Appunti sulla fine del mondo

Questa democrazia così perfetta fabbrica da sé
il suo inconcepibile nemico: il terrorismo.

– Guy Debord, Commentari alla società dello spettacolo

Chi lo avrebbe mai detto, che la prossima «fine del mondo» ci sarebbe stata raccontata dai telegiornali, dalle radio, dagli aggiornamenti continui sull’emergenza COVID-19 via social? Se l’interrogativo in tal caso può sembrare sarcastico – e non a torto – lo è ancora di più la condizione dei cittadini di questa società, «democratica» eppure autoritaria, divisa ancora una volta fra obbedienti delatori e pericolosi criminali. E la sospensione delle nostre libertà individuali denota anche un generale intorpidimento delle nostre facoltà critiche e civili.

Giorgio Agamben ha affermato sul manifesto che, sull’onda della paura del Coronavirus, e in nome della sicurezza, si impongono gravi limitazioni della libertà, «lo stato d’eccezione come paradigma normale di governo». Lo stato d’eccezione incombe come forma di governo «normale» tutte le volte che prende piede un assetto fobico collettivo che non difende altro se non se stesso. Il suo intervento è stato criticato da più parti, specialmente per il punto inerente alla minimizzazione della pandemia ad una «semplice influenza», motivo per cui la comunità scientifica è insorta, pretendendo di essere l’unica, in questo momento delicato, ad avere un parere autorevole su quanto sta accadendo dal punto di vista medico e – qualora non bastasse – anche sul piano etico. Peccato che gli scienziati non decidano granché, sia perché non dispongono ancora di prodotti interferenti con lo sviluppo del virus o di vaccini, sia perché i dati a loro disposizione non sono sufficientemente accurati per calcolare il vero grado di contagiosità e di pericolosità dell’infezione. Tuttavia, il valore attribuito alle parole del filosofo romano è stato totalmente screditato da un’audience affamata di notizie ufficiali, che intona cori dai balconi ed inni nazionali. Gli stessi che in passato invitavano a chiudere tutte le frontiere – gli «ipocondriaci dell’umanità» – oggi vedono finalmente il loro sogno compiersi sotto i propri occhi, senza nemmeno bisogno del Salvini di turno al governo.

Lo stato d’eccezione incombe come forma di governo «normale» tutte le volte che prende piede un assetto fobico collettivo che non difende altro se non se stesso.

Agamben è voluto tornare sull’argomento, specificando che le sue riflessioni non riguardavano l’epidemia in corso, bensì ciò che si evince dalla reazione degli esseri umani ad essa: si tratta, cioè, di riflettere «sulla facilità con cui un’intera società ha accettato di sentirsi appestata, di isolarsi in casa e di sospendere le sue normali condizioni di vita, i suoi rapporti di lavoro, di amicizia, di amore e perfino le sue convinzioni religiose e politiche.» Perché, allora, non ci sono state proteste e opposizioni?

La ricercatrice inglese Anastasia Berg ha risposto ad Agamben, ricordando che il vero motivo per cui stiamo inevitabilmente accettando le misure di profilassi finora imposte non risiede tanto nella salvaguardia della vita biologica – o della «nuda vita», per usare un’espressione cara al filosofo – quanto nella solidarietà verso i soggetti più deboli – anziani e non – vale a dire i nostri amici, i nostri parenti, i nostri colleghi di lavoro e i/le nostri/e compagni/e di vita: tutti soggetti senza i quali nessuna «società» potrebbe definirsi tale, né alcuna condivisione di esperienze godibile in una forma piena e soddisfacente. Ma la società non è fatta solo di persone: è anche un’istituzione.

Nel suo diario su Carmilla, dal titolo Chiamate telefoniche, lo psichiatra «riluttante» Piero Cipriano ha invece riportato la sua esperienza di operatore sanitario che si trova a dover rinunciare alla sua unica valvola di sfogo dopo dieci, a volte dodici ore consecutive di lavoro in reparto: correre al parco. Solo dopo aver mostrato agli agenti il tesserino medico, infatti, il dottor Cipriano ha avuto il permesso dalle autorità di proseguire indisturbato la sua corsa quotidiana – tra l’altro, dopo essere stato in ospedale – senza incappare in sanzioni. Questo cosa significa? Che pure se in questo momento siamo tutti passibili di denuncia e penalmente perseguibili, il personale sanitario – ma non soltanto – ha diritto a un minimo di presa d’aria, di stacco tra il lavoro e la casa, altrimenti potrebbero sorgere problemi di ben altra natura, non soltanto fisica, ma mentale. Cipriano prosegue il suo resoconto riportando la testimonianza di un suo paziente, che suona come una profezia: «Sa qual è la verità? La verità è che da un po’ tutti questi rituali ci avevano stufato ma non sapevamo come fare. Per un po’ si accentuerà il consumo di internet dei social dei post dei like, poi, senza che il virtuale abbia una continuità reale nel mondo di fuori, senza che si possa toccare qualcuno, di questa umanità ridotta a una serie di monadi hikikomoriche, non reggerà a lungo. Inizierà la solitudine. Non rispondere a uno poi a un altro a un altro ancora. Finché il silenzio farà da prodromo alla follia.»

