Giù in fondo | Elena R. Marino

Si chiamava Mickie. Vedevo Mickie il danese suicidarsi con i medicinali come suo padre e scivolare lentamente lungo la corteccia grossa dell’albero, raschiarsi la schiena e la nuca mentre i capelli biondi scivolavano dalla nuca verso la fronte; lo vedevo che cercava di guardare in alto – credo che tutti, morendo all’aperto, vorrebbero guardare il cielo e non la piccola miseria del proprio corpo abbandonato sulla terra come un sacco pieno di sassi – oppure, a volte, lo vedevo impiccato all’albero, lo vedevo penzolare da lontano dall’albero magico come Pinocchio, una sagoma piccola piccola, vedevo Pinocchio nordico biondo e la cosa faceva morire anche me, perché in quel caso per salvarlo ci sarebbe stato da fare qualcosa di magico, un rituale con le rune, oppure chiedere un favore a qualcuno, qualcuno di magico come la Fatina Triste oppure Dio, ma io non avevo la minima idea su cosa fare né a chi chiedere il favore, soprattutto quale favore, né se me lo avrebbero concesso, perché chi ero io in quella storia? Nessuno, mi ripetevo, e non sapevo chiedere niente a nessuno, non pensavo che qualcuno di così importante e potente mi avrebbe mai ascoltato. Al centro del Parco della Caffarella, su una collinetta, vedevo Mickie penzolare dall’albero, e lo vedevo contro il cielo della sera che iniziava a venire giù dalla parte alta centrale del cielo, e in seguito dai bordi larghi laterali, fin là dove iniziava Roma, perché invece la sera su Roma non aveva cielo, ma solo le luci del traffico, dei semafori e delle case, a milioni, e Roma stava dietro le nostre schiene, quando Mickie e io ce ne stavamo seduti sotto l’albero sulla collina nel Parco della Caffarella, un’infinità di anni fa, anche se per me è come se fosse adesso. Un momento. Forse non siamo mai stati seduti insieme a guardare il tramonto con il traffico e le case di Roma buttati alle nostre spalle. Chi può dirlo, ormai. A me sembra di sì. Me lo sono pure sognato una volta questo traffico che vedevo da lontano e mi buttavo dietro la schiena. Adesso non so più se è un sogno o un ricordo, in ogni caso quello era il nostro periodo magico in cui tutto poteva accadere e noi eravamo al centro della zona nella quale tutto, proprio tutto, nelle nostre vite poteva accadere. A sera correvamo nel parco, che con le sue collinette ridicole toccava direttamente il cielo che istante dopo istante si abbassava, ed era di un colore acceso e spento, blu scuro e insieme blu sporco, con in mezzo il volo di qualche stormo nero a tracciare una linea segmentata verso gli altri paesi e le altre nazioni e le altre lingue che non conoscevo, giù in fondo (come si dice “giù in fondo” in danese, Mickie?), dove c’erano altri come noi che in quel momento – mentre noi ricevevamo la notte – ricevevano il giorno con il sole negli occhi, con le palline iridescenti sulle ciglia, ed erano giovani come noi e tutte quelle cose lì, mentre qui da noi era arrivata questa notte con le luci elettriche alle spalle, e i cani abbaiavano nel buio della campagna e non si capiva bene dove fossero. Noi correvamo nel buio con le ginocchia di panna, sfatte, giù per le discese, ma non ci facevamo mai male, perciò abbiamo iniziato a pensare di essere magici.

Adesso non so più se è un sogno o un ricordo, in ogni caso quello era il nostro periodo magico in cui tutto poteva accadere e noi eravamo al centro della zona nella quale tutto, proprio tutto, nelle nostre vite poteva accadere.

Poi c’erano le salite. D’un tratto eravamo in cima a una collina bassa, una tetta di donna, una pagnotta per quando si aveva fame, che però, in realtà, era la cima del mondo, perché tutto il mondo stava appiattito a terra giù intorno e noi salivamo e scendevamo, ci tuffavamo dietro i cespugli e i rovi, ci rovistavamo subito nei pantaloni, ci toccavamo i piedi, cercavamo di toccare l’alluce con le labbra, ci toccavamo tutto il corpo per ritornare rotondi, conclusi in noi stessi, come l’orizzonte con la città da una parte e il vuoto della campagna dall’altro, al margine estremo. Io cercavo le parole e gliele insegnavo. Afrore di noi si diffondeva intorno. Lo sentivamo e ci sentivamo. Ci univamo nel ciclorama che si spegneva. Formavamo sagome nere di criceti, di bisce, di cani e di gatti, di topi e conigli, di gallo con galline e galli fra di loro e galline fra di noi, ed era tutto un frinire e un chiurlare, un grugnire e un cantare e trillare, un chiccolare e tubare e zirlare e gorgheggiare e paupulare, e poi un rantegare e abbaiare, e un ragliare e finanche rugliare, e un nitrire e un bubolare, un gloglottare come i tacchini, e un bombire come gli insetti infervorati d’amore, che brulicavano entusiasti nella notte che era una massa di nettare scuro, una massa di velluto nero. Era bello.

