Rebecca

La Future Home High School, con il suo altisonante nome inglese, era il vanto dell’intera nazione. Coloro che la frequentavano avevano di norma l’arroganza di chi è destinato a diventare il direttore di una grande azienda o a prestare il proprio nome a un reparto ospedaliero. Se ne andavano in giro per aule, cortiletti e corridoi con attorno un’aura di immortalità di cui solo chi abbia un futuro già scritto percepisce davvero la natura illusoria e, di riflesso, la pressante esigenza di raggirare sé stesso. Non insulterò la vostra intelligenza affermando che stavo al di fuori di tutto questo. Mio padre era un chirurgo plastico e mia madre la dentista delle star: nel mio futuro c’era odore di anestetico e menzogna. Forse per reazione a una simile condanna, sebbene fossi stata abituata a considerare solamente la facciata delle cose, negli anni della mia giovinezza ero attratta da tutto ciò che mi sembrava autentico, reale e genuino. Come ogni adolescente sentivo l’urgenza di vivere tutto e di viverlo subito, ma per noi della Future Home c’era anche qualcosa di più. Ci sentivamo come se stessimo vivendo all’interno di una lunghissima estate, una finestra vacanziera sul confine della vita vera, e sapevamo che ogni relazione che non si fosse consolidata nella prospettiva di una collaborazione professionale era destinata a sciogliersi con l’arrivo dell’autunno, per noi rappresentato dal conseguimento del diploma. Ogni esame superato era un passo in più verso il baratro del nostro successo, e la fine del tempo in cui ci era concesso sbagliare. Così vivevamo illudendoci di essere eterni, convinti di succhiare l’essenza della nostra giovinezza, senza renderci conto che invece la stavamo avvelenando. Ma Rebecca era diversa.
Rebecca, capelli neri, occhi verdi e una bellezza impossibile da ricreare in laboratorio, non era la ragazza più ambita della scuola solo perché aveva un’indole caotica e confusa che la portava a desiderare di nascondersi nel mucchio: peraltro, un desiderio vano. La sua andatura curva, la lacca nera delle unghie e l’aria guardinga non toglievano nulla al suo fascino, bensì le conferivano un alone trasgressivo (non c’era niente da cui Rebecca fosse più lontana) che si sarebbe dissolto se lei avesse acquisito una maggiore consapevolezza di sé stessa, e che a chi è stato omologato tende a incutere paura (motivo per cui molti le giravano alla larga). La sua uniforme era sempre fuori posto, con la camicia bianca che sbucava dal gilet, e a causa di questo Rebecca finiva ogni giorno nell’ufficio del rettore, che l’aveva etichettata come una minaccia alla comune disciplina. Ma Rebecca non lo era, e neppure lo voleva. Ci provava, a essere come tutti gli altri, solo che non ci riusciva.

Ci sentivamo come se stessimo vivendo all’interno di una lunghissima estate, una finestra vacanziera sul confine della vita vera.

A lei era capitata la sorte peggiore per la sua indole. I suoi genitori, famosi sessuologi, le avrebbero lasciato il loro studio, le loro colonne sulle riviste di settore e il loro posto fisso nei talk-show del sabato pomeriggio. Non ce la vedevo proprio, Rebecca, a porgere domande intime ai propri pazienti, quando a Claudia e a me, che eravamo le sue compagne di stanza, non riusciva neppure a chiedere un Tampax.
Claudia non era bella quanto lei, ma per i ragazzi del campus era più rassicurante. Lei e Rebecca si spartivano equamente la fascinazione dell’ala maschile, con la sola differenza che Rebecca non se ne accorgeva. La vicinanza di un’altra persona, e di un ragazzo in particolar modo, le scatenava reazioni di panico e orrore. Il minimo che poteva capitarle era paralizzarsi in preda alle palpitazioni. Per questo, quando si scontrò sul piazzale con Dillinger, un nutrito gruppo di studenti era già pronto a immortalare l’evento per le pagine dell’annuario.
Dillinger, che il suo vero nome lo usavano soltanto gli insegnanti, non lo chiamavamo così perché somigliava al famoso fuorilegge o per le grandi dimensioni del suo pene, ma perché era un outsider. Anche di lui, come nel caso di Rebecca, il rettore si era fatto l’idea che costituisse una minaccia. Nessuno era in grado di vedere cosa si nascondeva dietro la sua facciata.
Quello che tutti videro quel giorno fu il comico schianto tra due individui fuori luogo che si ritrovarono, loro malgrado, a condividere un attacco di panico, sebbene l’idea di condividere qualcosa con qualcuno trascendesse le loro intenzioni presenti e future, mentre i preziosi libri di latino, geografia e trigonometria si infangavano assorbendo l’umidità delle foglie sparpagliate sul vialetto. Ma io vidi qualcos’altro.
Ho già detto che avevo la tendenza a impressionarmi riconoscendo quella particolare bellezza che la sola verità sa rivelare, una qualità a cui tendiamo ad attribuire sempre minore importanza, col tempo, (io stessa ho ormai perso quell’abitudine, purtroppo) – e quei due idioti erano veri.

