È l’alba e dalla massa di persone provengono discorsi in arabo, bengalese, wolof. Sono accalcato con i miei colleghi fuori dal portone di ingresso, imbacuccato come gli altri, in attesa che aprano le porte per poter iniziare il turno.
Anche se è luglio, alle cinque e mezza di mattina a Vicenza fa freddo.
Tutti parlano sottovoce perché la regola tacita del turno della mattina è che non si inizia a sbraitare almeno fino al primo caffè.
Il guardiano viene ad aprire ed entriamo nel fabbricato. Raggiungo assieme agli altri lo spogliatoio dove indosso la tuta e le scarpe da lavoro. Sistemo i vestiti nel mio armadietto e raggiungo l’interno della fabbrica.

Mi accoglie una serie di tubi arrotolati lungo le colonne che sostengono il tetto, di cavi che alimentano gli strumenti di lavoro, di armadi in acciaio ricolmi di viti, bulloni, martelli, lime. Su questo ammasso di metallo incombe un suono continuo proveniente dalle padrone di casa: le macchine. Macchine per sagomare fogli di alluminio, macchine per trapanare, per saldare, per il collaudo. Attorno formicola una massa di uomini in tuta verde per evitare che quel coacervo di cavi, ferro e plastica si trasformi in un caos indistricabile.
Lo stabilimento costruisce impianti di raffreddamento. Un fascio di tubicini di rame, fissato da un’intelaiatura di plastica, viene inserito in un cilindro di acciaio. In questo passerà il liquido che dovrà essere raffreddato mentre nei tubi di rame scorrerà un gas gelido che ne abbatterà la temperatura.
Su questo ammasso di metallo incombe un suono continuo proveniente dalle padrone di casa: le macchine. Macchine per sagomare fogli di alluminio, macchine per trapanare, per saldare, per il collaudo.
Tutto l’impianto ruota attorno alla costruzione di questo tipo di macchinario. In un settore si preparano i tubi di rame, in un altro i tubi vengono inseriti nella struttura di plastica che li tiene uniti, in un’ulteriore zona il fascio viene inserito nel tubo di acciaio che i saldatori hanno preparato in un altro settore ancora. Segue la sigillatura, il collaudo, la verniciatura, la spedizione.
Raggiungo la mia postazione, dove mi aspetta una sgangherata sedia da ufficio davanti alla quale è stato piazzato, sorretto da un cavalletto a ruote, uno dei grossi cilindri di acciaio. Il fascio di tubicini di rame è già stato inserito e il mio compito consiste nell’allargare con un trapano apposito le loro estremità: un accorgimento per renderli più resistenti al passaggio del gas in pressione.
I tubi di rame sono più di trecento, ognuno ha un diametro di circa 5 millimetri e l’operazione di allargamento di ciascuno richiede meno di mezzo minuto, avrò bisogno di quasi tre ore per completare l’opera.
Accendo il trapano, inizio il lavoro e tengo gli occhi fissi sul punto dove opero. Dopo più di un’ora di lavoro cominciano a dolermi.
Spengo il trapano e segno con un pennarello dove sono arrivato, in modo da sapere da dove ripartire. Mi concedo qualche istante di riposo a occhi chiusi, fino a quando metto di nuovo a fuoco le bocche e riprendo a lavorare.
Trascorre un’altra ora quando vengo raggiunto da Valentina, una delle mie colleghe. Si siede a una postazione vicino alla mia dove è posizionato un apparecchio simile a quello di cui mi sto occupando io e inizia a fare il mio stesso lavoro. Chiacchieriamo del più e del meno, spettegoliamo degli altri colleghi e dei nostri superiori.
Discutiamo delle ore di straordinario calendarizzate per la prossima settimana, quando Valentina con il collo irrigidito smette di parlare e guarda dritta davanti a sé. Da principio non riesco a spiegarmi il suo comportamento ma non ci vuole molto per capire cosa sia successo. Trascorrono pochi secondi e davanti a noi, sfilano con passo lento, il direttore dello stabilimento e il responsabile del nostro settore.
Il direttore è un uomo corpulento, sui settant’anni e cammina con passo claudicante. È l’unico tra i dipendenti ad avere il privilegio di poter entrare nei reparti con la camicia, senza indossare la tuta dei metalmeccanici.
Il responsabile del nostro settore ha da poco compiuto i trenta, esibisce un’aria da capo della banda, attento a radersi tutte le mattine e ad avere i capelli tenuti in posizione dalla brillantina. A differenza del direttore è asciutto, la camminata nervosa e ostenta un’assoluta ammirazione per il direttore.
I due sfilano davanti a noi e con loro un pezzo della storia della fabbrica.
Il direttore lavora qui da qualche anno, chiamato dalla proprietà per raddrizzare le sorti dell’azienda che navigava in acque burrascose. Pare abbia assolto bene il suo compito dato il flusso di ordini e di produzione che investe la fabbrica da mattina a sera.
Il direttore ha riportato la società in carreggiata con l’unico strumento che sembra oggi essere in grado di garantire la sopravvivenza di un’attività: spremendo fino all’ultima goccia la competitività dello stabilimento. Ha razionalizzato l’organizzazione interna della fabbrica, allungato l’orario di lavoro giornaliero e infiltrato i suoi uomini, tra cui l’imbrillantinato, tra le fila dei vecchi dipendenti.
Gli utili della fabbrica sono migliorati, ma non l’aria che si respira nello stabilimento. Tra le novità introdotte anche un irrigidimento delle relazioni gerarchiche tra i lavoratori, sempre con lo scopo di ottimizzare le potenzialità di produzione. Questo spiega il comportamento di Valentina: secondo la visione del direttore, «quando si lavora si lavora, non si parla» e chi viene colto in fallo va come minimo redarguito.
