Nonostante tutto. Nonostante gli sguardi annacquati e il berretto sdrucito o i semafori rossi messi a scacchiera nelle strade, le sigarette spente appoggiate fra labbro e labbro, nonostante i quartieri metallici della grande città e le monete cadute fra tombini e valvole di scappamento, nonostante le famiglie con bambini. Nonostante tutto, nessuno vuole i miei accendini. Perché nessuno vuole i miei accendini? Funzionano tutti, tutti li ho testati almeno una volta davanti ai loro occhi. I miei accendini funzionano. Allora perché non li vuole nessuno? Costano poco. Alcuni a volte li regalo. Ne ho tanti quanto basta per non rimanerne mai senza. Ne conservo uno tutto per me, più bello degli altri, bellissimo, colorato, con tante figure geometriche che si intrecciano. Quello non lo vendo. Lo tengo sempre in tasca per scaldarmi le falangi intirizzite quando le mattine diventano brina, a volte ghiaccio. Quando lo tiro fuori li sento, gli occhi che mi osservano in diagonale, di sbieco, mai diritti in faccia, li sento quegli occhi che non mi ascoltano quando chiedo loro se vogliono i miei accendini, li sento che lo guardano, il mio accendino preferito, che vorrebbero picchiarmi e lasciarmi esanime in strada, con i denti spezzati sul marciapiede, solo per rubarmelo e arrivare a casa, alle loro case di gomma e marmo, e regalarlo a qualcuno, al cane, ai figli: – Questo è un regalo, l’ho trovato per terra – e infatti l’hanno trovato per terra, ma attaccato all’accendino c’era tutto il mio corpo, e quello starebbe ancora lì per terra, ma i figli non lo sanno e non è colpa loro, tranne quando poi invecchiano e il giro si ripete – solo che ci sono sempre io, ma più vecchio, a farmi picchiare e rubare il mio accendino preferito.
Forse sono pazzo. Perché nessuno vuole i miei accendini? Non vendo altro. Anche se non sono belli come il mio preferito, funzionano bene. Pietra focaia gas involucro protettivo, tutto insieme, poi quella rotella che serve a fare la scintilla con la pietra focaia, mi sembra ci sia proprio tutto. Se non c’è tutto, avessero la decenza di dirmelo: «Scusami, non c’è tutto, manca lo stetofranco, non te lo compro». Ma lo stetofranco non esiste. E io cammino finché non ho le suole indemoniate e le gambe fatte di gesso, al punto che devo sedermi accanto al semaforo e aspettarli, aspettare tutti loro, che passino accanto al mio corpo schiantato contro il pilone giallo o verde e ignorino per la centesima volta i miei saluti, le mie domande: «Accendino?», le mie benedizioni. Forse è la mia faccia il problema: le mie gote gonfie, i miei occhi strizzati dal sonno, le mie orecchie un po’ sproporzionate rispetto al mento e alla fronte. Sono poco avvenente, sono stanco, non voglio stare tutto il giorno fra quell’incrocio e quest’altro, fra il sottovia e il ponte. Anche se sono sporco e faccio schifo loro fanno più schifo di me. Loro fanno schifo quando col sorriso e con la pietà nello sguardo mi dicono che no, non ce le hanno le monete. Oppure quando mi avvicino più del solito e loro fanno un passo indietro o mettono in moto la macchina. Io volevo soltanto parlargli, vedere con loro, capire con loro. Fanno schifo quando mi giudicano a distanza di cento passi e attraversano la strada con il loro cagnolino strangolato da un cappotto di plastica per animali domestici e io rimango con un accendino in mano senza aver pronunciato neanche una parola. Io non ho mai chiesto che mi si facesse un regalo, che mi si lanciassero in faccia i soldi e mi si dicesse: «Ecco, ora spendi questi cazzo di soldi». A volte, anzi, sono io a regalare i miei accendini a qualcuno, se mi sta simpatico – l’edicolante del sottopassaggio, il magazziniere di un negozio di vestiti, il violinista che suona nella piazza delle due gelaterie rivali. Chiedo solo di essere ascoltato, che mi si guardi negli occhi, che mi si dica «Non fumo», oppure «Ce l’ho già» o più raramente «Grazie».
