Le persone con gli occhi silenziosi mi mettono i brividi.
Carl ha conosciuto questa sensazione quand’era priva di significato. L’ha scovata nella pancia del Tresor, prigioniera dell’atrofia muscolare. Annaspava per una sorsata di calore, qualcosa che gli restituisse il battito cardiaco. All’improvviso, la pressione si abbassa.
Carl assaggia un odore di gesso nell’aria; di gesso e di muffa. Luci spente, cassa tesa, fragore di torce nel buio. Molto chiasso, troppe facce. Facce a intermittenza, facce bagnate di musica techno. Facce inzuppate di occhiaie, vene rigonfie che battono al ritmo dei synth. Sudore. Sudore in pista, sotto le suole di gomma; schizzi di piscio tra gli amplificatori, piscio sui muri scavati di fresco.
Il Tresor ha la faccia scavata dagli anni che passano. Il Tresor ha la faccia escoriata di droghe. In questo locale c’è birra a sufficienza per ogni vescica della città, calcola Carl, grattandosi le nocche consumate. Sono l’unico sfigato col bicchiere vuoto: è il momento di rimediare.
Il bar si scatena un paio di spintoni oltre il cesso che lo tiene in gabbia. Carl ha una pasticca in tasca: un regalo di Beda, pronto da scartare. Sente la gola secca, respira catrame bollente. Ha schiumato una canna di troppo. Una striscia di carta vetrata gli raschia l’esofago. Beda, maledetto figlio di puttana: quest’erba non è forte, aveva giurato, sputando dai denti il tedesco marcio che si ritrova; puoi gustarla con calma e andartene a spasso dove ti pare. Volerai in paradiso, te l’assicuro. Paradiso un corno, razza d’imbecille. La canna di quel bastardo mi sta trapanando le tempie; ma d’altra parte, lo diceva mio padre: mai fidarsi dei bavaresi. Sono una razza pericolosa. Ho lo stomaco ribaltato, Dio mio. Sto per svenire. Se scartassi il mio regalo, se ingoiassi la mia ecstasy allora sì che filerebbe tutto liscio; e filerebbe tutto liscio lo stesso, cazzo, se non mi fossi fidato di un dannatissimo bavarese senza denti. Anche quest’ecstasy è roba sua, ma riconosco il disegno: ne ho viste a bizzeffe, di pillole così. Fila tutto liscio, e per davvero; è tutto nella norma. Anzi, questa roba è proprio buona.
Fanculo, la prendo.
Carl ha una pasticca in tasca: un regalo di Beda, pronto da scartare.
Carl manda giù la sua medicina. La lingua si asciuga come un campo da golf.
Il fumo serpeggia attraverso le sbarre di ferro incastrate nel cemento.
Fumo in pista, fumo sotto cassa, fumo fin dentro al cesso, il suo cesso: il rifugio dei tossici. Le ciglia scure s’inquinano di lacrime. Il fumo incolla i passi dei tedeschi sulla soglia del locale. Il buttafuori lo ha rimbalzato mentre tentava di mischiarsi coi bambocci trasandati del Tresor, senza lo straccio di un amico o di altri animali da compagnia: sei qui per spacciare, aveva ringhiato. Si vede lontano un miglio. Avanti, scimmione, aveva sbottato Carl, fammi divertire un po’! Non essere stronzo. Non cacciarmi proprio adesso. Ti mando un regalo da parte di Beda. Sì, proprio quel Beda. Ci siamo intesi? Scartalo pure. Ora, per piacere, posso godermi la serata senza rotture di palle?
Carl esce dal bagno. Le sue gambe hanno impellenza di ballare. Barcolla verso il centro della pista.
La ragazza coi capelli rossi sta guardando da un’altra parte.
Chi è? Non l’aveva mai incrociata prima; non a Berlino, non al Tresor. È minuscola e colorata: sembra una caramella. Forse non è di Berlino. Forse non le piace ballare. I suoi riccioli cinguettano canzoni di zucchero.
Ti capisco, caramellina, nemmeno a me piace ballare. Vengo al Tresor perché il silenzio di casa mi spacca il cervello. Forse scriverò di te, sai. Scriverò dei mille modi in cui desidero scoparti, ma le ragazze coi capelli rossi non danno retta ai ragazzi coi capelli neri: siamo creature troppo comuni, troppo terrene, per quelle come te. E poi sono ubriaco, sono strafatto e non posso, non devo neppure sfiorarti, ma… Cristo santo, quanto ti vorrei.
