Poesia e vibrazione | Intervista a Federico Sanesi

“Siamo in una bolla”, dice Federico Sanesi, musicista e performer. Suo padre, Roberto (Milano, 1930 – 2001), è stato uno dei poeti più prolifici e sperimentali del secondo Novecento. Conosciuto specialmente per le sue traduzioni di Thomas ed Eliot, ha realizzato anche un’opera in musica, Viaggio verso il Nord (1972). “In questa bolla ci si sente spaesati, in difficoltà a riafferrare il mondo di creazioni che si era disposto sulla scrivania prima di questa crisi, in qualche modo impossibilitati a riprendere i cardini”. Suggerisco, a questa sua dichiarazione di spaesamento, una speranza e un presagio. Che vi sia la rinascita di un senso nuovo di comunità, integrabile con l’ecosistema, dopo questo periodo di stasi. O che questa crisi sia solo lo spiraglio verso qualcosa di immensamente caduco, che volge a deteriorare ciò che di poco è rimasto alla natura e all’ecosistema che l’uomo abita.

Innanzitutto, vorrei stilare un parallelismo tra due linguaggi che sembrano dissimili, ma poi non così tanto: il linguaggio poetico e il linguaggio musicale, il linguaggio di Roberto e il tuo, Federico.  Alla base di entrambi vi è la presenza di un suono: la vibrazione musicale nella musica, la recitazione o declamazione della poesia che dir si voglia, quindi la voce come strumento.

Certo, anche quando è una voce interiore, anche quando non la si recita ma viene soltanto letta. La poesia è la vibrazione propria dell’anima, dei concetti e della parola, dei suoni che si rievocano dentro la parola, che risuonano nel tessuto emozionale e anche neuronale, biologico. Il suono e la biologia sono estremamente connessi. Da figlio di Roberto, ho visto e percepito sempre la poesia esprimersi su piani diversi, su linguaggi diversi, testimoniando l’idea di poesia come vibrazione e ritmo.
Mio padre, con la sua idea di Alterego, cioè che la personalità potesse scindersi in poesia per comunicare la frammentazione dell’Io nei confronti del mondo, è stato estremamente prolifico e ha prodotto tantissime e identità diverse. L’idea del camouflage, del camuffarsi, del prendere diverse sembianze, trasformarsi è una cosa che inevitabilmente mi è stata trasmessa. E così io faccio nei confronti della musica, considerando all’interno della vibrazione ciò che una mente e dei sensi allenati percepiscono nella differenza tra suono organizzato e rumore. Un tema importante in tutta la musica del Novecento è il solco: la distinzione tra suono e rumore. Ecco, vedo il suono e la musica anche come rumori organici.

Ritratto di Roberto Sanesi

Sicuramente c’è un’analogia tra il corpo come cassa di risonanza musicale, dove l’acqua reagisce a queste vibrazioni, e il corpo come voce, dove la vibrazione si riconosce. Però, allo stesso tempo, vi sono anche delle differenze, almeno a mio parere, nel tipo di musica che componi tu, che è strettamente legato alla vibrazione, dal momento che sei un percussionista.

Sì, diciamo che in parte io trascendo l’aspetto estetico, per me secondario, per concentrami più su quello vibratorio. Io non suono mai in stili, non compongo se non quando mi tocca per lavoro, tento di sfuggire a queste gabbie estetiche e formali. Mi pongo in una maniera diversa rispetto all’idea di musica, poiché la musica non è tanto un genere, ma piuttosto una superficie, uno specchio che riflette il pensiero e le emozioni. Poi ho una forma di mancato possedimento della musica. Non mi piace imporre lo strumento o il linguaggio sul tempo e non permettere al tempo di offrire i giusti strumenti per esprimere la sua dimensione. Preferisco dunque intendere il suono come tempo, come materia plasmabile, nel senso di poterlo suggerire, ma in maniera indefinita.
La dimensione delle percussioni è emersa in me quando ero con mio papà e ascoltavo il suono della sua macchina da scrivere, questa idea che la parola avesse un suo ritmo, no? La dimensione del ritmo nella parola non è come nel suono: è molto più elevata sotto un certo punto di vista. Io poi suono anche le tabla e ho impostato la mia ricerca innanzitutto in India, tra parola, suono e metrica sacra. Questo è l’aspetto che mi ha portato ad essere un percussionista piuttosto che un pianista o un violinista. L’idea del ritmo come qualcosa che sta al fondamento ed è dinamismo, poiché il ritmo è pensiero ed emozione, il cui aspetto principale non è tanto l’emozione, quanto la capacità di comunicare e svelare l’intuizione, attraverso la dimensione di trance che è fare musica, e che nel poeta è fare poesia. Il tempo della poesia e della musica, come in un quadro, si concentra nell’immagine, nell’armonia o nella voce. Mi sono accorto, nella mia carriera di musicista, di rappare, a volte, poiché rappando si svela il ritmo che è insito nella parola ma anche il sotto-ritmo, che è il ritmo più proprio.

