Continuava a far scorrere la cordicella fra le dita, come se fosse animata da un’illogica vitalità. Il fremito che provava al tatto era difficile da descrivere.
«È così che nascono le ossessioni», pensò.
Di certo aveva tenuto legato qualcosa, un manoscritto, un papiro o quantomeno lo aveva legato a qualcuno.
La vista e il tatto di alcunché avesse per lui significato li sentiva a primo acchito: lo differenziavano, sostanzialmente, da un qualsiasi altro oggetto per cui non nutrisse il benché minimo interesse. Perché, altrimenti, continuare a conservare vestiti logori e carte sgualcite, invece che destinarle all’immondizia?
L’usura non poteva cancellare il legame; il tempo non faceva che acuire l’amore provato per quel dato elemento di passaggio, che gli era stato tramandato in precedenza da altre mani, assetate e polverose, prima che la memoria ne sbiadisse il ricordo. Quella corda gli stava narrando una storia, la coscienza razionale non accorreva in suo aiuto, ma i sensi l’avevano riconosciuta istintivamente.
Il tempo non faceva che acuire l’amore provato per quel dato elemento di passaggio, che gli era stato tramandato in precedenza da altre mani, assetate e polverose, prima che la memoria ne sbiadisse il ricordo.
Colui che è saggio sa bene che non occorre porsi certe domande: non è lecito, difatti, per gli uomini razionali soffermarsi a tal punto su una tale insignificanza senza fare i conti col presente, il passato, la tradizione che lascia spazio ad un futuro opaco e poco chiaro davanti a sé. Ma lui non voleva essere eterno, cristallino come il diamante; preferiva arrovellarsi su cose inutili e banali rispetto alle sorprese che la vita potesse offrirgli. Così, distese la corda sotto il cuscino e rimase in attesa che lo rapisse il sonno.
Il nostro non leggeva mai nel dormiveglia. «Mi dà fastidio», si ripeteva, «leggere qualcosa che possa conciliarmi». Quindi ostentava freschezza e lucidità delle sinapsi leggendo per diverse ore al giorno, dandosi alle letture più disparate – dai romanzi alle riviste, dalla saggistica alla poesia – fino a interrompere la sera e poi cedere di schianto, le forze allo stremo e le meningi che gli dolevano, per cadere subito dopo distrutto da un torpore letale, quello più simile alla morte, senza sogni.
Quella notte, però, qualcosa andò diversamente. La spina dorsale sembrava scottargli sotto la maglietta, e dentro la schiena faceva pressioni per uscire. I pensieri, gli stessi che solitamente tramortiva con la mole delle sue letture, erano riusciti a penetrare lo spioncino della coscienza e adesso il suo subconscio creava strati d’immagini disconnesse, che lo costringevano ad un’intensa attività cerebrale benché si fosse addormentato da circa due ore. Malgrado rimanesse ben conscio di tale avvenimento, continuavano a inserirsi scene di dubbio significato davanti ai suoi occhi, spesso scollegate tra loro, in cui persone a lui conosciute indossavano soavemente dei pantaloni bianchi, in un’oasi in mezzo al deserto, e tentavano di salvarlo da una calamità naturale.
«Qualcosa di atroce», sussurrava una voce ai suoi piedi.
Nel frattempo, continuava a contemplare l’immagine di sé in pantaloncini bianchi, disteso sul letto, dormiente. Qualcosa brillava sotto al cuscino, ma non riuscì ad assicurarsi di cosa si trattasse.
I pensieri erano riusciti a penetrare lo spioncino della coscienza e adesso il suo subconscio creava strati d’immagini disconnesse…
Allora la scena cambiò di ambientazione, riportandolo ad una situazione realmente accaduta la sera prima quando, uscito nel cortile della Cavallerizza Reale, aveva conosciuto una ragazza di nome Nadja, la quale gli chiese perché non ballasse.
«Non ho mai imparato», si era giustificato lui, imbarazzato.
Lei lo invitò a seguirlo con un cenno della mano. Allora si allontanarono dalla luce perpetua che brillava nella dark room e uscirono entrambi da una finestra. Il mondo fuori non era affatto freddo come se l’era immaginato, e i muscoli si sciolsero al tepore della temperatura mite, malgrado fosse notte. Sotto un cielo stellato d’estate, seguì Nadja per i cunicoli del quartiere, fino a fermarsi nei pressi del tetto di una casa a lui familiare.
In quell’istante lei indicò una scala antincendio:
«Scendendo», prese parola la giovane, «arriverai alla soluzione del mistero».
Era straordinaria, ma doveva darle ascolto. La salutò sfiorandole la guancia con le labbra – non si poteva definire esattamente ‘bacio’ – e discese i gradini delle scale antincendio, continuando per parecchi piani.
Si ritrovò in una strada semivuota, dove scorse in lontananza due giovani: uno dei due era lui, mentre parlava ad una sua vecchia amica di penna, la quale teneva stretto in mano un foglio, versando dense lacrime di sconforto sulle gote arrossate per il dispiacere. Egli si commosse alla vista di un tale strazio, ma venne richiamato alla freddezza da una voce in lontananza, che lo invitava a non distrarsi e andare avanti. Così salutò i due fantasmi, il se stesso spregevole e cinico di tre anni prima e la sua amica dal cuore ormai spezzato, mentre camminava già in direzione dell’edificio più vicino, preso da un senso di liberante eccitazione. Colui o colei fossero riusciti a rivelargli il contenuto del biglietto, gli avrebbero svelato l’arcano.
La casa di fronte a lui era di quelle con la palizzata bianca, coloniali, che si vedono in certi film americani anni ‘50. