Fare, un caso singolare

Fortuna che lo Spritz che il Più Grande Poeta Italiano Vivente stava bevendo era praticamente finito quando la prima, robusta, goccia di pioggia cadde proprio all’interno del bicchiere il cui contenuto era ormai ridotto a una poltiglia albicocca annacquata. La goccia colpì un cubetto di ghiaccio ancora piuttosto integro, sfruttandone la convessità per rimbalzare frastagliata e disperdersi dattorno. Il Grande Poeta si accorse, o meglio dedusse la cosa, perché percepì una lieve sensazione di umidità attiva sulla mano macchiata di efelidi, e anche perché notò alcune minuscole gelatine d’acqua sul quadrante del suo Oyster Perpetual 31mm portato a destra che lo infastidivano non poco, nonostante fosse consapevole che un orologio come quello fosse stato progettato per resistere a situazioni ben peggiori.
La parola che venne in mente al Grande Poeta era: Prodromo.
Il Grande Poeta si chiedeva come fosse possibile che un locale del genere, storico e in pieno centro, non avesse un dehor degno di questo nome, o almeno un fumoir interno, mancanza che lo aveva costretto a uscire sul marciapiede piuttosto stretto, offrendo la sua figura moderatamente sovrappeso al viavai dei passanti con le loro fisicità e le loro borse della spesa o da passeggio. E anche se i passanti ce la mettevano tutta per mantenere una certa distanza quando gli sfilavano davanti, e lui tendesse all’indietreggiare modulato verso la porta del caffè, ogni volta le borse della spesa o da passeggio finivano per strusciare contro la parte laterale delle sue ginocchia operate, e nonostante fosse improbabile che questo potesse recare danno ulteriore alle sue ginocchia, certamente gli impediva di gustare il suo Arturo Fuente nella pienezza di una distensione d’animo anche solo vicina a sufficiente.
La parola che venne in mente al Grande Poeta era: Prossemica.
Quel posto era stato scelto dal Caporedattore per l’appuntamento perché conservava indubbiamente un’allure primonovecentesca che di certo avrebbe fatto piacere al Grande Poeta, con le poltrone in pelle e i camerieri costretti in livree anacronistiche, i tavoli in noce e i copritavolo damasco. Il contorno scenico di un posto come quello riverberava degli echi di una belle epoque tardoromantica, che il Caporedattore immaginava essere punto debole e leccornia spirituale per gli intellettuali di una certa età, convinto fossero tutti accomunati da una sorta di nostalgia luddista, almeno per quanto riguardava i caffè. Un posto del genere avrebbe di certo facilitato l’obiettivo che si era posto, ovvero ingaggiare quel dinosauro spendendo il meno possibile perché offrisse niente di più che il suo vecchio faccione pendulo alla pubblica visione sulla prima pagina del primo numero della nuova rivista che il suo amico al Ministero gli aveva proposto di fondare e dirigere definendola necessaria in questi tempi barbari e confusi. Il Caporedattore aveva fatto intendere che sarebbe stato anche necessario però, per così dire, un piccolo aiuto economico per poter intraprendere questa nobile impresa letteraria. L’amico al Ministero si limitò a definire la questione un “problemuccio”, una sottigliezza burocratica che rientrava perfettamente nella gestalt del suo ruolo, e che avrebbe risolto a breve. Quello che importava era lo spirito. La rivista si sarebbe dovuta occupare dei problemi della contemporaneità, avrebbe dovuto aprire gli occhi (aveva detto proprio aprire gli occhi), e fungere da punto centripeto per quel pigro coacervo di intellettuali dediti soltanto alla coltivazione del proprio orticello egotistico. Il compito principale della rivista sarebbe stato quello di fare massa, azione collettiva, di appianare gli screzi per dirigersi tutti verso un fine comune: l’educazione alla bellezza, come risposta ai mali dell’uomo moderno. Una vetta parnassiana da raggiungere (aveva detto veramente parnassiana?), dalla quale rubare un nuovo fuoco che avrebbe illuminato la via per l’uomo del postmillennio.

Il compito principale della rivista sarebbe stato quello di fare massa, azione collettiva, di appianare gli screzi per dirigersi tutti verso un fine comune: l’educazione alla bellezza, come risposta ai mali dell’uomo moderno.