La dimensione del ritmo nella parola non è come nel suono: è molto più elevata sotto un certo punto di vista.

Si è accennato prima a questa differenza tra rumore e suono, che mi pare essere fondante. Anche nel tuo spettacolo con Pak Yan Lau, che è più un’installazione, quel limite, che di solito è evidente e posto tra musica e suono, tende ad essere superato.

Be’, sì, lì eravamo in una dimensione abbastanza sottile di ascolto reciproco e quindi la parola, il suono e il ritmo potevano fluire, come se i numeri e le parole si cercassero fra loro, senza nessuna imposizione. Lei suonava una vecchia tastiera giocattolo, e con l’archetto del violino stuzzicava uno dei cavi di questo pianoforte.  La struttura e l’organizzazione si sono mischiate insieme all’entropia. Abbiamo ereditato delle cose da John Cage, sicuramente, nel vedere la musica come qualcosa che ha una vita propria. È come se ci fosse un unico universo, nella musica, che contiene tutto, e quando ci colleghiamo questo mondo si mostra anche con forme e modi assolutamente stupefacenti.

Abbiamo ereditato delle cose da John Cage, nel vedere la musica come qualcosa che ha una vita propria. È come se ci fosse un unico universo, nella musica, che contiene tutto.

Attraverso il gesto artistico, dal grande universo di variabili possibili, alla fine si tende a variare in una o in più forme, e in queste forme si rivedono tutte le altre. Un universo di rimandi, infinito, scolpito in una sola forma. Se ci volessimo spingere ancora oltre, in questa speculazione, si potrebbe dire che questo aspetto rappresenta il meccanismo di funzionamento della realtà stessa, almeno secondo la fisica quantistica.

Sì, prende molte forme senza costringersi a una sola. Ovviamente, le analogie e le differenze tra poesia e musica sono questioni di metodo. Anche se questi prîncipi sono condivisi, io mi sento figlio del ritmo. Il ritmo, la metrica della poesia sono sempre stati molto forti in me, in relazione con il linguaggio. Bisogna cambiare ritmo per esprimere diversi significati, così come bisogna avere una capacità formale sempre pronta a modificarsi, come un virus.
Ricollegandomi a questo argomento, credo calzi a pennello la poesia di Roberto L’interrogazione infinita, un testo che mette in evidenza e in modo abbastanza chiaro questa idea di infinita rinascita, una primavera infinita, e soprattutto di una ricerca fatta per continui tentativi e continui spunti.

Bisogna cambiare ritmo per esprimere diversi significati, così come bisogna avere una capacità formale sempre pronta a modificarsi, come un virus.

Una ricerca che sia, dunque, un’introduzione, per citare un’espressione che Roberto utilizza riferendosi alla traduzione, nella prefazione all’antologia di testi di Thomas Eliot, pubblicata da Bompiani. L’Interrogazione Infinita può essere vista come una ricerca che procede per momenti iniziali, per incipit. Ogni poesia introduce qualcosa che non è mai veramente dischiudibile. Ciò che è posto dietro il tutto non è raggiungibile da una risposta, ma da un’altra domanda. È un procedimento asintotico, se vogliamo, che procede per tentativi e avvicinamenti senza mai poter veramente toccare l’obbiettivo a cui tende. La poesia di Roberto funziona come un’introduzione a qualcosa di inspiegabile. Proprio per colmare questo vuoto semantico, strutturale e innato alla realtà, Roberto è stato capace di mischiare e armonizzare diversi strumenti. C’è la poesia, il linguaggio, il logos ma c’è anche la musica, e poi c’è l’immagine dipinta, la poesia visiva, dando valore pittorico e figurativo al linguaggio stesso e ai segni che lo compongono. Tu come percepisci il valore di queste tre percezioni, che si mischiano in maniera organica?