«Ti piace quella lì, sbarbatello? E a chi non piacciono le fighe con le tette enormi!»
La giugulare di Carl schizza via dal fianco della carotide; il cuore sobbalza dove non dovrebbe. Ha paura. È una lepre braccata dai lupi.
«Non agitarti: sono un amico di Beda, mica uno sbirro. Più che amico, un collega. Uno come te, insomma, ma qualche gradino più in alto. Mi chiamo Dietwolf.»
«… Carl.»
«So anche questo.»
«Ci conosciamo?»
«Sei sordo? Sono amico di Beda e mi parla sempre di te, gli vai proprio a genio. Beh, la vuoi, quella lì? La ragazza, intendo. Capelli rossi».
Carl digrigna le mascelle.
«Non è una passeggiata provarci con lei. Guarda come sono ridotto».
Dietwolf ha gli incisivi di plastica, ma sembra soddisfatto nella sua bolla artificiale. Berlino, d’altronde, t’impone soltanto una regola: non c’è nulla di vero, dentro al Tresor. Non c’è nulla di vero, né mai dovrà esserci.
«Invece è molto più facile di quanto ti aspetti».
Il barista indossa un rossetto fluorescente e una spolverata di paranoia sulle guance.
«Hai visto quanto è bella? Io sono uno schifo, invece. Ho il naso gigante e le occhiaie da insonne. Ho le lentiggini, porca troia, come faccio a rimorchiare con le lentiggini?»
«I miei denti sono finti e ho la schiena storta, se è per questo, ma le cose brutte si apprezzano un poco per volta. Non avere fretta, Carl: il diavolo è un tipo paziente, non lascia indietro nessuno».
Gli anfibi di Dietwolf calpestano una lattina rattrappita.
«Vieni».
Dietwolf si butta a capofitto nella folla. Carl lo segue a ruota.
C’è fumo, ci sono le solite facce a intermittenza. C’è il bagno, di nuovo. Dietwolf spalanca l’unica porta con la serratura funzionante.
«Entra.»
«Insieme a te?»
«Beh, che c’è? E muoviti, prima che ci veda qualcuno».
Dietwolf sigilla la porta. Carl sgattaiola dietro la tazza del cesso. Il conforto ambivalente della musica formicola dietro i bulbi oculari: annusa il puzzo di una nota disarmonica, come una specie di curvatura dissonante. È solo con Dietwolf, ormai, a mollo in un metro quadrato di spazio.
Ci affogherei dentro questo metro quadrato, pensa. Lo spazio mi toglie il respiro.
«Hai un piano d’appoggio?»
Lo spacciatore trastulla una bustina nelle mutande. Sembra uno scheletro, un diagramma di spigoli sotto la t-shirt giallo mostarda.
«Sì. Tieni».
Carl estrae un frammento di vetro dal giacchino di jeans. Ha rotto lo specchio di Barbel per procurarselo, indovinando che la vanità di sua madre gli sarebbe tornata utile.
«Io non voglio pippare. Sono a posto.»
«Non dobbiamo pippare un cazzo. Osserva».
Dietwolf tira fuori una pillola ovale, viola, grossa come un nocciolo di ciliegia.
«Che roba è? Anfetamina?»
«Sono un uomo così banale, secondo te?»
Carl si stringe nelle spalle.
«No. Secondo me sei un coglione.»
«Lo immaginavo. I giovani sono tutti uguali: prendono per buono ciò che già conoscono. Non siete a vostro agio, a camminare nelle tenebre; ma sai che c’è? Devi farci l’abitudine. Devi piantarci lo sguardo: solo allora le pupille si dilatano e ti accorgi che, per quanto possa essere profondo, dentro al buio c’è sempre, sempre qualcosa».
Carl fissa lo specchio di Barbel. Tace. Detesta parlare se non ha nulla da dire.
«Non sei un gran chiacchierone, eh? Dammi una carta, su. Quella lì va benissimo».
Dietwolf allunga l’artiglio sinistro e sfila una tessera dal giacchino di jeans.
«Tu sei un tipo creativo, no? Un artista. Me lo ha detto Beda. Ha detto che scrivi».