Non c’è dunque da stupirsi che negli Stati Uniti sia già cominciata la corsa alle armi: in assenza di un nemico concreto, i nemici diventano gli altri, potenzialmente, tutti. Allora meglio la nostra sopravvivenza alla loro. O riprendendo il motto di manzoniana memoria, Dagli! Dagli all’untore!

Torniamo però un momento alla frase «incriminata» di Agamben e dalla quale siamo partiti: «Si direbbe che gli uomini non credono più a nulla – tranne che alla nuda esistenza biologica che occorre a qualunque costo salvare. Ma sulla paura di perdere la vita si può fondare solo una tirannia, solo il mostruoso Leviatano con la sua spada sguainata.»[1]

Su quest’ultimo passaggio non c’è granché da eccepire: Agamben ha ragione nel sottolineare come quest’emergenza, dal punto di vista politico, possa rivelarsi una sinistra «palestra del controllo», i cui effetti potrebbero protrarsi ben oltre la fine dell’emergenza. Il caso del parlamento ungherese prima, e di quello sloveno dopo, con i «pieni poteri» affidati ai premier Viktor Orban e Janez Jansa per contrastare l’emergenza, con il plauso dei sovranisti nostrani, appaiono più che emblematici. Allo stesso tempo però sbaglia, dal punto di vista strettamente sociologico, a considerare la scienza come una sorta di «dogma» sostitutivo, sintomo del bisogno di religiosità insito nella società. Al contrario. Come asserisce Vaneigem: «Niente è acquisito, tutto comincia. L’utopia cammina ancora carponi.» E la pandemia da Coronavirus è sintomo di un fallimento dello Stato.

Agamben ha ragione nel sottolineare come quest’emergenza, dal punto di vista politico, possa rivelarsi una sinistra «palestra del controllo», i cui effetti potrebbero protrarsi ben oltre la fine dell’emergenza.

Del resto, la nostra natura di animali sociali ci rende particolarmente difficile l’accettazione del tempo presente, con le sue strette limitazioni, le lunghe file per qualunque cosa, la militarizzazione di interi quartieri; ma il reale motivo per cui non ci ribelliamo alle misure imposte dal governo – anche se da Palermo a Milano cominciano a manifestarsi i segnali delle prime crepe, come gli assalti ai supermercati dei giorni scorsi – oltre al timore delle possibili conseguenze risiede, appunto, in uno spirito di auto-conservazione che non ha niente di sbagliato di per sé. Proteggere la parte più intima del nostro essere, cogliendo l’occasione per mettere in discussione il nostro modo di vivere, produrre e consumare, potrebbe costituire una possibilità irripetibile di poter convivere con gli altri esseri viventi più serenamente, dopo. Su questo possiamo concordare tutti e tutte. La parte più insidiosa, però, della quale non si parla abbastanza, è su cosa si basi l’equilibrio e la sanità mentale della popolazione coinvolta dalle misure restrittive in atto.

Come ha scritto Sarantis Thanopolus, l’interruzione della socialità «è pienamente efficace quando è il più possibile restrittiva, ma superata una certa soglia di restrizione anche un regime totalitario non potrebbe supportarla, perché metterebbe in discussione la sopravvivenza stessa delle persone.»[2]

Dato che gli effetti del virus non potranno estinguersi prima dell’estate, e come si deduce dalle ultime notizie non sarà commercializzato un vaccino prima del primo trimestre del 2021, i governi delle varie regioni non potranno che alternare – come già sta avvenendo in Cina – periodi di sospensione delle libertà individuali e periodi di graduale ripresa della normale socialità.

Dove sta, allora, la pericolosità della tesi di Agamben? Il fatto che si sia permesso di criticare questa società, che in ogni caso – dietro la mascherina della «comunità scientifica» – non vuole in alcun modo essere messa in discussione. Se a questo fattore aggiungiamo che la stragrande maggioranza dei lavoratori e delle lavoratrici precari/e non possono ancora avvalersi di una forma di sussistenza, cioè di accedere a un benché minimo ammortizzatore sociale universalistico – come potrebbe essere il reddito di quarantena – capiamo bene di trovarci ad un bivio per il tipo di società nella quale vogliamo vivere da ora in avanti. Capitalista o assistita, privatizzata o pubblica, paurosa o partecipe. Questa situazione di stallo potrebbe rappresentare, come ha scritto Žižek, una grande opportunità per l’essere umano, a patto che però si ristabilisca la possibilità di prendere parte alla vita democratica e alla discussione pubblica. Il paradosso della gogna mediatica ad Agamben risiede in un istinto conservativo che non ha niente a che vedere con la natura umana, ma con la natura autoritaria di questa società. La vera questione non è più, dunque, la veridicità o meno della fine del mondo: il vero paradosso è che ce la stiano raccontando.

Fotografie di Francesco Terzago


[1] G. Agamben, Riflessioni sulla peste, Quodlibet, 27 marzo 2020

[2] Da S. Thanopolus, il manifesto, 12.03.2020, La profilassi come eccezione alla vita

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