Ieri sera camminavo in una via fatta di mattoni e lamine d’acciaio e sono caduto per terra. Non mi sono alzato per dieci minuti. Ho
problemi alle gambe, ho bisogno di un medico, lo mormoravo all’asfalto. I miei accendini sono volati tutt’intorno. Il mio accendino preferito è sfuggito al mio sguardo, nascosto fra gli altri sparsi a raggiera, un’aureola intorno alla mia testa: devo aver sbattuto la testa, perché poi sono svenuto. Un’altra merda sul marciapiede.
Ho saputo più tardi che a raccogliermi come si coglie un fiore è stata una troia, una puttana, una prostituta del mio stesso Paese, egualmente sporca di pelle e di sangue, immigrata come una poveraccia, come me. Mi sono svegliato in un letto molto duro e non sentivo le gambe, di nuovo; ho cominciato a sfregarle con le mani, con i palmi aperti e rigidi. Intanto mi guardavo attorno per fare chiarezza: un letto, un armadio, una lampadina, un cesso, un lavandino. Mura di mattoni, rosse e smozzicate da animali e incuria. Una finestra completamente opaca attraverso la quale filtrava soltanto l’ombra del fumo di non so quale macchina bestiale. Dalla stessa fonte proveniva un martellìo costante.
Tac-tac-tac-tac;
Tac-tac-tac-tac;
Tac-tac-tac-tac;
Tac-tac-tac-tac;
Tac.
Potrei andare avanti, ma sono stanco. Tac-tac-tac. Le mie gambe non avevano capito che era già tempo di uscire, vendere accendini, comprare del cibo, vendere di nuovo accendini. Non c’era fra noi alcun tipo di dialogo. Si sa, se non si comunica non c’è possibilità d’intendersi. D’altra parte anche loro, le gambe, sono come me, si schiantano di fatica come me; sono i cavalli da tiro della mia carrozza e meritano un trattamento adeguato. Sfrega! Sfrega! Sfrega! Le mie mani a fatica tracciavano solchi nella carne. Mi sono grattato fino a sanguinare e allora è andata un po’ meglio; mi sono reso conto che di sangue ce n’era ancora e poteva scorrere e incrostare i peli delle gambe. Mi sono sentito bene, più tranquillo. Ho alzato la testa e ho pregato.
Così l’ho vista, la puttana; con gli occhi socchiusi mentre parlavo con Dio. Era seduta in terra con la schiena al muro, non si muoveva, per questo non l’avevo notata. Sembrava incorniciata da un quadro. Anche lei aveva una pelle sporca del Sud, più scura dei volti da latte di questo Paese di ricchi assassini; occhi di petrolio. Mi sembrava quasi d’averla intravista – o già sognata – all’angolo di una via della mia vita, ma sapevo che non era possibile: non l’avrei ricordata. A lei dovevo il letto duro, le quattro mura di mattoni, forse la vita. Bastò uno sguardo per capire che veniva da dove venivo io, e tanto meglio, volevo parlarle. Ero riconoscente, molto riconoscente; ma lei era nuda e sembrava disperata.
— Sei una puttana?
— Sì.
Non mi venne in mente niente di intelligente o gentile da dire. La guardai come si guarda il proprio riflesso – ovunque, con metodo, ma non negli occhi.
— Perché?
— Come perché?
— Non ho voglia di scopare.
Non avevo i soldi per scopare, ma penso lo sapesse già. Non mi rispose, non mi parlò. Non stava bene neanche lei. Si alzò in piedi – un corpo che avrebbe potuto trascinare martiri sulla croce col sorriso dei beati – e mi volse la schiena e le natiche, ma senza grazia; si lasciò guardare come un mobile in mezzo alla stanza, un monolite sepolto nell’appartamento. Una silfide di legno. Poi riuscì a scardinarsi dalla sua posizione, si sentiva osservata, voleva sentirsi osservata, odiava sentirsi osservata. Non stava bene neanche lei, no. Prese a piegarsi su se stessa, a rantolare, si muoveva come un mostro di carne e peli, la immaginavo ricoperta di liquidi lisergici e vomito santo. Io non mi scomposi; carezzavo le mie gambe e dicevo: «Buone, state buone, riposatevi, state buone». La puttana non mi guardava, non guardava niente, si era accasciata contro il muro come un sacco dell’umido. Nel frattempo sentii giungere da lontano un tremore dell’aria, una vibrazione di chissà dove, magari del macchinario di Satana che martellava tac-tac-tac-tac. Il tremore si soffermò per un istante di fronte ai piedi neri della puttana, li circondò, poi li fece suoi, e da lì tutto il corpo fu un tremito ansante; le sue spalle sempre rivolte a me ma molto più piccole, lontane, ora che sussultava e gemeva. Con le braccia si stringeva la carne. Poi le abbassò con fermezza all’altezza del sesso e gemette più forte. Si masturbava.