La tessera comprime la pillola sopra lo specchio.
«Cosa scrivi, Carl?»
«Non lo so. Tutto e niente.»
«E che cazzo vorrebbe dire?»
«Che sto cercando la mia voce.»
«La tua voce. Okay.»
La pillola si spacca a metà. Dietwolf ne ingoia una parte, porgendo l’altra a Carl.
La pillola si spacca a metà. Dietwolf ne ingoia una parte, porgendo l’altra a Carl.
«Quella di Beda era forte, non mi va di esagerare.»
«Zitto. Guarda questa pasticca e basta.»
«Ma che… Cos’è questo? Un microchip?»
Dietwolf batte un palmo sulla coscia destra.
«Esatto! Una chicca di ultima generazione.»
«Credevo fosse droga. Non sei un collega di Beda?»
«Ma questa è droga: pace sintetica. Pura al cento per cento. Però Irene non funziona come dovrebbe.»
«… Irene?»
«È il nome della pasticca. Quella che vedi aspetta il suo Ghost.»
Carl si morde la lingua.
«Che cos’è un Ghost?»
Dietwolf asciuga il moccio sul dorso della giacca in pelle.
«Te lo spiego con un esempio: la ragazza coi capelli rossi.»
«Lei che c’entra?»
«Irene sovrascrive i ricordi.»
«… Non sono sicuro di aver afferrato.»
«Cancella i ricordi negativi attraverso eventi positivi, scritti dai Ghost. I Ghost raccontano ai clienti il passato che sognano, Irene lo impianta nei loro cervelli e zac, il gioco è fatto! Sono tutti quanti in pace, perché ottengono ciò che vogliono.»
Uno sciacquone minaccia la quiete qualche metro più in là.
«OH. CAZZO. Tu sei un deviato bastardo. Mi stai dicendo di stuprare quella ragazza, perché se le do Irene non lo ricorderà più.»
«Proprio per niente. Ascolta: ogni pasticca contiene storie diverse. I ricordi di Irene sono calibrati rispetto alle esperienze dei clienti, altrimenti non sembrerebbero autentici. Come la ragazza coi capelli rossi: suo padre l’ha violentata, perciò il suo Ghost ha confezionato la storia di un uomo affettuoso, che non ha mai toccato la sua bambina.»
«Quindi, i Ghost…»
«Liberano le persone dalla zavorra del passato. Esatto.»
«E sono più di uno?»
«Sì: vogliamo offrire ai clienti un’ampia gamma di voci, come le chiami tu. Vedi, ogni persona ha le sue esigenze. Le ferite non sono tutte uguali, Carl; una lama non colpisce mai due volte nello stesso modo. Un bravo Ghost rielabora il dolore del cliente che gli viene assegnato, tirandone fuori una storia che lo cancelli. Voi artisti avrete un potere immenso, nel futuro di Irene.»
«…»
«Non sei d’accordo? Eppure, la ragazza coi capelli rossi è felice grazie a Irene. Torniamo in pista, ti darò qualche dritta su di lei: per me, non ha segreti».
Un bravo Ghost rielabora il dolore del cliente che gli viene assegnato, tirandone fuori una storia che lo cancelli. Voi artisti avrete un potere immenso, nel futuro di Irene.
Dietwolf si ficca dentro un amplesso di membra sudate che non possono spegnersi. Le palpebre di Carl s’inchinano al rumore dell’acqua: la coscienza avanza e si ritira, avanza e si ritira; trattiene il respiro e poi libera l’alta marea.
«Oh, mi senti? Apri questi cazzo di occhi! Non mi svenire qui dentro perché l’ambulanza te la sogni».
Dietwolf ha alzato i toni, quasi urla.
«Sto bene. Scusa.»
«Non la reggi l’ecstasy, eh?»
«Poco. Cos’è questo casino? Tutta questa gente in bagno?»
«Ma che bagno e bagno, coglione! Siamo sotto cassa, adesso».
Dietwolf scrolla via dalla t-shirt il riflesso distorto del neon. Caramellina balla a pochi metri dal dj, accaldata e impaziente. Tiene le palpebre socchiuse, ma non è affatto stanca: è sanguigna, euforica; scuote i fianchi nella lucida ebbrezza di qualche sostanza psicotropa. Solleva appena la canotta di cotone, scuotendola sulla pancia per farsi aria; non indossa biancheria. Ha i capezzoli inturgiditi. Il seno sobbalza nell’esaltazione collettiva: mette voglia di toccarlo. La lingua di Carl scivola sulle labbra steppose.
