Dispar’hêtre | Sharon Vanoli

Salita – le cascate


Intransigenze mute,
rabbiose devozioni.

C.S.I. – Blu

Una volta dormivo, ero capace di farlo. Una volta mi svegliavo e stavo a letto con piacere. Ora il piacere è la fretta di alzarsi. Ho un tremito, da qualche parte, che devo ascoltare. Mi alzo, mi vesto, apro la porta. Lascio la casa che dorme, entro nel paese che dorme. Se guardo in alto vedo la luce che comincia a estendersi sul profilo delle montagne a est. Tendo il passo verso di loro. Ogni mattina, mi chiamano. Io le ascolto come si ascolta una voce che prega, benevola e grave. Oggi mi arriva ovattata – è l’insonnia della notte che la ottunde, e me la porta via. L’ho capito subito, oggi, già nell’atto di aprire gli occhi. Ho capito che sarebbe stato un giorno faticoso, di piombo. Cammino da pochi minuti e penso all’abbandono: niente possiedo, a niente appartengo – agli alberi, forse. Di tutti gli elementi naturali sono loro i più felici: hanno la terra, hanno il cielo.
Per circa un’ora cammino in salita. C’è una strada sterrata, in fondo al paese, che sale a curve fino a un santuario scavato nella roccia dei monti. È una grotta: da bambina ci andavo a messa con mia nonna, di sabato, facevo il segno della croce dopo di lei e mi sedevo quieta tra i vecchi; quando pioveva, pioveva anche nel santuario, le gocce calavano dai massi impregnati d’acqua sopra le nostre teste. Ma sempre – anche con il sole, anche d’estate – c’era odore di umido, lì dentro. L’aria ne era così satura da appesantire il respiro. Mi domandavo che impatto avesse sui vecchi; li scrutavo, non sembravano in pena. Solo mia nonna, sul finire della messa, aveva male alle ossa, e si stringeva le ginocchia con le mani. A me quell’aria densa calmava, come un bagno di vapore.

Cammino da pochi minuti e penso all’abbandono: niente possiedo, a niente appartengo – agli alberi, forse.

Mentre cammino in salita non ho tempo di pensare. È il momento dello sforzo fisico: finché perdura, io non esisto. Non c’è visuale, lungo la salita, ai lati della strada soltanto i boschi. Una volta in cima ritrovo il cielo, ormai aperto al giorno – è un giorno di sole, senza nebbia, senza una nuvola. Per accedere al santuario si attraversa uno spiazzo di ciottoli scuri. Da un lato lo spiazzo si affaccia sul vuoto. Tra lo spiazzo e il vuoto, c’è una ringhiera di ferro. Mi sporgo e con gli occhi seguo il precipizio fino all’acqua del fiume che tumultua, giù in basso. Osservo le cascate scivolare sulle pareti rocciose delle montagne intorno a me, cadono giù, verso le profondità del fiume. Ascolto il fragore, l’urto con le pietre sull’alveo. È come un richiamo.
Si apre un sentiero, in fondo allo spiazzo, che costeggia la montagna e poi si immerge nella macchia degli alberi. Mi scosto dalla ringhiera e proseguo in quella direzione, superando il santuario. Entro nel bosco.

Terreno piano – il bosco

Dissonanze chiassose e confuse,
armonie affannate e sconnesse.

