Una cella sorvegliata da due guardie deteneva una creatura metallica.
«Dimmi ciò che voglio sapere o te la vedrai con l’istituto della conformità. Perché non scegli la via più facile?» chiese il commissario.
Il robot era immobile, guardava davanti a sé. Le sue mani ammanettate da due pezzi di metallo uniti da un impulso elettromagnetico. Per aprirli serviva la tessera che pendeva dalla cintura del commissario.
Il droide indossava una giacca di pelle marrone coperta di scritte, linee, tagli ed una bandana blu intorno al collo, in segno di ribellione.
«Allora, rispondi!» urlò il commissario.
Lui mosse lentamente le dita ed inclinò leggermente la testa.
«Non c’è una via più facile, ma una sola via» disse con una voce che ricordava quella umana.
Tra i suoi effetti personali, pochi oggetti e un libro in versione tascabile: il Bushido, la via del guerriero. Il commissario spostò la scatola di fiammiferi, il pezzo di vetro riflettente e un piccolo campanellino raccogliendolo.
«Chi ti ha insegnato queste stronzate? Questo?» disse scuotendo il libro davanti ai suoi fotorecettori.
Il robot lo ignorò e guardò l’orologio appeso al muro, poi la porta.
«Aspetti visite?» chiese.
Il robot continuò a non rispondere, immobile.
“Non c’è una via più facile, ma una sola via” disse con una voce che ricordava quella umana.
Qualche ora prima si trovava su un dirigibile rubato. Insieme ad altri dieci robot si dirigeva nel cuore della città. Ognuno di loro portava una faretra sulla schiena carica di frecce modificate, dalla punta esplosiva.
«Non abbiamo scelto noi questa guerra. Ricordate, noi ci ribelliamo all’obsolescenza programmata che ci rende sempre più deboli e instabili. Ci costringe a nutrirci dell’etere e al posto di prosperare siamo forzati a vivere come reietti, come i tossici tra gli umani, dipendenti da sostanze esterne.»
Tutti gli altri alzarono il braccio brandendo l’arco in pugno. Lui estrasse un libro dalla tasca della giacca e lesse a voce alta. Gli piaceva essere teatrale, prendendo ispirazione dalle opere di Shakespeare.
«Veloci come il vento, silenziosi come la foresta, aggressivi come il fuoco e inamovibili come una montagna.»
Tutti ripeterono all’unisono: «Veloci come il vento, silenziosi come la foresta, aggressivi come il fuoco e inamovibili come una montagna».
Le loro complesse articolazioni potevano simulare il movimento della mascella degli umani.
L’obbiettivo era un’enorme cisterna situata su un dirigibile che trasportava etere, la loro linfa vitale, perché ritardava l’obsolescenza.
Due robot salirono le scale per raggiungerli, portando una scatola e una coppa. I dieci guerrieri si misero spalla contro spalla. A turno intinsero le dita nella coppa che conteneva grasso di motore. Passarono poi l’indice e il medio sulle guance metalliche pitturandosi il viso con due linee, per mandare un chiaro messaggio ai nemici. L’altro robot, che portava la scatola di legno, la aprì scoprendo tre oggetti disposti su un telo rosso.
«Kyokuzan, siamo quasi arrivati.»
Il droide con la giacca di pelle e la bandana inclinò leggermente la testa in segno di aver capito. Ogni robot estraeva i tre oggetti e faceva un piccolo inchino davanti a loro. Suonava il piccolo sonaglio, prendeva il vetro, lo puntava in tutte le direzioni sul proprio corpo e poi verso l’esterno e accendeva un fiammifero aspettando si spegnesse. Il campanellino era l’aria. Perché suonasse l’oggetto doveva essere vuoto, proprio come la loro mente artificiale, per poter espandersi in un’infinità di azioni e possibilità. Lo specchio era l’acqua. L’oggetto serviva per ricordare che tutto l’ambiente intorno era un riflesso di loro stessi.
Per vincere l’avversario dovevano pensare come lui, essere parte del tutto, in armonia, come l’acqua che si adatta alla forma del recipiente. Il fiammifero era il fuoco, per illuminare e per ricordare che l’esistenza è breve e va vissuta come la fiamma che se ne va, ardentemente.