La ragazza coi capelli rossi è perfetta per la mia generazione schizofrenica. Sembra che l’abbiano fabbricata qui dentro. Sembra figlia del Tresor.
«Perché l’hanno aiutata a dimenticare?»
«Perché quel trauma avrebbe rovinato il suo futuro.»
«Ma suo padre deve pagare per quello che ha fatto».
Le falangi di Dietwolf schioccano una per volta, lentamente, come quando si abbandona un peso a cui si è affezionati nonostante l’oppressione. Lo scricchiolio delle ossa serpeggia fino ai timpani di Carl, come se la figura dello spacciatore, per quanto esile, riuscisse a squarciare qualsiasi presenza, inghiottendo le mille infinità del presente, i rumori cabalistici che infestano le altre anime.
«È giusto pagare per una colpa che nessuno ricorda? Il male è ancora male, se non ha conseguenze negative?»
Carl si rannicchia dietro un amplificatore, stringendo le ginocchia contro il petto.
«Smettila con le tue cazzate PORCA PUTTANA! VOGLIO USCIRE DA QUI!»
Un’unghia scivola lungo la sua schiena, sotto la maglietta, sotto tutto ciò che sembra inconfessabile, solleticando i suoi desideri. Carl alza lo sguardo: la ragazza coi capelli rossi è lì, a una spanna dalla patta dei pantaloni.
«Ma… Che sta succedendo?»
Caramellina, ti prego, basta: non guardarmi così. I tuoi occhi mi spaccano il cervello come il silenzio di casa. Mi stai fracassando la scatola cranica a colpi di disordine; e adesso, i pensieri mi cascano a terra, sbattendo sopra il nostro beat. I pensieri s’infilano dentro l’ennesimo disco e pesano, quando prendo l’ecstasy, rifiutano di starsene in ordine. Affondano dentro la carne. Dentro la traccia. Per questo scrivo: costruisco morbidezza, così quando i pensieri mi cascano a terra diventano meno assordanti. Meno gravi. Caramellina, ti supplico, ti scongiuro, chiudi gli occhi. Non puoi farmi questo. Risparmiami.
«Ti presento Lilo», grida Dietwolf. «La ragazza più felice di Berlino!»
Lilo. È così che ti chiami, piccola mia?
Una come lei non dovrebbe elemosinare droga da Dietwolf. Avrà dozzine di uomini adoranti che gliela rifilano gratis, di qualità superiore a quella che il vecchio coglione può permettersi con un aggancio del cazzo quale è Beda. Che avranno da spartire?
Dietwolf sussurra qualcosa nell’orecchio di Lilo. Lei ridacchia e accosta la bocca a quella di Carl, arruffandogli i baffi col fiato tiepido.
«Ciao Carl. Sei carino. Vuoi ballare con me?»
Lilo ha le parole arrugginite. Il suo trasporto emotivo è miseramente robotico. Carl ignora l’invito, sbracciandosi in direzione di Dietwolf.
«Levamela di torno, è strafatta. Cristo, ma l’hai vista? Non capisce nemmeno dove si trova. È colpa tua se è ridotta in questo stato».
Attimi di euforia s’infrangono contro l’osso occipitale: l’ecstasy torna a farsi sentire.
Le meningi di Carl si piegano allo sciabordio delle onde finché qualcosa dice basta, e per fermare il mare è sufficiente una sola parola, pensa Carl, è sufficiente dire basta. I muscoli, però, non rispondono ai comandi.
Dietwolf gli si piazza davanti, sferrando un calcio a una bottiglia di birra.
«Alzati.»
«Non ci riesco».
Dietwolf si accuccia. Carl si fa piccolo come un bambino: la sua presenza gli stritola le viscere. L’istinto suggerisce che si è sentito così, tempo addietro: impotente, come un topo in gabbia. Ma quando?
«Colpa, colpa, colpa… L’unica cosa che conta, ormai, è la responsabilità: di chi è, su chi scaricarla, come punirla. Pare che un essere umano abbia meno valore dei suoi sbagli.»
«Ogni sbaglio ha il suo peso, infatti. Non possiamo fingere il contrario.»