— Grazie per avermi raccolto. Steso a terra privo di sensi com’ero, con questo freddo sarei morto di certo.
La puttana non mi ascoltava. Mi dava le spalle, ma vedevo tutto. Con una mano si strozzava fino a boccheggiare, e mentre annaspava in cerca d’ossigeno lasciava che la guancia sinistra si schiacciasse contro il muro. Si riempiva di graffi. Con l’altra mano si faceva del male. Violentava il suo sesso informe. Il suo gemito una richiesta d’aiuto; come ogni altro gemito. Potevo sentire distintamente la pelle delle sue ginocchia sgretolarsi e bucarsi come pesche mature. Le braccia erano marmo; piangeva un po’. Io intanto avevo voglia di una sigaretta. Di lì a poco la vidi allungare una mano selvaggia alla sua destra, verso uno dei punti ciechi che la mia posizione – immutata dal mio risveglio – non mi consentiva di esplorare. Allora feci uno sforzo, volevo sapere. Scostai il lenzuolo deturpato dai graffi sulle mie gambe e allungai il collo.
Quella troia degenerata cercava di afferrare la mia sacca degli accendini. Puttana! Puttana! Avevo già dato per dispersa la sacca, e soprattutto il mio accendino preferito; stavo solo posticipando la resa dei conti. Ora invece ogni cosa era il suo contrario: la sacca, pervenuta; la pace, contaminata; le gambe, in fiamme. Ad impedirmi di assalirla con la forza era un dubbio, e cioè il pensiero che la donna non potesse rendersi conto del tradimento che avrebbe messo in atto toccando i miei accendini. Ero poi riconoscente nei suoi confronti, l’ho già detto, potevo volerle bene. Decisi di calmarmi, “fai il bravo, il bravo”; mi infilai i pantaloni.
Capii che era pazza solo quando mi avvicinai alla sacca e lei mi travolse con un grido inumano. Mi sarebbe saltata addosso se non mi fossi gettato a terra preso dallo spavento. Agguantò definitivamente un accendino, la puttana. La guardai sconcertato mentre se lo passava fra le labbra, tutte e quattro, e poi lo fece scomparire. Tremava come una cagna. Aveva divaricato le gambe come una puerpera e rimaneva così, rivolta verso di me, ma io distoglievo lo sguardo e mi chiedevo tutti i perché che ci si può chiedere di fronte al demonio, e intanto afferrava un secondo accendino… Una pratica assurda ma assoluta; la puttana inglobava la mia merce, la passava fra le labbra e gemendo se la cacciava in profondità, madre depravata e perversa, Cristo santo, la mia merce diventava suo figlio, e intanto cominciava a parlare.
— Sono una troia da quando mio padre mi toccava la fica durante le feste di Natale. Sono partita dal mio Paese come un’ape che si allontana dall’alveare e sa che morirà, e adesso voglio morire, voglio soltanto un’ultima scintilla nel mio intestino per esplodere. Ho una stanza, dei soldi, un corpo che vive: tutto ciò non nega che mio padre mi toccasse la fica durante le feste di Pasqua. Sono una puttana. Sono scappata col primo transatlantico che ha attraccato a Taranto con la speranza infondata di dimenticarmi, di essere in grado di dimenticarmi, ma i giorni di mare e sale non sono serviti a niente. Sono sbarcata in America con un seno da troia; i miei occhi umidicci prostrati davanti alle scarpe eleganti di uomini che mi hanno insultata perché ero nuda; non avevo capito niente. La mia lingua non era la lingua degli altri, e quindi sono stata odiata e amata nella stessa misura…
— Non riesco a capire, — dissi mentre assistevo all’orrore, e un altro accendino scompariva fra i tremiti. La puttana si andava gonfiando di plastica e metallo, mi faceva impazzire, non la conoscevo e non sapevo aiutarla. Ogni fatto avveniva di getto, tutto troppo, veloce e isterico.