Mi accorgo che è quasi primavera. Nel sottobosco, i bucaneve fioriti d’inverno si piegano in giù, a petali chiusi: guardano la terra. Il sole filtra tra le fronde, strette a cupola sopra di me, gettando una luce che brilla di verde. C’è un mondo che vive, qui; i fruscii sulla terra secca segnalano la fuga degli animali al rumore dei miei passi.
Quand’ero piccola venivo in questo bosco insieme a mio padre, alla fine dell’estate, in cerca di funghi. Io li indicavo soltanto, senza toccarli. Lui veniva a controllare con il cesto sottobraccio, studiava la struttura e il colore; mi diceva: “Guarda sotto il cappello, da lì capisci se è buono o velenoso”. Io riconoscevo solo quelli gialli e spugnosi, non buoni. Avevo voglia di esplorarli con le mani, testarne la consistenza premendoli tra le dita. Avevano un aspetto malato, e per questo la mia tentazione mi spaventava.
Vedo ogni cosa, lungo il sentiero. Farfalle gialle su fiori gialli, il muschio soffice delle rocce sotto il tessuto di foglie ai miei piedi, le vibrazioni di un’ape. Tutto mi attraversa e mi si incolla: non posso tenermi separata, anche se voglio, non posso concedermi indifferenza. Com’era una volta, quando sapevo dormire? Non c’era fretta, mai; e c’era distacco, tra me e le cose: percepivo così poco. Ora vivo con un filo di ferro che mi entra in verticale dalla testa ai piedi; sempre vibra, e mi costringe a vibrare. Vibro al vibrare di tutte le cose. Persino il volo di quest’ape può farmi stare male. Osservo il bosco ai lati del sentiero. Le file degli alberi mi guardano. Arriva un respiro, dal loro fondo in penombra, che vuole calmarmi. E sembra un monito. Dovrei mettermi in fila anch’io, stare ferma tra cielo e terra, insieme ai faggi. Ma ecco che un raggio di sole si inclina e mi entra negli occhi, tutto si infuoca e trasalisco. Controllo il sentiero dietro e davanti: non c’è nessuno. Allora corro. Corro e lascio che i muscoli si esaltino. Inciampo nei rami, ma non fa niente: ho una crisi di gioia. Prendo velocità e tutto scompare, tutto si riduce alle sequenze captate dagli occhi: schegge di bosco, macchie di colore. Il mio corpo sparisce: io sono i miei occhi.
Intravedo la fine del sentiero, rallento. Di nuovo cammino. Sto per lasciare il bosco, tra poco comincia la strada tra i prati. Sfioro un tronco con le dita, è ruvido e immenso. Cerco la sua cima. Fermati, dice. Attenta a queste crisi di gioia, tra cadere in basso e cadere in alto non c’è differenza; eccesso di morte, eccesso di vita – la stessa cosa, ma rovesciata.

Com’era una volta, quando sapevo dormire? Non c’era fretta, mai; e c’era distacco, tra me e le cose: percepivo così poco.

Discesa – l’orizzonte

La libertà è una forma di disciplina.

C.S.I. – Depressione caspica

È tutta discesa, adesso. Da qui la prospettiva è vasta: indietro posso vedere la grotta del santuario, in fondo allo spiazzo; intravedo le cascate, ma non sento il loro schianto.
Tutto è estensione, adesso, intorno a me. Ho gli occhi ancora appannati dalla fatica, la vista si semplifica alla spianata blu del cielo, alla spianata verde dei prati. È bene: vedere di meno, sentire di meno. C’è qualcosa sulla linea di confine tra i due colori che mi attira, come un segreto. È l’inclinazione piana di quella linea: non cerca di salire, non vuole scendere. Tra il blu e il verde procede orizzontale: non cade. Dovrei spianarmi allo stesso modo, forse, resistere ai richiami verticali. La strada che percorro è stretta e di cemento; la pendenza è forte, se cammino svelta ho fitte alle ginocchia. Allora cammino lenta, un passo dietro l’altro. A mano a mano che procedo ritrovo i contorni delle cose. Procedo e lascio andare la violenza dei pensieri: so zittirli. Il silenzio è pace, la pace è religione. Un cane mi si fa vicino, lo accarezzo tra le orecchie e cerco il suo padrone. Si percepiscono i primi rumori, appaiono le prime case. Un contadino in mezzo al prato ammucchia foglie e rami secchi e accende un fuoco. Con un cenno burbero mi saluta. Il cane gli corre incontro, ma sente il fumo e si blocca, abbaia contro le fiamme che iniziano a salire. Da qui riesco a scorgere casa mia, tra i tetti. Saranno tutti svegli a quest’ora. Lascerò sul pavimento la terra umida del bosco, andrò verso il bagno e troverò mia madre protesa verso lo specchio, ancora in pigiama. Guardandomi dal riflesso chiederà: “Com’è andato il giro?”. Quando sarò a un passo dal suo corpo sentirà sul mio gli odori di fuori, del bosco. È capitato: socchiude gli occhi e ispira con piacere dal naso, poi mi dice: “Sai di fresco, sai di aria”.

Fotografia di Polina Washington

2 pensieri su “Dispar’hêtre | Sharon Vanoli

  1. Ho adorato perdermi nelle parole di questo racconto. Mentre leggo sento i ricordi risalire sulla cresta della mia mente. Saper evocare ricordi non è dote che appartiene a tutti. Ringrazio l’autrice per avermi regalato questo momento.

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