Mucchio

La dittatura perfetta avrà sembianza di democrazia. Una Prigione senza muri nella quale i prigionieri non sogneranno di fuggire. Un sistema di schiavitù  dove, grazie al consumo e al divertimento, gli schiavi ameranno la loro schiavitù.
— Aldous Huxley

Gli occhi di Irina si aprono alle prime luci del giorno. L’aria del mattino è tersa, e sotto di lei una montagnetta di piccoli aculei e cicche di sigaretta addolcisce la rudezza del suolo. Tutto attorno, gli alberi e il pallore dei volti dei ragazzi che le stanno a fianco, provati dal caldo e dalla stanchezza, i gazebo in lontananza ancora chiusi.
Fra poco l’arena sarà piena di persone, rimaste in coda dalla sera prima. Tutte cercheranno di guadagnarsi l’ambita prima fila.
Irina viene controllata da capo a piedi. «Per la sua sicurezza e per quella degli altri», dicono, le viene sequestrato un fondotinta e le ordinano di aprire la bottiglietta d’acqua con gli integratori. Potrà riacquistarla all’interno, una volta finita, alla modica cifra di due euro e cinquanta.
A perquisirla sono due donne: una più esile, l’altra più corpulenta, la fronte sudata e le guance cariche di tessuto adiposo. «Cerchi di collaborare», dicono, mentre le palpano le cosce e le natiche. Le aprono lo zaino e la fanno piegare in avanti.  Se avesse nascosto anche un piccolo coltello su per il suo ano, a quest’ora le avrebbe squarciato l’addome. Se avesse fabbricato un minuscolo detonatore all’interno del suo fondotinta, la bomba non sarebbe esplosa. Almeno per oggi, siamo salvi.
«Può andare». La procedura è durata più o meno sessanta secondi.
Subito Irina viene spinta da una forza motrice incontrollabile e non può fare a meno di correre. Prima di farla entrare, le mettono al polso un braccialetto elettronico, esercitando sulla pelle una piccola pressione.

È dentro, nel recinto.

È dentro, nel recinto. Chi arriverà dopo non potrà godere della vicinanza al palco, non potrà scorgere ogni minima esalazione di sudore sul volto del vocalist, né le vene sul collo e sulla fronte degli altri musicisti gonfiarsi sotto i riflettori viola e verdi. Dovrà accontentarsi di una riproduzione su schermo, che a conti fatti equivale ad ascoltare il concerto da casa con un buon impianto stereo.
Il grande palco, sul fondo, è uno spettacolo d’architettura moderna: ogni vite, ogni bullone concorre al componimento d’una struttura complessa ma estremamente agile nell’insieme, quasi inconsistente; una nuvola auto-reggente che si libra da terra.
I maxischermi ai due lati promettono una scenografia da manuale. La strumentazione è composta da due batterie – una analogica, l’altra elettronica –, dodici chitarre elettriche – quattro acustiche e una folk –, due bassi, un violoncello, quattro tastiere, una viola, una decina di strumenti a fiato, un triangolo isoscele e un gong.
Dopo pochi minuti, lo smartphone è inutilizzabile. C’è troppa gente e non c’è campo. Irina si guarda intorno, cercando di intercettare gli amici che ha perso all’entrata dopo i controlli. Posata, si fa spazio nella mandria gentile di energumeni già in fila per i moloch blu che distribuiscono birra, dicendo «permesso» ogni volta e sperando di non essere spinta o di non cadere scivolando su qualcosa di morbido e peloso come un animale domestico. Procede a piccoli passi, guardando sempre dove mette i piedi. Dopo un po’ desiste. Le nuche e le spalle che si trova davanti non somigliano affatto a quelle a lei familiari, le magliette a righe e a pois che le ricordano quelle di Ilio e Francesca si confondono con altre centinaia di perfetti sconosciuti. Conquistata la sua fetta di spazio alla sinistra del palco, stende la felpa a mo’ di tovaglia, incrocia le gambe e si siede.
Una voce altoparlante informa i presenti che stanno per aprire gli stand del merchandising. Improvvisamente, la massa si sposta verso il perimetro sud del recinto. Al loro posto, un tappeto di bottigliette di plastica, cadaveri di pacchetti e accendini, sigarette e magliette, mutande, cappellini, reggiseni, cellulari e macchine fotografiche compatte, resti di cibo e zainetti aperti. Ognuno di loro ha fatto i lavori più imbarazzanti per essere qui questa sera, anche se ora la stanca sensazione che li accomuna è di trovarsi qui da un tempo infinito. Lavare le macchine, consegnare le pizze, pulire i cessi, cambiare le lenzuola, tenere i figli viziati di una donna in carriera, servire ai tavoli, preparare panini con uno strato di salsa e una sottiletta al formaggio tutti uguali. Solo per avere la possibilità di essere qui, adesso. Con i pantaloni firmati e la maglietta in tinta. Per avere la sensazione di contare, almeno per pochi istanti, qualcosa.