— … ma non mi hanno fatto del male. Conoscevo già i bassifondi della mia vita, ma anche di quella degli altri; non ho mai voluto bene a nessuno, ma non ho neanche odiato per il gusto stesso di odiare; tutto questo tempo, tutte queste parole, il sesso da cani che ho fatto gridando di dolore, ogni aspetto di quel che io sono dovrà scomparire con la forza e cancellare per sempre il proprio ricordo. Dentro di me sento già qualcosa come un verme di metallo che striscia contro il proprio volere, un’arma che mi assale e mi sconcerta, perché sono io a manovrarla. Non riesco a dire basta. Morirò. Un male così giusto non l’avevo mai conosciuto. Parlo solo per negazioni e questo non può che far bene, perché in questo modo non sono già più. Da mesi e mesi, ogni giorno peggio: faccio fatica a distinguere Dio da mio padre, Toronto da Taranto, gli accendini dai cazzi. Siamo davvero dei poveracci, noi due, io e te.
Mi guardò con uno sguardo che forse non potrò dimenticare, quella puttana. Non capivo perché mi trovassi lì, perché mi avesse salvato solo per crocifiggersi davanti ai miei occhi.
Comprendevo il suo dolore ma non la sua follia. Davanti a me posava – fra gamba e gamba, sporca – l’origine del mondo, mostruosamente spalancata e macchiata di carne e metallo, e da lì usciva ed entrava tutto il bene e tutto il male, come fosse la stessa cosa, come il doppio di uno specchio. Le mani, le braccia, la fronte, il seno di quella donna bellissima erano un insieme omogeneo, virtuoso, ma contratto e straziato fino all’urlo. E con le mani prendeva i miei accendini da incavernare fra i canali terribili che tutti almeno una volta hanno conosciuto. Cristo santo, Cristo, fino a che punto possiamo star male? Che cosa stai facendo?
— Forse se non mi fossi imbarcata; se non fossi scappata avrei potuto perdonare, comprendere, resuscitare. Non camminare come un corpo morto sulla tolda della nave. Trovare il compromesso, o la galera. Farmi giustizia con queste stesse mani, — sanguinava, dalle labbra e dal volto, — capisci? A tutti è concessa un’opportunità per vivere. Anche a me, però sono stanca. Ecco. Avevo bisogno di te per parlare, ti avevo già visto camminare nel ghiaccio della periferia e sapevo che mi avresti ascoltata. Anche a te toccherà fare i conti con quello che hai scelto o subìto, per questo sei qui. Io non chiedo altro che questo, adesso; voglio che mi tocchi, che mi abbracci…
Mi coinvolse con le braccia di marmo in un abbraccio che era il riassunto dell’agonia di tutta una vita. Io non potevo più parlare, ma mormoravo. Dalla finestra s’alzavano nuvole di fumo nero che martellavano contro gli stipiti il loro ritmo d’industria. C’era la morte in agguato, un fetore nell’aria. Lei nel frattempo chiedeva a se stessa conferme, esauriva le ultime speranze, «Spero che mia madre abbia ammazzato mio padre: me lo aveva promesso», poi: «Mi vuoi bene?». Le parlai con il senso di colpa di chi viene graziato con il dono della vita da un estraneo col quale non potrà sdebitarsi.
— Ma tutto questo, ogni cosa, a partire da me stesso, dalla mia vita che hai salvato… Perché?
La puttana tremò, sul serio. Sentii fremere il pavimento cosparso di trucioli e scorie di sangue. Mi prese dolcemente la mano, ne estrasse soltanto due dita; fece loro seguire il contorno del suo volto, delle labbra impure, mi indicò l’accendino; l’ultimo; il mio accendino preferito. Con quelle stesse dita mi spinse a raccoglierlo e a tornare alle sue labbra. Fu l’ultimo atto di violenza. Il resto venne da sé. Piangevo come se fossi appena nato.
— Perché? Cosa significa? Perché?
Con uno strappo mi obbligò ad ammazzarla. L’accendino le perforò la gola. Morendo disse, nel rantolo, come a giustificarsi per l’ennesima sterile penetrazione di un corpo sfigurato: — La tua merce nella mia merce; una vita per una vita.
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