«Il male non esiste, Carl, se non in funzione degli altri. Sono gli altri a stabilire se siamo giusti o sbagliati, perché ricordano le conseguenze negative delle nostre azioni. Capisci quanto pesa il passato? Lilo ha scelto di accantonarlo ed è serena: dimenticare è un suo diritto. Suo e di suo padre».
Carl trattiene i singhiozzi.
«Dammi la mano. Tirati su. Non puoi restare seduto qua tutta la sera.»
Carl si solleva a fatica dal pavimento. Le ginocchia tremano. Le tempie pulsano.
Lilo ha spalancato le braccia e piroetta su se stessa, sempre più veloce, scolorando nel riverbero della grancassa. Sbarra gli occhi dentro la memorizzazione analogica dei segnali sonori: sono azzurri come quelli di Dietwolf.
«Balla con lei, si vede che vi piacete. Io prendo un paio di cocktail».
Dietwolf si allontana verso il bancone. Carl rimane immobile ai bordi della pista: non ha voglia di tuffarsi in un gomitolo di gente. I Ghost sono il punto di rottura della coscienza, l’estrema dissociazione tra colpa e responsabilità. Sono l’inizio di una nuova epoca. Ma quale epoca? Lilo gli sorride da lontano. Fa cenno di avvicinarsi. Lui si muove verso il centro della pista. Lei conficca le iridi, affilate come il cielo a primavera, fino in fondo al suo costato. Il cielo limpido, sgombro di nuvole, infligge le ferite più crudeli.
«Ciao».
Carl grida per farsi sentire.
«Io sono… Beh, sai già come mi chiamo. Volevo solo… Volevo dirti…»
Lilo poggia l’indice sulle labbra carnose: meglio abbandonarsi all’orgasmo premeditato della serotonina. Carl acconsente. Ondeggia insieme a lei, tentando di emulare il suo ritmo, la disinvoltura dei movimenti.
Come sei bella, caramellina. Somigli al mio primo amore, Lisa; sarà passato un secolo e mezzo. Aveva i capelli rossi come i tuoi, rossi come il sangue. Come il fuoco.
Sembri felice, sai. Sembri a tuo agio mentre scuoti il culo dentro questo buco di merda, nonostante tuo padre abbia fatto esattamente quello che vorrei farti io, qui e ora, proprio in mezzo alla pista, in mezzo al gomitolo di gente in cui non avevo intenzione di tuffarmi. Comunque, sono contento che stai bene. Dietwolf ti ha compreso meglio di me: forse avevi il diritto di dimenticare. Forse ce l’abbiamo tutti quanti.
«Ti piace il gin tonic? T’ho preso questo. Bevi».
Dietwolf è tornato dal bar con due bicchieri spruzzati di limone.
«Lilo è astemia. Usa soltanto MDMA.»
«Da quanto la conosci?»
Dietwolf tira un lungo sorso dal suo cocktail.
«Allora, hai deciso che farne, della tua scrittura? Vuoi essere un Ghost oppure no? Guarda che questo progetto è una bomba. Ti conviene salire a bordo».
Berlino tira le somme al posto di Carl. Quando si era gettato tra le braccia della facoltà di lettere, non si aspettava che sarebbe stata tanto dura: i suoi romanzi fruttavano meno di zero. Era diventato collega di Beda senza curarsi di dove l’avrebbe condotto; spacciava per racimolare due spicci, per concedersi uno svago, o per tracannare l’illusione di avercelo eccome, uno scopo, un perché, anche se non era proprio dei migliori. Che vita di merda. Eppure, la vita degli scrittori sembrava semplice, prima che gli piombasse sull’osso del collo: sua madre, ad esempio, se la passava discretamente. Punta di diamante di una nota rivista di gossip, Barbel ci si guadagnava la pagnotta, con le quattro scemenze che scarabocchiava quand’era strafatta. Vegetava sul divano, ingozzandosi di biscotti al burro e tirando cocaina. Tralasciava persino di cucinare o lavargli i vestiti. Semplice, no? Semplice al punto che andare via di casa non era stato poi così traumatico, per Carl. Figlio unico, orfano di padre, con una madre dipendente dalla cocaina e dai biscotti al burro, Carl non aveva dovuto imparare nulla dalla solitudine: era già degnamente assuefatto all’assenza.
