Sulla questione del poetry slam

L’avvicinamento al mondo del poetry slam rappresenta una piccola, traumatica sconfitta personale. Spesso mi capita di rivedere, nelle facce stranite e un po’ deluse sparse per il pubblico allenato alle serate di poesia, la stessa faccia che avevo io quando, appena uscito dal tropico dell’aula studio per una meritata birra, mi trovavo per le prime volte di fronte all’orgiastica ed esplosiva miscela di due tra le cose da cui mi sento più umanamente ed esteticamente distante dell’universo tutto: la rap battle e il talent show. Tutto questo applicato alla cosa che è stata la più tenace e coriacea tra tutte le mie testarde passioni e ricerche: nemmeno a dirlo, la poesia.
Più che un agone, un gran magone. Un minestrone riscaldato e indigeribile. Dopo la fine del piacere del testo e la ricerca del fastidio letterario, il vettore torna indietro raggiante, si fa scherzoso, trendy, gradevolissimo sottofondo di chiacchiera da votare in decimale.
Crolla tutto. Anche qui. Eppure la Storia, per quanto sbriciolata nella modernità e amalgamata ed emulsionata dalla manona capitalistica, qualche sostegno ce lo dà, oh noi delusi.

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Una serata di poetry slam

In particolar modo la Storia della Letteratura, che nella sua fervente culla critica, in senso letterario e letterale, ha spesso portato la fortuna nella borsa di quelle persone e di quei movimenti che tanto la facevano inorridire.
Non sempre si è trattato di propulsioni d’avanguardia, disprezzabili in quanto incomprensibili, elitarie; spesso, piuttosto, ci si è trovati di fronte ad un rifiuto di gusto, pur veicolato dalla Critica istituzionale – conservativa perché espressione di uno stato di cose – generato dal fastidio nell’occhio e nell’orecchio che si fossero posati controvoglia su qualcosa di desueto, quando andava bene. Altrimenti di stupido.
È stata una sorte comune a molti dei personaggi che di quella inusualità e di quegli attriti hanno saputo fare virtù, finendo poi per essere rivolgimenti storico-estetici opinabili quanto influenti o almeno riconoscibili.
No, non faccio neanche un esempio.

Io vorrei dire, di adesso, una cosa probabilmente abbastanza banale ma molto ambigua: gli eventi che fanno parlare di sé, nel bene e nel male, che agitano le coscienze dei puristi e avvicinano i mondi paralleli, sono positivi.
Perché non mi sto accingendo a dire che lo slam ha rivoluzionato il modo di fare poesia (non me lo sogno nemmeno). Nemmeno che ne abbia la potenzialità (non lo penso).  Anzi, credo che il ricongiungimento che normalmente si fa con l’ars oratoria, quella dinamica orale che è stata il primate delle forme di letteratura, sia funzionale e plausibile soprattutto per il bisogno, sacrosanto, di legittimarsi a partire da una tradizione. Una tradizione che per alcuni ha anche un significato produttivo, che viene percepita come un’eredità su cui radicare un percorso o, almeno, una sperimentazione; mentre altri attingono da campi artistici, generi, storie ed epoche differenti e dell’oralità fanno solo uno strumento (poco male: la coesistenza di processi creativi e di eredità culturali differenti fa parte dell’espressione artistica del nostro tempo).

Credo che il ricongiungimento con l’ars oratoria […] sia funzionale e plausibile soprattutto per il bisogno di legittimarsi a partire da una tradizione.