Patrick guarda l’orario, steso sul prato insieme a Jack e Fede.
«Freddie Mercury è sempre stato pop», dice Jack con l’aria di chi la sa sempre più lunga. «Non l’ho mai potuto soffrire. E poi quei baffi, non scherziamo!»
Fede boccia la sua analisi come «superficiale», riconoscendo che sì, d’accordo, i Nirvana saranno stati anche underground, ma che cos’era in fondo Kurt Cobain se non il ribellismo al potere? Prova: la storia-spettacolo con la groupie Courtney Love, intrisa di maledettismo e gossip grunge anni Novanta.
«Certo, come no», ribatte Jack in contropiede. «Peccato che Cobain ci abbia lasciato le penne.»
«Se è per questo anche Mercury, prima.»
«Pensa che invidia», chiosa Fede, non riuscendo a definire in poche parole la fine peggiore tra l’AIDS e un colpo di fucile.

Le 16:45. Patrick attende paziente che Fede il bello finisca di rollare la canna, Jack si distende incrociando le mani dietro la testa.
«Che dite, andiamo?»
«Dieci minuti, devo aspettare il biglietto.»
«Fate un po’ come vi pare», dice Jack, prendendo lo zaino con disappunto. «Ma io non ho intenzione di restare senza braccialetto. Hasta luego.»
«Aspetta, vengo anch’io!», dice Patrick, togliendosi i resti di erba dai pantaloni.
«Dai, ci vediamo dentro. Tenete d’occhio i telefoni», dice Fede, salutandoli con un cenno della mano.

«Io forse vedo delle amiche», fa Jack, tastandosi il sudore sulla fronte con un lembo della maglietta. Il tasso di umidità è oltre il 60% e l’aria si fa sempre più pesante.
«Okay, io mi aggrego», risponde Patrick ansimando, mentre camminano lungo il tragitto che li separa dalle transenne.
Jack scola gli ultimi sorsi del suo gin e cola fai-da-te. Ne passa un po’ a Patrick, che declina l’invito intuendone già la temperatura. Ormai non fa più caso a lui, cammina sovrappensiero guardandosi le punte delle scarpe che procedono per inerzia. Sente le gambe molli, la testa leggera e l’odore di cibo e il puzzo di erba bruciata proveniente dai camion degli ambulanti.
Finita la coda, aprono gli zaini, si tolgono le scarpe.
«Porcodio!», esclama Jack, solennemente. «Mi hanno sequestrato il Game-Boy!»
«Ma perché te lo sei portato?», domanda Patrick, cercando di trattenere le risate.
«Scherzi? Sono quasi alla fine del sesto livello di Candy Crash! Se non mi tengo in allenamento va a finire che perdo tutto l’esercizio», risponde lui, come se avesse detto la cosa più logica del mondo.
Riescono ad accaparrarsi gli ultimi braccialetti rimasti. Quando li chiudono, aderiscono perfettamente alla pelle. Esausti ma soddisfatti, accedono al recinto facendosi spazio tra i presenti. Jack comincia a correre, preso da un’euforia febbrile. Patrick rimane indietro, ma lo segue a distanza ricalcandone i movimenti.
A un tratto, un fischio proveniente dall’altoparlante lo distrae. Preme entrambi gli indici contro i timpani per non rimanere assordato dal rumore. Un attimo dopo, è come se tutti fossero spariti. Patrick chiama il nome di Jack a gran voce, invano. Controlla il telefono: non c’è campo.
«Merda!», pensa tra sé, portandosi i capelli indietro con un gesto veloce della mano. Patrick si inginocchia per terra e beve un sorso dalla lattina di birra che aveva avvolto nella maglietta di ricambio dentro lo zaino. Poi si volta e la vede.