I linguaggi convivono, e bisogna padroneggiarli da un punto di vista tecnico. Parlando di Roberto, il suo lavoro è stato quello di dare una forma visuale al linguaggio, espandendosi sempre di più in regie teatrali e in scrittura di opere. Roberto aveva una certa preoccupazione di fronte all’idea non tanto dell’Accademia, quanto dell’accademismo. Questa idea non gli piaceva. Queste trasformazioni avvengono perché lui non si pone un limite estetico. Voleva conoscere gli strumenti per manipolare la parola, il pensiero, il colore.  In virtù di questo rapporto col visivo, lui si è espresso molto bene come critico, perché aveva questa capacità, che piaceva molto agli artisti, di calarsi dentro l’esperienza individuale del singolo artista più che parlare da una posizione privilegiata, senza mettere l’opera in rapporto con una corrente artistica o con una dominante estetica o culturale o identitaria o geografica. Questo è importante, quando si parla del Nord e del Viaggio Verso il Nord. Questo senso dei luoghi e di un luogo mirato, uno zenit, che non è uno zenit estetico, ma una capacità di mantenere il pensiero sempre sensibile e riflettente.

Scrittura visuale di Roberto Sanesi

Siamo passati dal concetto di interrogazione infinita e da quello di Alterego come alcuni dei luoghi cari a Roberto. Che dire invece del Nord, o della Talpa Celeste (1962), altro grande simbolo a mio parere molto rappresentativo della sua poesia?

La poesia di Roberto funziona come un’introduzione alla trascendenza. Un aprire la porta su un’altra dimensione. In essa c’è questo coesistere di opposti, questo tentativo di trasmutare la materia come fosse posta sul piano del pensiero, sempre diverso. Il fatto che il cielo sia la terra, quindi una materia impalpabile, che noi però trattiamo come una materia solida. Questo togliere la solidità a ciò che è solido per renderlo aereo o fluido e rendere concreto qualcosa di aleatorio.

La poesia di Roberto funziona come un’introduzione alla trascendenza. Un aprire la porta su un’altra dimensione. In essa c’è questo coesistere di opposti, questo tentativo di trasmutare la materia come fosse posta sul piano del pensiero, sempre diverso.

In questo mi sento di citare le parole di tua madre, Anita, che nel suo libro Di Me, di Te, dell’Albero, dice: “Non ho mai capito perché non tornò più in America. […] ma oggi sento più che mai che il suo personale, culturale, profondamente spirituale viaggio verso il nord non era la banale intenzione d’un viaggio. Non esistevano ragioni di pratica utilità. Il nord non era l’America. Non poteva esserlo. Il nord aveva radici nel profondo del suo pensiero simbolico, nel suo mito, nel rapporto con una natura che è custode del sublime oltre la soglia del visibile”. Diciamo che, a mio parere, questo potrebbe essere uno dei moventi principali, ovvero sia il superare il limite della realtà con la parola, una parola vissuta in maniera profetica, che procede per immagini. La poesia come mezzo conoscitivo per eccellenza.

Sì, mezzo conoscitivo eppure cieco, come la talpa. Tu non vedi e non sei attratto da stimoli. Li ritrovi sotto le tue mani, sotto le tue unghie, nella tua ricerca. Un lavoro da archeologo quasi, di dissotterramento di ciò che non è sensibile.

Il che si sposa esattamente con questo tipo di poesia, che non può essere letta da un occhio profano che cerca in essa un senso facile.

Sì, perché lo cerca in superficie, in un’estetica che non si compiace di esserlo. E non lo trova neanche nel senso, per via di un fatto pedagogico, nel senso di educazione alla poesia, alla scrittura. Per molti è un’espressione estetica, per Roberto era una dimensione filosofica.
Anche considerando i titoli che vengono dati ai singoli componimenti, in essi si intravede l’intenzione di demolire lo schema preconcetto e fornire a un qualunque lettore un approccio metafisico, un approccio filosofico, un approccio intuitivo. Penso che avere la pretesa di comprendere la poesia, come quella di comprendere la musica o l’arte, sia un po’ una presunzione.

