simpatia. Non ho mai visto Mulan però, a differenza del personaggio della storia. Spero di aver soddisfatto la tua curiosità, gentile lettore.

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  1. Lo metto in lista, ma non nel senso “sì, sì, lo guarderò, fidati…”, lo metto proprio in un listone fisico che possiedo. Un mio cugino ha letto il romanzo da cui è tratto e me ne parlò distrattamente. E poi ho sempre desiderato fare un giro in motoscafo come nel film Luca, il contrabbandiere di Lucio Fulci.

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