Ma la sua voce? Qual era il suo compito, il fine ultimo della scrittura?
La sua arte non era al servizio di Beda: meritava di più.
«Ci sto. Sarò il tuo Ghost.»
«Fantastico! Da questo momento, però, non potrai tornare indietro».
Carl è soddisfatto. Non sopporta le decisioni reversibili: l’irreversibilità è l’essenza della scelta. Tornare indietro è un eterno sprofondare verso un limbo d’incertezza.
«Più tardi ti darò qualche altro dettaglio. Ora balliamo».
Lilo è la copia sputata di Lisa, pensa Carl.
Persino i nomi conservano lo stesso suono, lo stesso sentore d’infanzia: sembrano la stessa persona, declinata in due modi diversi. Che strana l’infanzia: ha il sapore delle cose belle che finiscono troppo presto. Come il mio amore per Lisa. Chissà dove sei, Lisa; chissà che combini. In questo momento ti vedo, ti vedo forte e chiaro: risplendi nel buio degli occhi di Lilo, sempre un po’ fermi, un po’ meccanici, tristemente perduti dentro questo gomitolo di gente. Occhi talmente azzurri da scottare la pelle. Occhi così… Silenziosi. Oh. Merda.
La ragazza coi capelli rossi è perfetta per la mia generazione schizofrenica. Sembra che l’abbiano fabbricata qui dentro. Sembra figlia del Tresor.
Il volto di Lisa si squarcia a metà.
Carl è nudo, ammanettato alla testata di un letto qualsiasi nella giornata qualsiasi di un mese qualsiasi, dentro un appartamento sconosciuto. Ha dieci anni. Un terrore lancinante gli prosciuga i pensieri. I contorni della realtà paiono sbavati dalla penombra: è sera. Le lenzuola sono punteggiate di macchie umide. Carl preferirebbe non chiedersi di quale secrezione organica si compongano. Non è imbavagliato; potrebbe urlare, ma qualcosa gli suggerisce di non farlo. Tende l’orecchio: un respiro cadenzato si aggira nella stanza. Da dove proviene? Forse da quella poltrona lì, sotto la luna di carta. Carl aguzza la vista: una figura minuta giace in mezzo ai braccioli, cullata dal sonno.
«Ehi. Mi senti?», sussurra, temendo di destare un nemico ancora ignoto.
«Ehi, tu. Sulla poltrona».
Il fruscio degli arbusti scarmigliati dalla brina s’insinua attraverso gli stipiti delle finestre.
«Girati, sono qui! Devi aiutarmi. Devi…»
«Stai zitto, Carl. Non fare rumore, altrimenti lui si sveglia».
Una voce femminile, carica di acerba sensualità. Una voce familiare.
«Lui chi?»
«Zitto. Ti scongiuro».
Un pianto sommesso tintinna ai piedi del letto.
«…Lilo?»
«E chi vuoi che sia? Siamo soli dentro questa baita, e in fondo lo siamo sempre stati. Soprattutto a casa nostra».
Lilo ha quindici anni; indossa soltanto un perizoma di pizzo. Scivola verso Carl come un lembo di seta.
«Sei confuso, ma non scotti. Niente febbre. Boh, sarà stato il Rohypnol. Ho scoperto che papà ce lo versa dentro l’acqua prima di… Prima di…»
Lo scatto dell’interruttore estingue l’attesa. Il pavimento è cosparso d’indumenti che hanno l’aria di non essere mai appartenuti a nessuno. Lilo trattiene le lacrime dentro un palmo di mano.
«Ragazzi? Che state combinando?»
Dietwolf si materializza sulla soglia della porta; strofina il mento, punteggiato di barba grigiastra. È nudo anche lui.
«Carl sta male, papà. Non mi riconosce. Dovremmo portarlo in ospedale.»
«Bene, bene, bene, Carl. Sei tra noi, finalmente! Ero convinto che il Rohypnol ti avesse stroncato, ma poi mi sono detto: il mio bambino è robusto. Gli farà il solletico».
Dietwolf avanza verso le lenzuola sfatte. Lilo si fa da parte, balzando sulla poltrona. La luna di carta distoglie lo sguardo dalla baita maledetta. Non ha il coraggio di sopportare certe scene: serve uno stomaco di ferro, per mandare giù l’aberrazione; servono occhi silenziosi, occhi senza spirito, che non lascino traccia di sé dentro il cuore degli altri. Proprio come quelli di Dietwolf.