Quando ho scritto la tesi su Viaggio Verso il Nord ho sottolineato quest’aspetto, che è a mio parere fondante. Vi sono delle immagini che muoiono al di fuori e rinascono all’interno della poesia, e così danno nuova vita al linguaggio. Nella raccolta edita da Mondadori sono riportati tre frammenti di saggi, in uno dei quali Roberto si sofferma fortemente sulla differenza tra estensione e intenzione, dicendo che al diminuire dell’una aumenta l’altra, e che si vuole essere compresi bisogna spingere sulla prima anziché sulla seconda. Ecco, lui stravolge questo sistema, gettando delle bombe di parole che turbano profondamente il lettore. È un discorso tipicamente post-moderno. Non esiste più una corrispondenza univoca di senso, un senso democratico, all’unanimità, nella percezione del linguaggio. La percezione è smembrata e ne emergono pezzi di significato, ma non si arriva mai ad un tutt’uno. Nonostante questa consapevolezza, egli supera il nichilismo o la sfiducia nella parola. Non resta in questo limite. Il nichilismo non gli basta. È sempre proiettato al di là, con la consapevolezza dei limiti della ragione e della lingua, certo, ma traspare, dai suoi versi, un’immensa fiducia in un altrove indefinito.

Roberto è un trasformativo. Ha questo senso un po’ esistenzialista dell’invecchiamento, del caduco, del senso della morte, però lo supera. Mi ricordo che, quando mia mamma lo leggeva, aveva quest’impressione di pesantezza. Io invece le ho sempre trovate divertenti, con un senso di sottile ironia dentro, molto profondo. Questo senso di gioco mi è sempre piaciuto.
Rimaneva, in qualche modo, sempre nella beffa, nello scherzo, anche scherzo drammatico. Apprezzo molto questo senso ironico, dissacrante. Vorrei citare anche la filosofia di Enzo Paci, quando scrivevano insieme negli anni ‘60, sulla rivista Aut Aut. Era un approccio alla provocazione, ma non fine a se stessa, quello di mettere in dubbio una società artistica troppo spersonalizzante, privata del senso di essere poesia, di muovere qualcosa nel profondo delle persone. Anche guardando a quello che poi lui ha tradotto. Tutto ciò detto da uno spirito assolutamente anarchico quale mio padre. In questo senso lo porrei più vicino alla Beat Generation, una poesia legata alla capacità di essere liberi. O anche a Whitman.

Eccoci arrivati all’ultima domanda. In questa intervista ho voluto parlare di questa poesia: Allora chi, o cosa? Anche in quell’esibizione con Pak Yan Lau, tu la reciti. Questa poesia ci mette in mano il riassunto di quanto detto finora. La maniera in cui Roberto introduce un concetto indefinibile.  Che cos’è “la cosa”?

Lui scrisse con Gaetano Gianni Luporini, il musicista che faceva le musiche per Carmelo Bene, un’opera intitolata Da Capo, scritta per i giovani negli anni ’80. E c’è questa cosa che tutti cercano, quest’arma micidiale che nessuno conosce, scimmioni, generali, assistenti di Faust che tentano di seguire questa cosa, che però appunto rimane metafisica.
Questa poesia, secondo me, è una di quelle che ha una forte enunciazione dei principi filosofici di Roberto. La capacità di costruire un’indagine sulla bellezza, sulla molteplicità, sul suono, sullo spazio e il tempo. Per questo io e Nuria l’abbiamo sempre associata alla danza, poiché esprime un’interessantissima stratificazione di ciò che siamo.  Non è l’unica a cui sono affezionato, ce ne sono altre che amo molto, che normalmente recito. Verso l’Inverno¸ Su Fondamenti Invernali, La Bottega del Vetraio, tutte le poesie de La Differenza, anche Poesie per Atitke, L’ultimo Giorno di Primavera. Penso che questa poesia, in ogni caso, racconti di come le cose si costruiscono e di come si riflettono l’una con l’altra. Il fatto di non sapere ciò che si è ma di sapere che lo si sta diventando.


FEDERICO SANESI è un percussionista e compositore italiano. Ha studiato musica classica  presso la Scuola Civica di Milano con D. Searcy. Dal 1980 viaggia in India, dove intraprende lo studio del Tabla con il Maestro Pandit. Sankha Chatterjee a Kolkatta, prosegue al I.I.M.C di Venezia, Berlino e Kolkata. Nel 2012 ha ricevuto la Nomination per i Global Indian Music Awards 2012 per il CD Dil, inciso con Shujaat Khan (l’equivalente indiano dei Grammy Awards). Ha all’attivo numerosi album in studio. È tra i giurati del Premio Roberto Sanesi di poesia e musica.

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