Questo per dire che l’indubitabile struggle di ogni operaio culturale (polemiche?) del XXI secolo inoltrato è predisporre i propri arnesi intellettuali, faticosamente acquisiti in percorsi di studi macchinosi e indiretti, al servizio della comprensione di un determinato fenomeno culturale in cui inserirsi, dico io circoscritto ad un ambito, e dico speriamo. Trovare la quadra per di quel fenomeno farsi espressione, carico, compromesso, per esserne promotore e divulgatore credibile. A tratti, purtroppo, venditore.
Con questo, però, non voglio intendere l’arte come business personale, pur fallimentare, il poeta imprenditore di sé stesso, la spasmodica ricerca di una gratificazione/riconoscimento popolare. Questa cosa esiste, viene praticata da molti, è forse anche piuttosto proficua, chissà.
A me pare molto più proficuo, invece, parlare di modo di fare, di come. Non di cosa, non di chi. È in questa ottica che il format del poetry slam, pieno di problematiche e punti critici, avrebbe un ruolo fondamentale. Intendo il come in modo davvero angolare, anti-machiavellico in punta di megalomania. E intendo modo, non medium. Il medium è l’elezione della voce rispetto alla carta, in quell’eterna sòla di contesa concentrica tra poesia performativa e «vera» poesia. Il modo è un insieme di forze di diversa natura, di contingenze sociali, di fattori storici, di condizioni ambientali, di circostanze culturali che modificano la creazione, la percezione, l’influenza e la diffusione della poesia nella nostra passante e adorabile contemporaneità.

Il medium è l’elezione della voce rispetto alla carta, in quell’eterna sòla di contesa concentrica tra poesia performativa e “vera” poesia.

Questi elementi modificano la struttura biologica della poesia, e la poesia viva li incorpora volentieri in quanto ben contenta di essere, tra le arti, quella più viscerale (travalicando le differenze di stile ed anzi, intendendo con Barthes lo stile come la parte più organica e fisica di chi scrive… – polemiche!).
Dunque il modo come luogo della ricerca espressiva, sfruttamento delle possibilità reali e ripensamento dei propri (pochi) mezzi, cioè la voce, in primo luogo, ed in secondo luogo quei limitati spazi fisici in cui è stato possibile portare un discorso poetico negli ultimi anni.

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Performance ZooPalco, Bologna

Ora, partiamo dall’opinabile presupposto che oggi la poesia orale e performativa non solo esista, ma che sia il luogo figurato dove più facilmente si può venire a contatto con le nuove forme dell’espressione poetica contemporanea. Partiamo da questo presupposto saldi di alcuni opinabili dati concreti: un’epoca incontrovertibilmente multimediale, in cui il contenuto audio/video è privilegiato in visibilità dagli algoritmi dei social network e delle SERP dei motori di ricerca; la crisi del mondo dell’editoria, che si riorganizza faticosamente in piccole realtà e autoproduzioni, perché no, multimediali; l’abissale differenza nei termini di offerta e di “sforzo”, intellettuale e sociale, che passa tra andare ad una serata di poesia performativa al circolo, sorseggiando vino in compagnia, e andare in libreria a cercare libri di poesia contemporanea (sì, comunque si possono fare entrambe le cose).
Pare un andamento incontrastabile, testimoniato dallo sviluppo del fenomeno in alcuni stati d’Europa e negli Stati Uniti. Il motivo cardine della sua diffusione è la sua accessibilità come modo o se vogliamo la semplicità di entrarvi in contatto e l’immediatezza del risultato, inteso come reazione del pubblico. L’accessibilità dei contenuti ed il meticciamento dei generi sono inevitabili conseguenze.

Il motivo cardine della diffusione del poetry slam è la sua accessibilità […] e l’immediatezza del risultato, la reazione del pubblico.