Tra le novità introdotte anche un irrigidimento delle relazioni gerarchiche tra i lavoratori, sempre con lo scopo di ottimizzare le potenzialità di produzione.
Il direttore passa davanti alle nostre postazioni in silenzio, lancia solo un’occhiata pigra verso di noi, senza poter capire se ci abbia colti in flagrante o meno; e si allontana, sempre seguito dal suo sottoposto imbrillantinato.
È necessario lasciar trascorrere qualche altro minuto prima che la tensione creata dal passaggio dell’autorità si sciolga e ci permetta di ritornare a conversare a bassa voce.
Verso le dieci di mattina finisco di lavorare sul pezzo, sono state necessarie più di quattro ore. Trascino il carrello che sostiene il cilindro di acciaio verso il reparto del collaudo e posiziono davanti alla mia sedia un altro pezzo, ancora più grosso del precedente. Se non ci saranno imprevisti lo completerò a pomeriggio inoltrato. Ricomincio a lavorare con il trapano, i minuti scorrono lenti, il fascio di tubi diventa ai miei occhi simile a una macchia indistinta di colore brunito.
Quando a mezzogiorno suona la sirena per il pranzo, sono a poco più di un terzo del lavoro. Vado verso la mensa in fretta, la pausa pranzo dura solo mezz’ora. La sala dove gli operai mangiano ha il soffitto basso ed è satura dell’odore del cibo industriale portato dalla ditta che prepara i pasti. Mi siedo con alcuni altri colleghi, mangiamo rapidi il pranzo confezionato nelle vaschette.
Solo il tempo di sciacquarsi la faccia e cercare di lavare via un po’ di stanchezza che il turno ricomincia.
Nel mio reparto sono avvolto di nuovo dal rumore delle macchine e dalla puzza di gomma bruciata che aleggia dentro tutta la fabbrica. Il tetto dello stabilimento grava sulla nostra testa, irto di costoni di cemento tappezzati da ragnatele mai rimosse. Alla mia postazione riprendo il lavoro con il trapano. Il mio turno dovrebbe finire alle due di pomeriggio ma sono già d’accordo con l’imbrillantinato di fermarmi per un paio di ore di straordinario.
Continuo nella mia opera da amanuense, uno dopo l’altro attraverso con il trapano le bocche di tutti i tubicini. Ogni tanto mi distraggo e perdo il conto. E sono costretto ad esaminare l’impercettibile differenza tra quelli già allargati e quelli ancora da fare.
Sono quasi le quattro quando finisco il secondo pezzo della giornata. Quando termino di allargare l’ultimo foro mi rendo conto che il mio corpo è anchilosato dalla posizione seduta e dal peso del trapano. Cerco di distendere la spina dorsale, faccio scrocchiare le vertebre del collo, compio ampi giri con le braccia per fare scricchiolare le clavicole.
Trascino il cilindro di metallo verso il collaudo e inizio a spazzare la mia postazione di lavoro. Manca meno di un quarto d’ora alla fine del mio turno e penso di trascorrerlo mettendo un po’ in ordine.
Mentre pulisco con un panno le punte del trapano vengo raggiunto dall’imbrillantinato che mi avvicina con i suoi movimenti nervosi. Trascina dietro a sé un cavalletto con sopra un cilindro simile per dimensione al primo di cui mi ero occupato e lo piazza giusto davanti alla mia poltrona.
Chiedo se è il pezzo di cui dovrò occuparmi domani, ma lui risponde che si tratta di un ordine urgente da eseguire entro sera.
Lo guardo perplesso. Per finire terminare il lavoro sarebbero necessarie almeno tre ore e io, sulle spalle, ne ho dieci di duro lavoro. Tento di svicolare ma non c’è modo di impietosirlo. Il nuovo corso della fabbrica passa anche da qui, dalla lenta erosione del diritto del lavoratore a non essere trattato come un animale da soma.
Mi rassegno e mi metto al lavoro sul pezzo, un lavoro che non può essere velocizzato in alcun modo. L’unica strategia è quella di cercare di fare meno errori possibile. Dopo la giornata che ho trascorso l’impresa è ardua.
La schiena, le ginocchia e i polsi sono sempre più indolenziti e la vista si ottunde a forza di essere focalizzata sull’alveare di forellini che ho davanti. Commetto molti errori, sono costretto spesso a fermarmi e a ricontrollare la parte di lavoro fatto. Il mezzo minuto necessario ad allargare ogni singolo tubo mi pare dilatarsi sempre più, fino a quando sembra che il tempo sia del tutto fermo.
I minuti passano lenti e diventano ore, fino a quando non finisco di allargare l’ultimo dei fori.
La testa mi ronza e la vista è appannata ma ho finito, la lunga giornata dentro la scatola è conclusa.
Porto il pezzo al collaudo e saluto i pochi operai che sono rimasti ancora al loro posto. Vado allo spogliatoio e mi cambio in tutta fretta, voglio uscire fuori da quelle quattro mura il prima possibile.
Nel parcheggio mi accoglie l’aria calda della sera, così diversa da quella arroventata all’interno della fabbrica. Il vento tiepido dell’estate mi porta il profumo dei campi e fa sparire l’odore di olio da motore che mi ha perseguitato per tutta la giornata. Il blu del cielo quasi scuro guarisce i miei occhi intorpiditi dalla prova che hanno dovuto sopportare. Lascio il mio sguardo perdersi nello spazio, lontano dalle macchine e dal rumore, e sempre più vicino alla falce di luna che fluttua nell’imbrunire.