«Allora, figlioli: dov’eravamo rimasti? Ah, Carl… Per oggi, niente Rohypnol. Ti farà bene ricordare un po’».
Un sipario bianco cala sopra l’inferno. L’acufene sputa Carl fuori dall’amnesia di colore, al centro della pista, accanto a Lilo.
«Che ti prende? Non hai una bella cera».
Una corrente di nausea si arrampica attraverso lo stomaco di Carl; vomita per due minuti abbondanti, l’alcol e il cibo innaffiano il palato, le narici, i pori della pelle, come un boato di fetida espiazione.
«MA CHE CAZZO, CARL! Vuoi che ti accompagni…»
«Lilo, vattene da qui. SCAPPA».
Carl sente i conati sbattergli sui denti. Si precipita verso il bagno, inciampando nei pantaloni troppo larghi; dietro di lui, un aborto di verità arranca lungo la sequenza percussiva. Inesorabile. Tenta di barricarsi nel cesso, ma non riesce a bloccare la serratura. Rinuncia. Si arrende ai suoi demoni. Il vomito scroscia sulla tazza, incrostata degli umori di una schiera di tossici imbastarditi come lui, ovattando il baccano dell’esterno, i passi di Dietwolf, lo scatto della serratura. La porta si chiude alle spalle di Carl, sulla sovrapposizione progressiva di loop in due battute, negando margini di errore tanto alla musica, quanto alla sofferenza.
«Che hai, figliolo? Lilo ha detto che sei corso via come un pazzo».
Figliolo. Cristo.
«Sei un mostro.»
«Ma se neppure mi conosci! Come fai a…»
«ADESSO BASTA, PAPÀ! IO MI RICORDO, MI RICORDO TUTTO QUANTO!»
Dietwolf stiracchia i lineamenti in un ghigno crudele.
«Ricordi pure come ti sei procurato Irene, per te e per Lilo?»
Carl rimane pietrificato, chino sopra l’acredine che ha rimesso.
«Oh, questo non lo ricordi, a quanto a pare. Beda sta gestendo una grossa partita di Irene e ci ha tirato dentro, promettendoci un mucchio di soldi. E tu… Beh, ne hai sgraffignata un po’. Beda ti ha scoperto, ma ti ha lasciato fare. Gli vai proprio a genio».
Dietwolf sospira.
«E ricordi che hai scelto le storie per quelle pasticche insieme al tuo Ghost? Volevi cancellare ogni dettaglio di questa famiglia. Hai deciso di rimanere orfano del tuo paparino spacciatore e pervertito; di non avere una sorella, perché temevi che il suo ricordo avrebbe riportato a galla anche il mio. Ti sei tenuto Barbel, però: la cara, dolcissima Barbel. La cocainomane che correva dietro al direttore di quella rivista del cazzo. E che mi ha lasciato, ovviamente. Spezzandomi il cuore».
Dietwolf scuote il capo.
«Hai rinnegato i nostri legami di sangue».
Silenzio.
«Ci hai traditi, figliolo; ma per fortuna, il tuo Ghost non era molto bravo. Beda si è trovato scrittori di merda per la sua partita di Irene, i suoi Ghost sono un branco di fannulloni ignoranti; e però, pur essendo un bavarese bastardo del cazzo, mi ha messo in guardia: tu e Lilo rischiavate un rigetto dei nuovi ricordi»
«…Che?»
«Quando un Ghost non scrive in maniera convincente, il cervello non crede ai nuovi ricordi. Scrivere bene è importante per raccontare storie, lo sai meglio di me; serve a condurre gli altri dove ti preme. Il tuo Ghost era un incompetente. Il suo lavoro è frammentario, banale, al punto che lo hai rigettato subito: pensa che il falso ricordo di una certa Lisa avrebbe dovuto sovrascrivere quello di Lilo. Che idiozia! A tua sorella è andata meglio; lei ha una storia che funziona, a quanto pare. Comunque, se stai soffrendo così tanto, la colpa è del tuo Ghost: non era uno scrittore abbastanza bravo perché ti fidassi della sua voce. Potresti fidarti della tua, però».
Carl scoppia a piangere.
«Perché mi stai facendo questo?»