Insomma, un sacco di supposizioni che, nell’ippocampo del Caporedattore, erano confluite traducendosi in un’immagine in campo medio oggettivo − addirittura troppo clichè per essere forse mai veramente vissuta nella vita reale da qualcuno − di una succosa piña colada all’ombra di una palma caraibica e una deliziosa kaikamahine uscita pari pari da un libro di Vonnegut, alle prese con un grosso ventaglio a forma di dollaro. Riuscire a recuperare il numero di telefono personale del Grande Poeta per lui era già stato un mezzo successo. Quando poi Egli, entusiasta di utilizzare la propria immagine e i propri versi per una causa così nobile e genuina, accettò addirittura di scendere in città dalla villa in collina che non lasciava mai, nella testa del Caporedattore l’immagine di otium tropicale si arricchì addirittura di una colonna sonora, un mash-up tra un brioso ukulele e i gemiti della ragazza-con-ventaglio. L’inquadratura era passata da un campo medio oggettivo a un più realistico POV.
Nonostante nessuno dei due durante la telefonata avesse nominato un qualsiasi termine anche solo vicino al campo semantico “compenso”, entrambi sentivano che questo concetto vibrava sotteso nelle pieghe della conversazione, tendendo un filo elettrificato che si sarebbe scaricato soltanto nel momento dell’incontro vero e proprio, al caffè. Ma di questo il Caporedattore non si preoccupava più di tanto. Si preoccupava molto invece del traffico, che sembrava intensificare simultaneamente all’accumularsi di una nidiata di nuvoloni cerulei, offrenti a uno sguardo da terra lo spettacolo di una progressiva creazione di un unico gigantesco blocco di massa acquea sospesa. Non prometteva niente di buono.

Un posto del genere avrebbe di certo facilitato l’obiettivo che si era posto, ovvero ingaggiare quel dinosauro spendendo il meno possibile perché offrisse niente di più che il suo vecchio faccione pendulo alla pubblica visione sulla prima pagina del primo numero della nuova rivista che il suo amico al Ministero gli aveva proposto di fondare e dirigere definendola necessaria in questi tempi barbari e confusi

La prima goccia sul parabrezza del Range Rover del Caporedattore cadde sincronizzata alla frenata che dovette eseguire per non tamponare l’automobile davanti, le cui luci rosse di stop erano le ultime di una lunga fila di luci rosse che si accendevano e spegnevano nell’aritmia luminosa di un viale di città strabordante di veicoli. Non aveva niente di romantico o poetico o lontanamente bello se si pensava a tutto lo smog e alla rottura di cazzo e al tempo perso, anche se, forse, qualcuno che non fosse stato in ritardo e preso nel mood giusto, vedendo quella scena dall’interno di un’auto e con la pioggia a scrosciare ritmata e le luci rosse scomposte dall’acqua sul parabrezza, avrebbe potuto evocare un metropolitano, ucronico Monet. Quando la pioggia cominciò seriamente, cominciarono anche i clacson. Il Caporedattore bestemmiò.
« ! »
Nel corso dei 75 anni che aveva vissuto, di accostamenti fantasiosi tra il mondo animale e il Divino ne aveva sentiti parecchi, ma anche grazie al volume particolarmente elevato dell’esclamazione, il Grande Poeta non poté fare a meno di alzare gli occhi dalle sue labbra salate e impiastricciate di noccioline da aperitivo, che raschiavano contro la capa ruvida del sigaro. Aveva deciso di fumarlo comunque, nonostante la pioggia avesse cominciato seriamente, protetto da un balcone a pochi metri dall’entrata del caffè storico che non solo non aveva un dehor, ma nemmeno una pensilina abbastanza larga da potervici fumare sotto in caso di maltempo, cosa che concorreva ad accrescere l’irritazione del Grande Poeta, nata, sentita nascere come un pungolo, nel momento in cui aveva guardato il suo Oyster Perpetual 31mm portato a destra. Non tanto per le goccioline di pioggia che ballonzolavano sul quadrante, quanto per il fatto che quel coglione di un caporedattore avesse già tre minuti di ritardo. Alzato lo sguardo, suppose che la sorgente di quell’urlo, perché era stato un urlo più che una semplice imprecazione, dovesse essere senz’altro la tizia alla fermata del tram dall’altra parte della strada. La cosa fu confermata da un’altra serie sostanziosa di blasfemie, più classiche e sentite, di petto, più o meno della stessa intensità a livello di decibel. Anche se la tizia non fosse riuscita a sovrastare il brusio quotidiano da piazza cittadina con quella bestemmia iniziale così inconsueta, il Grande Poeta l’avrebbe quasi certamente notata una volta alzato lo sguardo dal sigaro, considerata la curiosa panoplia di indumenti che portava addosso, e in generale, la condizione particolare che manifestava. Avesse dovuto scrivere un romanzo e usarla come personaggio, non avrebbe mentito più di tanto al lettore se in un taccuino si fosse appuntato:
puttana. incinta. sei mesi forse. pancia molto bassa e deforme. non sana. gravidanza come unica certezza della sua identità sessuale. grassezza malata da alcolismo. gonfiore sproporzionato delle gambe. enfiagione. cosce da mucca. gambe nude anche se novembre. minigonna di pelle nera. strettissima. costrizione delle carni. lividi. zoccoli di pelle nera borchiati di almeno due misure più piccole. dita e talloni sporchi. no smalto. sorta di caschetto moro. capelli radi e unti. itterizia.

