L’adatto vocabolario di ogni specie | Alessandro Silva

Alessandro Silva (Parma, 1976), laureato in Scienze Biologiche e ricercatore scientifico, vive e lavora a Parma. L’adatto vocabolario di ogni specie, vincitore nel 2015 del premio di scrittura sociale Luce a Sud Est, pubblicato nel 2016 da Pietre Vive, è il suo esordio.
Prima ancora che se ne veda la ciminiera alzata per trentacinque metri di cielo, / quel tanto che basta a oscurare il sole, giungendo nei pressi dell’antica città di Taranto, il complesso siderurgico dell’Ilva fa gli onori di casa, impregnando la lingua e le narici dei visitatori con l’aromatica miscela di inquinanti di cui l’aria è appestata.
Tutto pare in religiosa attesa, nei quartieri adiacenti, sotto la coltre di polvere minerale che si stende a mo’ di velo sulla mobilia di una casa in stato d’abbandono. Per dirla con le parole di Silva,  da impuri bagliori ci si lascia/ bruciare, svogliati [urto di luce/ conficcato in un recesso di Terra] e l’attesa non è speranzosa, non è un atto di fede, è piuttosto l’amara consapevolezza della fine.
copertina-Silva
La “Waste Land” plasmata dai decenni d’attività del polo Ilva, potrebbe apparire simile allo scenario di un film di fantascienza, magari ambientato in un futuro apocalittico. Per accorciare la distanza, le straordinarie illustrazioni di Giovanni Munari e un’introduzione giornalistica aprono l’opera prima di Silva, accompagnando con numeri e date il lettore, con immagini e fatti di cronaca, di modo che possa avvicinarsi al contesto dell’acciaieria e  comprendere appieno la concreta asimmetria di dolore che dà vita ai versi di questa tragica Odissea proletaria: è realtà il disastro ambientale, è conclamato il dramma sanitario, è nera e cruda la morte che ogni giorno bussa alle porte del quartiere Tamburi.Immagine3.jpg
In un prologo, quattro atti e un epilogo, l’autore dà voce a chi non ne ha o non ne ha avuta, a chi non ha fatto in tempo a parlare, come l’operaio Marcello Rubini: È morto, l’operaio. L’ho visto finire/ due volte. La prima gravemente leso/ il corpo non ha superato di un passo/ il suolo dell’area a caldo. La seconda/ tra flebo e mosche [l’anima] nella goccia/ bianca di un letto a sponde, poco cibo/ e solo un fiore di carta/ attaccato dal figlio sopra la porta./ Le proiezioni di metallo fuso fanno/ anche dieci metri di fiammate e dieci/ sono gli indagati per omicidio colposo./ Il loro cattivo gusto di nutrire la bocca/ con terra strappata alle unghie di quelli/ a cui nessuno presta più fede.
Sono personalità multiformi e non numeri, gli operai le cui voci gridano nella poesia di Silva. Respirano anche al di fuori della fabbrica, elaborano riflessioni e si emozionano. Pur essendo divorati dalla malattia e dalla stanchezza, dalla vista del vicino capolinea cui anche i bambini giungono prematuri, essi stringono amicizie e si innamorano e l’eco di tutto ciò, di questa comune esigenza d’esistere, risuona con particolare potenza espressiva nella sezione che dà il titolo alla raccolta intera e che ricorda a tratti l’opera poetica di Pavese, nello specifico Lavorare stanca.
La musicalità del verso si scontra con la durezza della ghisa e  la morte cantata fa i conti con la vita che deve andare avanti, con quell’istinto naturale alla sopravvivenza: c’è chi [fortunato] emerge con la testa/ dal passeggio sotto i fuochi, posa sul letto/ l’uniforme da lavoro e trema, erba esile/ sotto un buio di fiori. E preferisce/ rimanere un gradevole ingenuo/ che continua il suo gioco con il fuoco./ Anche oggi tutto si è messo a marciare./ Scarpe da anni radicate e unghie/ sul viso tra sudori di nausee da caffè./ Uomini in un sonno nato a malapena./Stupitevi per cosa ancora riuscite a tenere tra le dita.
Il sangue scorre e pulsa, fiume che rompe le dighe della miseria, nei Pensieri di una donna che dorme e ti guarda, ultima sezione – prima dell’epilogo – in cui l’autore ascolta, facendosene traduttore in versi, la voce delle donne all’ombra dell’Ilva. Silva evidenzia l’immobilità di un contesto estremamente patriarcale di cui tali donne sono ancora vittime, descrivendone l’attendere della fine del turno in fabbrica di figli e mariti e il modo in cui esse la notte ne sorveglino il sonno, custodi mai stanche, mai sconfitte, dell’ultimo bagliore di umanità che tiene in piedi la baracca e a tutto offre uno scheletro su cui poggiarsi. Si fanno nitide le debolezze degli uomini una volta dentro le mura domestiche, i quali, posati gli uniformi, spogliati dei ruoli, uccidono pianti e sporco di carbone e s’abbandonano alla forza primitiva della donna, forza contro la quale nulla possono abissi e scorie di fumo e che potrebbe anche – unico appunto all’autore – rompere il vetro della finestra che dà sullo Ionio ed evadere una volta tanto dalla sfera della cucina e della stanza da letto e dal torpore d’attesa in cui tale forza vitale pare sempre essere intrappolata.
Fedele al sentimento e all’alto valore poetico e civile della raccolta tutta, così si conclude l’opera di Silva:

[…]
In città tutti sono morsi da speranze diverse
quando ci si ritira dal balcone con cautela
per i fumi. Fumi che rubano il nero alla notte
e gettano inesauste cantilene. Pioviggina

polvere, l’operaio scivola nella confusione
e nemmeno gli è concesso di ricordare
dove si apriva la ferita. Cosa vuoi che si dica,
la malattia è solo una sera di solitudine smarrita
nella memoria. Lui vorrebbe morire lavorando.

ilva 1.jpg
Nel mentre, dal decreto di sequestro del 2012, firmato dal giudice Patrizia T., ad oggi le attività del polo siderurgico hanno perpetrato l’opera di distruzione ambientale e di sterminazione umana con la benedizione del governo italiano.

 

ILLUSTRAZIONI DI GIOVANNI MUNARI

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