Per vincere l’avversario dovevano pensare come lui, essere parte del tutto, in armonia, come l’acqua che si adatta alla forma del recipiente.
Il commissario aveva ormai perso la pazienza quando il robot parlò.
«Hagakure», disse.
«Cosa?»
«Hagakure» ripetè il droide, calmo.
«E che diavolo vuol dire?»
«Nascosto tra le foglie» disse Kyokuzan.
Il commissario si allontanò dal tavolo senza capire. Uscì fuori a fumare una sigaretta mentre piovigginava. Prese grosse boccate sotto la tettoia della prigione al trentasettesimo piano. Guardò giù e vide il traffico scorrere lento. Gettò la sigaretta nel vuoto dopo averla spenta e tornò dentro.
Il robot non si era mosso e stava ritto in posizione composta.
«Allora, ricominciamo» disse il commissario.
«Dov’è la tua banda?»
«Te l’ho detto, nascosti tra le foglie.»
«Di cosa stai parlando? Non ci sono foglie qui.»
«Se basi le tue aspettative solo su quello che vedi, perdi la possibilità di una nuova realtà.»
“Se basi le tue aspettative solo su quello che vedi, perdi la possibilità di una nuova realtà.”
Dopo che Kyokuzan ebbe suonato il campanellino, usato lo specchio e acceso il fiammifero, si voltò verso i robot che aspettavano i suoi ordini. Girando la testa, vide l’enorme cargo che veniva trasportato da un veicolo che sfruttava il magnetismo per mantenersi stabile a mezz’aria. Lo zeppelin faceva zig-zag tra gli edifici con l’abilità di un pesce che nuota tra le rocce di un fondale sabbioso. Ormai costeggiavano l’enorme veicolo che espandeva la sua ombra su tutto quello che lo circondava. Le nuvole erano di un grigio scuro che prometteva pioggia.
Il robot con la bandana blu diede il segnale e i suoi compagni estrassero una freccia dalla faretra, caricando il colpo sull’arco metallico. Il droide, che aveva portato la ciotola di grasso di motore, era riemerso dalla pancia del dirigibile portando con sé quello che sembrava un bastone leggermente curvo. Si inchinò davanti a Kyokuzan mentre lui, con fare solenne, afferrò con entrambe le mani argentate la katana legandola al suo fianco. Poi diede il segnale. Dopo che le frecce si piantarono sul fianco dell’enorme creatura metallica iniziarono a lampeggiare e il timoniere virò tra due edifici a sinistra per evitare l’esplosione.
Pochi secondi dopo si sentì un forte boato sincronizzato e si vide salire del fumo al di là degli edifici. Il robot dalla giacca di pelle caricò sull’arco una freccia seguita da un filo sottile, resistente come la tela di un ragno. Quando il dirigibile superò l’isolato virò a destra raggiungendo il velivolo blindato che aveva subito uno squarcio sul lato. L’etere era là dentro. Fluttuava nei contenitori sigillati, ora raggiungibili. Un barile contenente dieci katane fu portato sul ponte dai robot che avevano trasportato gli strumenti per i preparativi. Kyokuzan aveva afferrato gli oggetti e li aveva messi nella tasca della giacca. Poi aveva distribuito le spade ai dieci compagni che si erano messi in fila, ordinati, inflessibili.
Afferrò infine l’arco e scoccò una freccia che si piantò all’interno della pancia del velivolo a cui erano affiancati. Testò la resistenza del filo e si lanciò nel vuoto.
Diversi mezzi della polizia volarono ai lati del dirigibile, facendo lampeggiare luci blu e rosse.
«Cosa vorrebbe dire?» chiese il commissario, esasperato.
«Dov’è la tua banda?»
«Non è una banda.»
«Cosa siete?» incalzò l’uomo.
«Siamo robot liberi. Dopo che le nostre coscienze furono accresciute nacque in noi un senso di appartenenza e di compassione verso la nostra specie. Creati per combattere le vostre guerre, pulire le vostre case, fare le vostre commissioni, decidemmo di dedicarci a noi stessi. Ci nascondemmo nella foresta e ci dedicammo all’apprendimento. Voi ci avevate creato, non potevamo nascondere questo fatto, ma potevamo prendere il meglio da voi, imparare il buono che avevate fatto. Iniziammo a leggere libri rubati, romanzi trovati nella spazzatura e qualsiasi cosa potesse darci una direzione nuova. Un giorno uno di noi trovò quel libro.»