Lo slam ha molte limitazioni, perché ha delle regole da rispettare. Però fornisce anche uno spunto in più, ambiguamente efficace: la competizione, avvincente e magnetica per un pubblico (noi tutti?) istruito con il culto dell’agonismo.
Tuttavia si suole dire nell’ambiente che nel poetry slam vinca la Poesia, nel senso che vince la diffusione della poesia, vince la gente che finalmente si diverte a una serata di poesia, vince la partecipazione alla poesia. Certo detto con molta ironia, auto-ironia.
Ma fatteci le umili risatine e, lo dico con molta leggerezza, fuor d’ipocrisia, dovremmo prenderci un poco sul serio.
Il poetry slam non è l’open day della letteratura, è una competizione di poesia orale e performativa, un campionato nazionale. La poesia performativa non è la versione divulgativa o opportunista della poesia, è un genere, ha una storia e un futuro (anche se sul tema gli amici di Salinika hanno già avuto da ridire). E poi? È una potenziale rete di artisti e collettivi sparsi per tutta Italia, con i propri campioncini, i propri criticini, le proprie influenze, le proprie iniziative, le proprie poetiche, i propri stili. Le proprie ricerche, il proprio pubblico, i propri haters.

La poesia performativa non è la versione divulgativa o opportunista della poesia, è un genere, ha una storia e un futuro.

Questo discorso tende quasi a definire l’efficacia di qualcosa come proporzionale alla sua visibilità. Già, benvenuti. In un mondo tanto convesso l’autoreferenzialità lascia un po’ il tempo che trova. Efficace è qualcosa che accoglie, in sé, anime e inflessioni differenti, consensi e dissensi, banalità e stramberie. E lasciamo perdere che così facendo si dà il via al processo di putrescenza che porta tutti i buoni propositi, le cose interessanti, a diventare prodotti, a cambiare di forma, a dimenticare con il tempo fini e presupposti iniziali. Il male della poesia non è l’ibridazione e la “banalizzazione” del poetry slam, che è invece una forma viva e vitale nei suoi contrasti, ma la pochezza di pensare al poetry slam come un punto di arrivo e non come un’opportunità, un “apripista”.
Il poetry slam nel suo piccolo ha solo l’ingrato compito di facilitare (nel bene e nel male) la conoscenza e la fruizione della poesia orale e performativa, la quale ha il malavitoso compito di divincolare la poesia da alcune delle catene accademico/neuronali che l’hanno portata allo stato comatoso, o se vogliamo marginale. Quali sono le ragioni per cui la poesia si è allontanata dalle Università e dalle Istituzioni? Una è di sicuro la nostra mediocrità. Un’altra è la mefitica ostinazione nel criticare letterariamente soltanto ciò che si confà alle strutture critiche del passato recente. Non è che dopo gli anni della neo-avanguardia, delle sperimentazioni, abbiamo avuto il privilegio di toccare delle sponde tanto lontane e brillanti che ci hanno inebetito la creatività, azzerato lo stile? Ci sentiamo così piccoli?
Sì, siamo proprio piccoli così. Ma se probabilmente il gesto dello scrivere non è mai stato significativo, o a-scopi, sicuramente è una posizione eletta, una scelta deliberata, per quanto necessaria alcuni la raccontino.
Essendo lo specchio dell’esercizio della vita, l’esercizio della scrittura poetica non può disattendere le risposte del mondo, non può diventare un tornaconto personale, un mucchietto di notorietà da portare in giro al posto dei piano bar, per racimolare risatine e compiacenze. Non può nemmeno essere oggetto di una petizione di principio sulla base delle proprie convinzioni letterarie disattese. Non ora almeno, non ora che abbiamo più che mai gli strumenti per accomunare gli intenti, per costruire una rete credibile e dei contenuti, più che delle opere, di qualità, per aprire un confronto diretto con altri paesi sorpassando finalmente la moda dei lamentosi paragoni al ribasso. Tutto ciò sta già avvenendo ma dobbiamo capire come, nella prassi, come fare meglio, e di più.
Per riuscirci ci adoperiamo a tastare, conoscere e innaffiare la nascente scena poetica performativa italiana, per esserne parte, farcene carico ed evolverla soprattutto. Attraverso e oltre i poetry slam, con open mic, spettacoli, piccoli festival, webzine… Piano piano lo sforzo prende corpo e senso.

Poi, comunque, il tutto rimane, per ora, molto divertente.

Illustrazione di Giovanni Monti
Foto di Bice Iezzi

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