***

Vedevo Mickie pendere dall’albero, soprattutto nelle sere d’estate.
Durò per un periodo, sembrava che dovesse durare per sempre, e in un certo senso era davvero così: durava per sempre. Poi con Mickie quasi non ci parlavamo, ed eravamo tutti soli in questo grande appartamento al piano terra ai margini della periferia, là dove iniziava il Parco, e avevamo le inferriate alle finestre e chiudevamo bene la porta, e Mickie andava dalla sua stanza fino al bagno, e dal bagno alla sua stanza, nudo e bianco e liscio – io dalla porta aperta della mia stanza lo vedevo passare, in silenzio passava come un fantasma e non si fermava – ma nelle stanze sfitte, in seguito, vennero ad abitare altri ragazzi e altre ragazze, ogni tanto andava via qualcuno, qualcuno arrivava, pranzavamo tutti dispersi, non so dove fossero gli altri, mentre a cena la cucina si affollava e spesso non si riusciva più né a uscire né a entrare, era talmente afoso che s’appannavano i vetri quando fu inverno, invece a primavera si spalancarono le porte a vetri e le inferriate che davano sulla terrazza e si uscì fuori tutti insieme con i bicchieri in mano – era una specie di felicità – e i tovaglioli con dentro le torte salate, le pizze, i panini e tutto il resto. Mickie però preferiva quando non c’era nessuno, non so se io ero nessuno, e perlopiù se ne stava chiuso nella sua stanza a scrivere racconti con la vecchia macchina da scrivere che aveva comprato a Porta Portese, e aveva accanto sul comodino flaconi di roba che gli avevano prescritto in Danimarca, Se non li trovo anche qui sono fottuto, diceva sempre, Mia madre non me li manderà più, mia madre non ne vorrà più sapere di me, diceva. Mi ha detto Sei maggiorenne fatti la tua vita, e io pensavo che avrebbe potuto indifferentemente pestare sui tasti con forza, o inghiottire una volta per tutte le sue pasticche con il taglio in mezzo, senza le quali si metteva a parlare del suicidio del padre, che s’era ammazzato per la depressione di avere ammazzato con la propria automobile una bambina, come se fosse stata l’unica cosa insopportabile accaduta sul pianeta Terra nel corso dei millenni, e lui sarebbe stato fottuto una volta per tutte, e la storia avrebbe avuto un suo risvolto ragionevole.

Mi ha detto Sei maggiorenne fatti la tua vita, e io pensavo che avrebbe potuto indifferentemente pestare sui tasti con forza, o inghiottire una volta per tutte le sue pasticche con il taglio in mezzo.