La sua postura e tutto il resto, compreso qualche rigurgito alcolico in forma di rutto, erano agli antipodi del concetto generale riconosciuto come grazia o eleganza o femminilità.

La puttana aveva deciso di accoccolarsi sotto la tettoia della fermata per godersi un goccetto a canna da uno dei cinque cartoni da litro di vino rosso che si trascinava dentro un sacchetto della spesa. Erano le cinque del pomeriggio e il tram era appena passato, lasciandola libera di bivaccare sulla panchina della fermata vuota, divaricando poco elegantemente le gambe da mucca. Nessuno dei passanti aveva avuto il coraggio di spingere oltre il proprio sguardo. La sua postura e tutto il resto, compreso qualche rigurgito alcolico in forma di rutto, erano agli antipodi del concetto generale riconosciuto come grazia o eleganza o femminilità. La sfortuna della Puttana fu dovuta al fatto che, costretta ad alzarsi per estrarre dalla tasca destra della mini un pacchetto di Chesterfield che non sarebbe riuscita ad estrarre rimanendo seduta – visto il poco spazio di manovra che la sua mano avrebbe avuto a causa dell’estrema compressione esercitata dal grasso sulla mini troppo stretta – ebbe un leggero giramento di testa con conseguente demi pirouette del tutto involontaria e assolutamente non coordinata, le cui cause concomitanti erano, per farla breve: troppo alcool in corpo, poca pressione del sangue in circolo, gravidanza. Per evitare lo scontro frontale, un tizio che proprio nel momento di massimo dondolio della Puttana stava colpevolmente passando in bici sul marciapiede davanti alla fermata, e con una velocità piuttosto elevata, scartò improvvisamente a destra per rimanere sul marciapiede e non dover affrontarne lo scalino e le conseguenti rotaie del tram che lo avrebbero aspettato fameliche dall’altra parte. Il piccolo urto non fece cadere la puttana, che anzi sembrò rinsavire improvvisamente, lanciando la prima della lunga serie di bestemmie che il Grande Poeta seguì con particolare attenzione. Ma la vera sfortuna della Puttana fu dovuta al fatto che, conseguentemente all’urto, il cartone da litro di vino rosso a cui teneva come un figlio sbalzò dalle sue mani per andare a finire in mezzo alle rotaie, ammaccandosi ma senza esplodere.
La Puttana imprecava chinandosi faticosamente per raccogliere il vino. Il Caporedattore percepiva la sua visione liquefarsi sul parabrezza, una goccia alla volta. Al tranviere era appena arrivato su Whatsapp un video stupido dai contorni erotici, trenta metri prima della fermata.
Una parola detta sarebbe bastata.
La parola che venne in mente al Grande Poeta era: Sublime.

Illustrazione di Beppe Giacobbe

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