La vicinanza di un’altra persona, e di un ragazzo in particolar modo, le scatenava reazioni di panico e orrore. Il minimo che poteva capitarle era paralizzarsi in preda alle palpitazioni.

Quel giorno fui la sola in grado di spezzare l’impasse della situazione, mentre gli “immortali” si limitavano a guardare (e la vergogna dei due protagonisti continuava a crescere e a sedimentare) e a deridere quella capacità che loro non avevano (la capacità di provare vergogna) solo per consolidare l’illusione che li manteneva in vita. Non li biasimo per questo, e non li biasimai allora; ma c’era qualcosa nei due ragazzi al centro della scena che mi spinse ad agire allo scopo di riuscire a preservarli. Sapevo che raccogliendo i libri di Rebecca e accompagnandola fino all’ingresso non avrei guadagnato le sue simpatie, (e difatti Rebecca non parve gradire l’inevitabile contatto della mia mano su una zona neutra del suo corpo), ma non mi interessava. Volevo solo sottrarla agli sguardi e ai giudizi degli altri prima che questi potessero inquinarla. Volevo che lei e il suo clone maschile restassero puri, innocenti, incontaminati. E lo sarebbero rimasti per altri cinque anni.
La nostra estate scorreva veloce (anche se allora ci sembrava interminabile) e io cessai di interessarmi alle vicende di Rebecca (anche perché non esistevano) per concentrarmi sulle mie. Non ero popolare come Claudia, ma intrattenni un paio di relazioni sentimentali piuttosto serie ed ebbi cura di riempire i tempi morti con tutte le situazioni di alcol, droghe e intemperanze richieste dall’età. Naturalmente lo studio assorbì la maggior parte delle mie giornate. Superai tutti gli esami a pieni voti e collezionai un ricco medagliere grazie alle gare di atletica. Per tutto il tempo Rebecca fu una figura di sfondo nella mia vita e nella mia stanza, benché quest’ultima, grazie a lei, fosse sempre immersa nel principio dell’entropia termodinamica. All’ultimo anno quasi non ci parlavamo neanche più. Finché arrivammo al giorno del diploma.
Per noi ragazze il giorno del diploma aveva un duplice valore. Non si trattava solamente della fine di qualcosa, ma era anche l’ultima occasione che avevamo per sfuggire alla minaccia del lavoro grazie a una proposta di fidanzamento. Tutto ciò che avremmo dovuto fare, se ci fossimo sposate, sarebbe stato partorire quei due o tre bambini che un giorno, quel lavoro, lo avrebbero svolto per noi. Per Rebecca questa opzione sembrava particolarmente importante, e tutti davamo per scontato che avrebbe accettato la proposta di uno dei suoi pretendenti. Il primo era Gabriel, fratello di Claudia; l’altro Max Schiscetti, primogenito della famiglia fondatrice di una nota casa automobilistica. Lei non si smentì neppure in quell’occasione e si presentò in ritardo, a cerimonia già avviata, mentre il rettore era intento a distribuire coccarde e pergamene. Aveva l’uniforme in disordine, come sempre, e lo smalto non si era ancora asciugato sulle unghie. Lanciava sguardi nervosi alla divisione maschile e, quando le chiesi se qualcosa non andava, rispose che là in mezzo c’era il tipo che le piaceva. Claudia interpretò le sue parole come la conferma che aspettava e, certa che Rebecca avrebbe scelto suo fratello, iniziò a maneggiarla come una sua proprietà. Non amava particolarmente Rebecca, ma non metteva in dubbio la supremazia del suo sangue: se Gabriel la voleva, di certo l’avrebbe ottenuta.