Dopo quel periodo, sono accadute molte cose che manco ricordo: a un certo punto abitavo in un appartamento al piano terra dalle parti di San Giovanni – più su, verso il ponte sulla ferrovia – che era soltanto un ammasso di ruggine e sterpaglia giù in fondo a un fossato altissimo e i binari scivolavano via come bisce. Nell’appartamento c’era talmente tanta umidità che i libri si gonfiavano e non si aprivano più. L’unica finestra della camera dava su un pozzo di luce ritagliato in alto da muretti e grondaie sulle quali passeggiavano i gatti.
Veniva un fotografo e lo buttavo sul letto, mi diceva Mi vogliono solo per il sesso e noi comunque facevamo sesso, sesso sesso sesso, lui voleva parlare di fotografia ma alla fine facevamo sesso. Veniva un musicista e canticchiava musiche difficilissime da canticchiare, mangiavamo una scatoletta di tonno e poi saltavamo sul letto umido, con le lenzuola appiccicate alla pelle, rotolavamo fino a cadere per terra e lo facevamo con ritmo, in questa o in quella posizione. Veniva un attore e stava in silenzio, si metteva in un angolo, guardava fuori dalla finestra e stava in silenzio, poi camminava lento a piedi scalzi sul pavimento gelido di mattonelle fino al letto umido, e finalmente gridando prendeva in mano l’arnese e si metteva all’opera. Veniva un venditore di recipienti di plastica al mercato rionale, sgolato a furia di gridare per vendere tutte le mattine tutto quello che aveva, e sussurrando che aveva freddo attendeva supino che io mi stendessi sopra di lui e gli tenessi la schiena al caldo, cosa che io facevo volentieri, e ci addormentavamo fino al mattino.
Ma non riuscivo a togliermi dalla testa Mickie il Danese e tutto quel periodo.
Nel parco c’era la casa di Pinocchia, che era una grotta e la gente ci passava davanti fingendo di passeggiare, ma in realtà erano curiosi di vedere come si vive dentro la grotta. Pinocchia doveva rimanere tutta la vita con la testa di legno, si prevedeva. Pinocchia correva con le gambe rigide, alle gambe aveva due chiodi di metallo con due belle stecche, sempre di metallo, che lei lucidava con una pelle di daino. Io e Mickie andavamo davanti alla grotta e Pinocchia ci correva dietro con un gran fracasso di ferraglia, noi ridevamo e arrivavamo fino alla buca della bomba. Là sotto c’è una selva e una grotta, la bocca dell’inferno e del paradiso, che in realtà sono la stessa cosa, un orifizio d’amore e di tormento nel corpo della terra. Pinocchia diceva che là iniziava anche un intrico di strade sotterranee che portava sotto tutta Roma, ma di sicuro fino al Gasdotto. Che in realtà è un’installazione aliena con un fortissimo campo magnetico al centro, che può guarire chi ci crede e fa rimanere eterni, come illuminati e alimentati per sempre dal gas. Mickie aveva detto che un giorno avrebbe scavalcato tutte le recinzioni e si sarebbe messo al centro del Gasdotto. Pinocchia ci aveva detto che c’era un luogo, dietro il canneto vicino all’entrata del parco, che era pieno di mutandine di bambini, vicino all’osteria dove c’è l’oste che fa i piatti più economici e più buoni di tutta la città, soprattutto le trippe, e Mickie aveva detto che non voleva più vivere, e tutti eravamo rimasti in silenzio.

Pinocchia diceva che là iniziava anche un intrico di strade sotterranee che portava sotto tutta Roma, ma di sicuro fino al Gasdotto. Che in realtà è un’installazione aliena con un fortissimo campo magnetico al centro, che può guarire chi ci crede e fa rimanere eterni, come illuminati e alimentati per sempre dal gas.

Ormai lavoro nella metropolitana, fermata Furio Camillo, e Mickie il Danese non so dove sia finito. Nessuno di quelli di allora sanno dove sia finito, o come sia finito, Mickie il Danese. L’unica cosa che mi ha regalato è un portacandele danese per le candele danesi che lui si era portato da casa sua, che però non era più la sua casa, perché sua madre aveva detto che ormai era grande e doveva farsi una vita per conto suo.
Il Grande Vento Caldo, il risucchio nero della metropolitana acchiappa ogni giorno le mie gambe, il busto, le braccia, la testa, i capelli e me li sventola in avanti mentre dalle narici inalo polvere di ferro, il nerume polveroso quotidiano. Io continuo e non so perché. Mi soffia in faccia l’aria calda del fondo e io, scese le scale, entro nella mia gabbia di vetro, acciaio e alluminio. Con lo straccio e lo spray che spruzza violentemente odore di pulito strofino il pezzo di banco sul quale appoggerò gli avambracci per il resto della giornata. Inizio a lavorare, staccando i viaggi nel tunnel. Ho queste immagini di Mickie che penzola dal nostro albero o scivola lungo la corteccia, non riesco a immaginare che sia cresciuto e invecchiato, non lo voglio vedere altrove, in un altro tempo e luogo, non può essere che non sia più Mickie il Magico della nostra dolce disperazione nel Parco della Caffarella. Stacco pezzi di viaggio senza guardare le facce, mi fisso sulle mani, rotolano e poi cadono da un lato le monetine, un ruggire esasperato riparte per l’ennesima volta in fondo alla notte elettrica alle mie spalle, io non guardo niente, solo piccoli pezzi necessari, e spero che “giù in fondo”, in danese, suoni bene, che “giù in fondo”, in danese, sia dietro da qualche parte, alle mie spalle, insieme a tutto il resto.

Opera di Sergey Meytuv

4 pensieri su “Giù in fondo | Elena R. Marino

Lascia un commento