Dietwolf ride di un riso tenero e fatale insieme.
«So che vuoi dimenticare, e la scrittura è l’unico strumento che hai. Ho letto quello che scrivi: hai un dono. Le tue storie sono reali, fanno venire la pelle d’oca! Costruiresti ricordi straordinari. A Irene serve un Ghost con le palle, che ti ci trapana il cervello con la sua cazzo di voce. Uno come te».
Carl serra i pugni. Dietwolf gli cinge il collo con un braccio.
«Levami le mani di dosso».
«Calma, figliolo. Rifletti: non puoi pensare soltanto a te stesso. Pensa anche a noi. A Lilo, a Barbel. A me. Vorrei convincere Barbel che le cose rotte si possono mettere a posto: lei mi ha detto che una cosa rotta non torna mai uguale a prima, ma Irene le dimostrerà il contrario. Diventa la sua voce, Carl! Fallo, e Irene diventerà la tua, di voce, quella che stai cercando: ci trasformerete nella famiglia perfetta che non siamo mai stati. Capisci che potere straordinario avresti, come Ghost? Il potere di cancellare il male».
Carl si divincola dalla presa di Dietwolf. Brandisce lo specchio di Barbel. Urla.
«ALLONTANATI O TI SGOZZO! LO FACCIO, HAI CAPITO? LO FACCIO!»
Dietwolf arretra sulla difensiva. Carl incomincia ad ansimare.
Si squadrano a vicenda, ponderando le rispettive debolezze, i nervi scoperti, i lividi inflitti dal quotidiano: bruciano più forte della notte che divampa sopra i tetti di Berlino.
Le persone con gli occhi silenziosi mi mettono i brividi.
Carl ha conosciuto questa sensazione, scoprendo troppo presto che significa: suo padre ha gli occhi vuoti di storie. Non hanno nulla da raccontare, non conoscono neppure la sua, di storia: non sanno chi sia, da dove venga; non sanno cos’è che ami. Non sanno per cosa morirebbe, perché chi non ama, non possiede nulla per cui morire. E allora che senso ha vivere, che senso ha tirare a campare, se non sai per cosa saresti disposto a buttare via tutto quanto, o perlomeno la tua parte più vera? Le persone che non sanno amare non sanno neppure morire, ma imparare a morire è l’unica legge che conta per vivere. Le persone con gli occhi silenziosi mi mettono i brividi perché non sanno vivere. Io non sono questo: oggi ho imparato a vivere. Ecco perché ho scelto di morire.
Lo specchio di Barbel affonda nella giugulare del figlio come un coltello nel burro: sono così fragili, i bambini di vent’anni; una soffice nuvola di sentimenti, sospiri e occasioni sprecate. Dietwolf si ritrae dal cadavere, cascato a faccia in giù nella tazza del water.
L’ultima traccia impressa sul vinile accarezza le gote delle stelle.
Berlino si chiude sopra il cuore ghiacciato di Carl come una scatola senza buchi.
Scritto bene, benissimo, ma alla fine c’è qualcosa che non mi ha convinto, ma forse dipende da certe idee che mi sto facendo sulla scrittura e sullo scrivere
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Ciao Andrea, ti ringrazio per i complimenti e soprattutto per avermi letto 🙂 quali idee di stai facendo? Sono curiosa, dimmi pure se ti va
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Che per colpire davvero non bisogna affondare troppo i colpi, che i grandi drammi e i peggiori orrori non funzionano quanto una cosa piccola, buttata là quasi per caso.
Ti direi che il tuo racconto (raccontato benissimo, sia chiaro: io un libro di racconti scritti così lo comprerei!) ne è la prova lampante.
Io ho solo un problema a sostenere il consiglio che ti sto offrendo: non sono nessuno, la mia scrittura è più limitata della tua e comunque sia non ho nessuna autorità e nessuno mi si fila, quindi vedi tu.
Però, tutto quell’orrore spiattellato lì, a voler scavare quando il fondo è già stato scavato, non so, mi sembra troppo, quando alla tua scrittura non serviva niente…
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Ho capito cosa intendi. Forse, abbiamo due modi di vedere (e vivere) la scrittura differenti. Grazie per le tue osservazioni e per il tempo dedicato alla lettura 🙂
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Grazie a te per il bel pezzo e la bella scrittura
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