Preme entrambi gli indici contro i timpani per non rimanere assordato dal rumore. Un attimo dopo, è come se tutti fossero spariti.

Occhi azzurri, ciuffo castano, il tipo di fronte a lei è rimasto in ginocchio con lo sguardo allibito tra il mucchio di oggetti lasciati dalla folla defluita. Si porta una mano alla bocca per pulirsi le labbra, rimanendo a testa bassa. Irina si rende conto di fissarlo, ma non riesce a distogliere lo sguardo. Prova a voltarsi, a guardare in un’altra direzione, ma rimane folgorata da quel viso quasi puerile su un corpo da uomo, i capelli lunghi e arruffati, la maglietta senza maniche dei Joy Division portata con disinvoltura.
Il ragazzo è, per così dire, isolato. E visto che il sole è ormai basso, e visto che il suo candore la incuriosisce, e visto che la polvere comincia a scatenarle un leggero prurito agli occhi – o forse perché fino ad ora non ha parlato con nessun altro – decide di avvicinarsi e di chiedergli un fazzoletto.
Lui risponde, trasognato, come se vedesse una donna per la prima volta: «Certo».
Fruga nella tasca laterale, prende una confezione di fazzoletti e gliela porge. Irina afferra il lembo di carta, ne prende uno e si soffia il naso. Poi, senza aggiungere altro, sentenzia:
«Questo posto è indecente».
«Come, scusa?»
Ecco, l’hai detta.
«C’è un tanfo di coito e di morte.»
Si riferisce al sudore?
«Giààà.»
Brava, starà pensando di andarsene. Però glielo dico lo stesso.
«A volte ho come l’impressione che siamo tante bestioline in gabbia.»
«Bè, non è proprio un Simposio, ma almeno è all’aperto.»
Bravo, annoiala con le tue nozioni filosofiche.Vedrai che adesso va via.
«Sul serio, a te non sembra?»
«Accalcate?»
«Esatto.»
«Ti va di fumare?»
«Certo.»
Patrick fa scattare la mano nella tasca di dietro e con l’altra sfrega la rotella dell’accendino sulla stoffa ruvida dei jeans, come gli hanno insegnato nei bar di borgata per fare colpo.
Irina se ne accorge, ma sorride complice e apprezza lo sforzo.
«Non pensavo ci fossero ancora uomini in grado di farlo.»
Ha detto ‘uomini’, davvero?
Il petto di Patrick si gonfia di orgoglio, accende la sigaretta a fior di labbra e la porge a Irina.
«Grazie.»
Silenzio.
Patrick si alza e va per presentarsi, Irina si allontana con la sua sigaretta in mano, dirigendosi verso i distributori di birra.
Complimenti, deficiente. Adesso non lo rivedi più. Non avrei mai dovuto dire quella cazzata delle bestie.
«Io vado a prendere qualcosa da bere. A dopo, magari.»
A dopo? Ci saranno almeno trentamila persone! Forse dovrei seguirla. Merda. Non avrei dovuto parlarle di Platone.
«Va be’, ciao.»
Patrick rimane lì, con un pacchetto di fazzoletti in mano e una sigaretta in meno, da solo, ad aspettare.