Volevo solo sottrarla agli sguardi e ai giudizi degli altri prima che questi potessero inquinarla. Volevo che lei e il suo clone maschile restassero puri, innocenti, incontaminati.

Claudia non era stata sufficientemente attenta da notare che, per la prima volta, Rebecca aveva osato metterci a parte di un argomento tanto personale. Il ragazzo che le piaceva. Era evidente che qualcosa la turbava, e l’urgenza di prendere una decisione non c’entrava. La lunga estate stava finendo anche per lei.
Io avevo già scelto il lavoro e, come da regolamento, non avrei partecipato alla festa che si sarebbe svolta quella sera. Mi preparai dunque a tornarmene a scuola, dove avrei cenato con le altre ragazze destinate a fare carriera. Ma ero troppo curiosa e sul percorso tornai indietro. Presi Rebecca in disparte e: «Di’ un po’, non è Gabriel il ragazzo che ti piace, vero?» dissi.
Lei scosse il capo, arrossendo di colpo.
«E scommetto che non è neppure Max Schiscetti».
Scosse il capo più forte. Le sue labbra divennero viola.
La buttai lì: «Lo sai, vero, che Dillinger è innamorato di te?»
Non so perché lo dissi, ma qui il capo di Rebecca si fermò.
«Dunque è lui il ragazzo che ti piace?».
Non disse nulla, il suo viso era bianco come un narciso. Capii che avevo fatto centro. Presi Rebecca sottobraccio e la portai a passeggio al solo scopo di farle perdere del tempo. Parlammo molto, o meglio: io parlai e lei fece alcuni cenni con la testa. In seguito sarei stata felice di averlo fatto. Quando arrivammo ai nostri alloggi, tutti coloro che avrebbero partecipato alla festa erano in ghingheri nelle sale comuni. Alla vista di Gabriel che si distaccava dalla folla preparandosi a scortarla, Rebecca fu scossa da un tremito d’orrore e si nascose dietro i tendaggi di velluto.
«Non preoccuparti» le dissi. «Puoi rimanere qui. So che Dillinger partirà su un’auto per i fatti suoi, gli dirò io di aspettarti».
Non rispose, ma nei suoi occhi lessi la speranza.
«Vieni come me», dissi poi, dopo aver compiuto la mia essenziale ambasciata, porgendole una mano che inaspettatamente accettò di tenere nella sua. «Non vorrai mica presentarti in questo modo».
Pensavo che non sarebbe mai riuscita a salire le scale, ma lo fece. Giunta nella nostra stanza rovesciò l’intero contenuto dell’armadio sopra il letto e restò a contemplarlo con aria sconsolata. Non avrebbe mai scelto un vestito da sola, così mi intromisi e lo scelsi per lei. Lasciò il suo piccolo antro in un abito verde di chiffon, del colore dei suoi occhi. Fuori l’impresa era già al lavoro per spazzare via la nostra vita dagli alloggi e prepararli per le nuove leve. I corridoi erano invasi da lunghi teli di nylon mossi dal vento che smorzavano la luce del tramonto attraverso le vetrate. Rebecca si sentì disorientata. Volse il capo e Dillinger comparve all’improvviso, dietro un telo polveroso. Si fissarono a lungo, incapaci di esprimersi a parole. Poi lei gli fu vicino, e lui prese la sua testa sul suo petto e le odorò i capelli neri. Nessuno li ha più visti, da allora. Sono scomparsi in silenzio, attraverso gli strati del tempo, come succede a tutte le cose che ancora sono vere.

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