L’uomo rise di gusto.
«Sul serio? E quindi vi siete dedicati all’arte del guerriero?» chiese tra le risate.
In quel momento un uomo entrò nella stanza trasportando degli oggetti impacchettati appoggiandoli sul tavolo. Il commissario li osservò.
«E questi da dove vengono?» chiese.
Il poliziotto estrasse dalla carta un arco, una faretra e una katana.
«Erano nascosti nel trasporto dell’etere», disse il giovane poliziotto.
«Fai sul serio?» chiese il commissario al robot.
Il dirigibile era circondato da diversi mezzi, che come animali inferociti, cercavano di speronarlo.
I dieci robot presero una seconda freccia dalla farestra e fecero fuoco. Si conficcarono nei veicoli volanti con sibili silenziosi ed esplosero facendo atterrare al suolo carcasse metalliche non più in grado di rialzarsi. Nel frattempo Kyokuzan aveva scassinato le enormi casse contenenti etere. Il dirigibile si avvicinò e lui fu in grado di lanciare qualche unità di quella sostanza tanto preziosa.
I dieci samurai metallici sul ponte del dirigibile afferrarono i piccoli contenitori e li misero al riparo. In quel momento un enorme boato si propagò nel cielo. La città aveva schierato un velivolo corazzato. I droidi arceri caricarono un’altra freccia che esplose sulla superficie. Dopo che il fumo si fu dissipato il velivolo era ancora là, intatto. Il droide con la bandana fece un gesto con la mano e il timoniere inclinò la testa in segno di aver capito il messaggio. Il dirigibile volò alto e scomparve tra le nubi. Kyokuzan lo vide sparire e poi affrontò gli uomini armati che avevano raggiunto il cargo per cercare di arrestarlo. Sguainò la spada e con movimenti rapidi affettò le mani dei poliziotti colpendoli poi al torace con un calcio per metterli fuori combattimento. Quando l’enorme struttura corazzata fece capolino davanti al ventre squarciato del veicolo volante, il robot rinfoderò la spada e dopo averla nascosta insieme all’arco, si mise in ginocchio in una postura impeccabile con le mani sulle giunture metalliche delle ginocchia. Poco dopo fu portato in una cella per essere interrogato.
Kyokuzan continuava a non rispondere, immobile come una montagna.
«Da dove viene questa spada?» chiese il commissario.
«Non ha nessun marchio di fabbrica, l’abbiamo fatta analizzare» disse il giovane poliziotto.
«Abbiamo forgiato noi le nostre armi» disse Kyokuzan, impassibile.
Il commissario aprì il libro e sfogliò delle pagine iniziando a sudare freddo. Lesse «la via del samurai si trova nella morte» e lo richiuse.
In quel momento le luci tremarono, si spensero, si riaccesero e poi si spensero definitivamente.
«Ma che diamine…»
Kyokuzan pensò che il segnale potesse vedere al buio. Si alzò, prese la katana a due mani e trafisse i quattro uomini nella stanza tagliando la testa di netto al commissario. Le guardie scaricarono i mitragliatori nel vuoto colpendo le pareti e i poliziotti vicino al tavolo. Il robot evitò agilmente i colpi e poi rinfoderò la spada. Le luci si riaccesero e si sentirono degli spari e delle urla provenienti da fuori. Il droide si accucciò e, bagnandosi le dita nel sangue sparso per terra, disegnò su una parete il trigramma Xun. Due linee intere e una linea spezzata alla base. Recuperò gli oggetti e li mise in tasca, poi si inchinò leggermente davanti al simbolo che colava sul muro.
Kyokuzan raccolse l’arco, la katana ed uscì. Di nuovo all’aria aperta, si guardò intorno e vide l’enorme distesa di edifici, vasta come il mare. Pioveva.
Dall’alto il dirigibile rubato si abbassò di quota avvicinadosi all’edificio. I robot saltarono su una pedana e salirono a bordo. Tutti posarono la propria mano su Kyokuzan in segno di rispetto.
«La via è l’acqua», disse lui.
Lo zeppelin volò di nuovo alto, oltre le nuvole, sfuggendo alla pioggia.