Le 21:30. Il primo gruppo apre con un flow vecchio stile. Dieci arabi, vestiti con costumi tradizionali, cantano versi incomprensibili amplificati per miglia e miglia di distanza. Ballano tutti, si tolgono le magliette, le punte delle dita si sfiorano e i capelli si perdono nel vento.
Poi, di nuovo il fischio. Tagliente, assordante, uno tsunami elettromagnetico capace di distruggere qualunque suono al suo passaggio. Patrick si preme entrambe le mani contro le orecchie e si abbassa – il rimbombo dei bassi tra le gambe saltanti degli altri gli riempie lo stomaco di piccoli, gradevoli pugni – e rialzandosi nota che nulla è cambiato, continuano tutti a ballare, agitarsi, toccarsi, ma lui non riesce a sentire. Il cantante continua a distillare strofe afone, gli amplificatori emettono onde che gli fanno tremare il basso ventre, ma non riesce a distinguere le note. Si tocca l’orecchio destro: l’apparecchio acustico è saltato. Preso dal panico, comincia ad agitarsi a sua volta; per non dare troppo nell’occhio, cerca un volto amico tra le facce sudate e difformi, ma nessuno ricambia il suo sguardo, preso com’è dalla sua esperienza sonora. Adesso vorrebbe un abbraccio da parte di un altro essere umano, ma si rende conto di non poter chiedere tanto. Lui è sordo, lui ha perso l’apparecchio, e questo è un suo problema. Comincia a tastare l’erba in cerca del piccolo pezzo di plastica bianco che lo riporterà tra gli udenti, ma è come una goccia in un oceano di caviglie e di piedi che scalpitano, sollevando polvere e terriccio, un’arma di distrazione di massa, il terrore dei formicai, una foresta di gambe che si muovono a tempo.
Una scarpa nera gli pesta una mano. D’istinto la ritrae, tenendosi le dita con l’altra per il dolore. Si solleva, rassegnato. Guarda per un attimo ciò che sta accadendo sul palco: il gong viene suonato due volte da un ragazzo alto con un turbante in testa e la performance si interrompe. La band esce di scena velocemente, sotto un tappeto di urla e di applausi ai quali hanno tolto il volume, lasciando spazio alla band successiva.

Le 22:17. La seconda band d’apertura è più minimal, composta soltanto da tre elementi: il vocalist/chitarrista, il tastierista/addetto ai synth e il batterista. Tagli di capelli appena usciti dall’hair stylist, indossano magliette delle marche giuste, dinoccolati e dalla pelle bianca, bianchissima, quasi trasparente. In una parola, britannici. Irina li guarda con la consueta diffidenza che riserva a qualunque esemplare della Gran Bresaola, ché quando le cose hanno cominciato a mettersi male si sono dimostrati per il Paese vecchio e conservatore che sono, con le loro abitudini, la loro guida a sinistra, il loro roastbeef e il loro stupido accento cockney. «Un’altra zolletta di zucchero nel tè?». «No». Apriti cielo. Anarchia nel Regno Unito e Dio salvi la regina. Non che la performance le faccia cambiare idea. Il trio fish and chips si rivela più insipido di quanto si aspettasse, i riff sono mosci e ripetitivi, i ritornelli dei banali cori adolescenziali che rasentano lo zero assoluto.  Con sua somma soddisfazione, non è l’unica a pensarla così. Il pubblico rimane ipnotizzato, quasi dormiente, dopo l’esplosione di energia di poco prima, ma forse è soltanto uno stacco necessario all’arrivo della grande star.
Ecco che se ne vanno, quasi senza essersi sgualciti i vestiti. La luna sovrasta il cielo blu oltremare e la folla, di un rosso gelido, spinge in avanti sperando di guadagnarsi un posto più vicino possibile al loro beniamino, l’unico capace di scrivere canzoni tristi con un ritmo talmente incalzante da far ballare persino i più irriducibili, quelli che alla richiesta di un ballo di solito rispondono con frasi sconnesse sul senso della vita per nascondere la propria inadeguatezza. A un concerto dei Radiohead ballano anche loro.
Irina abbandona infine le sue resistenze e le sue remore, il suo senso critico e i suoi giudizi sul mondo. L’attesa la elettrizza e, per un attimo, si sente stupidamente e insensatamente felice. A rovinare questo idillio preliminare, la figura di uno sfigato – ma nemmeno sfigato, il principe degli emarginati – che continua a fare avanti e indietro, bistrattato da tutti, alla ricerca di non si sa cosa. Irina aguzza la vista e riconosce il taglio di capelli e la maglietta dei Joy Division: è lo stesso ragazzo che ha incontrato ore prima e che le ha offerto da fumare. Per un attimo le viene voglia di raggiungerlo e stringerlo a sé, ma si trattiene. Si pulisce le lenti dei suoi occhiali dalla montatura spessa e continua a guardarlo da lontano: un oggetto non identificato nella coltre inanimata.

 Irina abbandona infine le sue resistenze e le sue remore, il suo senso critico e i suoi giudizi sul mondo. L’attesa la elettrizza e, per un attimo, si sente stupidamente e insensatamente felice.

Tra poco Thom e i suoi saliranno sul palco per dimostrare ancora una volta di essere i migliori. Faranno di certo le mie canzoni preferite, quelle per cui ho aspettato così tanto, e io non posso sentirle.
Patrick ha letto la scaletta su internet prima di entrare. Nessuno potrà mai restituirgli un momento simile. Come da bambino, quando ascoltava quel vecchio disco dal titolo profetico. Questo era prima dell’incidente. Ricorda che stava giocando nel vecchio casolare abbandonato. Poi, un forte scoppio, le urla di sua madre e un divieto d’accesso per demolizioni che aveva deciso di non rispettare.
Patrick guarda il cielo. Si sente solo e disperato. Disperatamente, i primi tempi sognava ogni notte di svegliarsi una mattina e di riavere indietro il suo udito, che qualche mago della medicina potesse fare l’incantesimo. Così come adesso vorrebbe che qualcuno potesse ridargli indietro il suo stupido apparecchio difettoso, ma non succederà. Non si torna mai indietro. Lui è solo. Il fatto di essere in mezzo a tutta quella gente non fa alcuna differenza. Nessuno potrà mai cambiare la sua condizione, se non la musica. La musica ha il potere di riportarlo a una dimensione comunitaria, di farlo sentire parte dell’universo. Così, può dirsi umano. Meno nevrotico o menomato. Così potrà dire di essere vivo. Non per un amore, non per una parola sussurrata, né per una promessa scritta, ma per la musica.
Le 23:00. Patrick vede i quattro musicisti farsi strada tra gli applausi e le ovazioni. Decide quindi di gridare anche lui, con tutto il fiato che ha in corpo, di manifestare anche lui il suo entusiasmo. Batte le mani e salta con gli altri, lacrime calde gli bagnano gli occhi mentre attaccano gli strumenti e suonano il primo pezzo, che riconosce dal labiale del cantante. Patrick guarda l’oceano di gente fare lo stesso. A un tratto sente una mano fresca posarsi sulla sua nuca. Voltandosi, vede una ragazza – avrà avuto più o meno vent’anni – che gli sorride con fare complice. Gli dice qualcosa che lui non riesce a decifrare. Non importa, l’importante è essere vivi, qui e ora. Lei strofina una mano sulla patta dei suoi pantaloni e lui la lascia fare. Le accarezza i lobi delle orecchie e lei prontamente gli ficca la lingua in bocca, togliendogli il respiro. Patrick prova ad assecondarla ma è tutto inutile. Continua a guardarsi intorno alla ricerca di un punto sul quale concentrarsi. Nessuno fa caso a loro due. Sono soltanto un puntino in ombra nel flusso sonoro. Il suono rimbomba nella sua testa. È solo.

Irina, come molti, è nata sotto l’egemonia digitale. Non sa cosa significhi non avere un cellulare in tasca, non condividere con il mondo per un giorno i suoi stati d’animo. Ora che erano tutti assuefatti alla collaborazione, notava, finivano per obbedire automaticamente. Dove li mettevi, loro stavano. In fila per due ore per entrare? In fila per due ore per entrare. Sotto il palco ad aspettare il loro artista preferito? Sotto il palco ad aspettare il loro artista preferito, e così via. Questo, però, non può dirlo. Risulterebbe noiosa. Poco importa se questo grado di alienazione la stia facendo retrocedere ad uno stato di deresponsabilizzazione assoluta. Sorride. Non ha che da compiere pochi gesti per farsi qualcuno. Il perché soppresso dal come. Il quando, però, sembra sempre sfuggirle. A volte pensa di far parte di un’enorme catena di montaggio – solo che al posto del lavoro salariato era comparsa la “condivisione coatta delle esperienze futili”. Vendiamo noi stessi, vendiamo emozioni. Divertimento, appunto, possibilmente a buon mercato, nella spasmodica ricerca di qualcosa di appetibile a cui anche il tuo vicino potrebbe essere interessato, per lo meno spendendoci del denaro. L’interesse per quel dato evento si muove in base allo spostamento di capitale e l’accumulo di capitale ne determina il successo. Anche questo, però, non può dirlo. Quel ragazzo laggiù la sta guardando. Thom canta e per un attimo il tempo smette di scorrere così lentamente.

La scelta dei pezzi e la resa dal vivo è entusiasmante, ogni cosa è esattamente al suo posto: c’è riso, c’è pianto, c’è rabbia e c’è speranza. Forse, addirittura, troppa. La canzone dei due amanti non tarda ad arrivare. Parla di un amore di plastica, fatto di sentimenti di plastica, in una città artificiale. Tutti si stringono l’un l’altro. Sanno che quel presentimento di imballaggio, di poliestere, gli appartiene. Quando la canzone è stata registrata, vent’anni prima, probabilmente doveva fungere da monito. Adesso, invece, rappresenta la realtà.
Patrick ha un ricordo sfocato di come fosse stare in un luogo e annoiarsi, senza avere il benché minimo input dall’esterno. Il suo paese in provincia era vero, fatto da persone che si conoscevano perché condividevano una storia comune, per quanto questa potesse risultare simile a tante altre.
I ricordi della sua infanzia gli costellano la mente. Un gruppo di ragazzini che giocavano in cortile. Mangiare la coda di una lucertola quando tutti lo incitavano a farlo, solo per dimostrare che poteva essere all’altezza, salvo poi sputarla e vomitare, quando nessuno lo stava guardando. Sentire il rumore del fiume e non poterlo raccontare a nessuno.
Ora invece è diverso. Alberi di plastica, amori di polistirolo, connessione a banda larga. Il gruppo celebra l’aberrazione della terribile profezia avverata. Tutti si stringono, come a confortarsi l’un l’altro: «Sì, è così».

Alberi di plastica, amori di polistirolo, connessione a banda larga. Il gruppo celebra l’aberrazione della terribile profezia avverata.

Irina guarda i telefoni protesi verso il palco: minuscoli schermi inquadranti altri schermi, una mise en abyme, un eterno ritorno della stessa immagine. La scenografia dietro la band proietta una gigantografia delle mani del chitarrista mentre fa un assolo. L’algoritmo registra silenziosamente ogni condivisione della diretta sul social network. Ogni apprezzamento concorre a comporre una gigantesca mappatura del desiderio. Questa può poi essere venduta al miglior offerente, e verrà pagata a caro prezzo, perché averla significa dominare una fetta maggioritaria del mercato. L’unico neo di questo sistema apparentemente perfetto sembra essere l’aggressività: i cinque minuti d’odio contro lo straniero di turno non bastano più a decretare il benestare dei consumatori. I corpi hanno ancora bisogno di toccarsi, la violenza può esplodere in ogni momento e in ogni dove. È per questo che le autorità controllano che nessuno abbia con sé oggetti contundenti: sanno di non poterla fermare, e non possono ancora controllare le menti.

L’1:00. Il concerto va come deve andare. La band fa due bis, poi esce un’ultima volta per il saluto finale.  Patrick si è tolto la maglietta ed è rimasto a petto nudo, ha la fronte e gli occhi madidi di sudore e ha legato la stoffa intorno alla testa. Questo gli dà un’aria un po’ buffa, che lo fa spiccare in mezzo alle file ordinate che si dirigono verso l’uscita. La folla comincia a defluire e fa blocco contro le transenne, ricoprendo le voci di suoni metallici. Almeno, così immagina. Sente improvvisamente una stretta alla spalla. Voltandosi, vede il volto sornione di Jack sorridergli e comunicargli suoni a lui incomprensibili. Patrick fa segno di aver perso l’apparecchio acustico. Adesso parlano entrambi nella lingua dei segni.
«Com’è successo?»
«È una storia lunga, com’è andata?»
«Bellissimo, ora ti racconto.»

Irina è in coda insieme agli altri, dà un’occhiata al telefono per vedere se nel frattempo ha ripreso a funzionare. Trova un messaggio di Ilio, la informa che si vedranno alle transenne dell’uscita est. Aspettando di uscire, fa quello che fa di solito: ascolta le conversazioni degli altri.
«Ogni giorno, il frutto di una palma cresce. Maturando, lascia cadere i suoi frutti arancioni, tutti dello stesso diametro, al suolo. È in questo modo che le formiche, dal basso, riescono a trovare una fonte di sostentamento per il loro formicaio e le vespe un posto sicuro nel quale costruire il loro nido. Il giardiniere non pensa sicuramente a questo, quando taglia il frutto dalla palma. Così come il poliziotto non pensa a cosa serva una casa, quando sgombera un’occupazione abusiva. Gli hanno detto solamente di fare pulizia, e lui esegue.»
Quando arriva la prima ondata di repressione, nessuno crede a quello che sta accadendo. Patrick si stringe a Jack, che tenta di salvarlo dalle ripetute percosse di uomini vestiti di nero saltati fuori all’improvviso – forse dai cespugli –, i quali cominciano a farli indietreggiare. La folla, da dietro, spinge. Le persone si calpestano l’un l’altra. Una voce dagli altoparlanti ripete sempre la stessa, identica frase: «INDIETRO! INDIETRO!»
Poi, di nuovo il fischio.
Jack si rannicchia su se stesso, come se lo avessero colpito allo stomaco, presto seguito dagli altri che cadono a terra, rapiti da un sonno improvviso.
«RIMANETE DENTRO AL RECINTO, RIPETO: RIMANETE DENTRO AL RECIN…»
Il colpo arriva all’improvviso. Gli occhiali di Irina volano più avanti, subito calpestati dai pesanti passi delle altre persone. Distesa supina, tenta di capire da dove arrivasse, poi si solleva sulle ginocchia e cerca a tentoni le sue lenti, che sente frantumarsi sotto le dita.
Patrick rimane immobile, senza sapere se provare a fuggire o anche solo tentare di compiere un’azione. Pietrificato. Se non si sbriga a prendere una decisione lo rapiranno o peggio, potrebbero torturarlo. Così si piega sulle ginocchia, finge una fitta improvvisa all’addome e si raggomitola accanto al corpo svenuto di Jack.
«Tranquillo», vorrebbe sussurrargli. «Presto ce ne andremo da questo posto infame e recupereremo anche il tuo fottutissimo Game-Boy.»
Patrick socchiude gli occhi. Nel breve passaggio dalla veglia al sonno ricorda quando, bambino, giocando in mezzo al prato, agitava la sua lente d’ingrandimento sopra il piccolo cumulo di terra che costituiva l’ingresso di un formicaio. «Sono il re del mondo!», gridava, agitando la sua lente d’ingrandimento. Infuocando il formicaio, si sentiva quasi un nuovo dio.
Irina vede una ragazza pregare sul suo ragazzo svenuto che perde sangue dalla testa. Comincia a piangere e a gridare, tenta di fuggire in una direzione a caso, ma un uomo della sicurezza la afferra per un braccio, riportandola nel mucchio. Sente il cuore pulsarle in gola e — malgrado la stanchezza incredibile — la sensazione di nausea e il formicolio alle gambe le impediscono di prendere sonno.
Dev’esserci un modo, pensa, per uscire da qui. Sopra di lei, i tiranti del palco vengono allentati e la scenografia di stoffa cade giù, i fusti dei distributori di birra vengono svuotati e i camion fanno marcia indietro per caricare gli strumenti.
«Sarà sempre così?», si domanda, pensando a cosa accadrà adesso.
Un leggero pizzicore al polso. Il braccialetto elettronico emette un piccolo richiamo. D’un tratto, anche lei cade nell’incontenibile torpore.
Patrick si addormenta. Il prato è un grande dormitorio di cuccioli di uomini e donne a cielo aperto.

Gli occhi di Irina si aprono alle prime luci del giorno.

Illustrazione di Art People Gallery

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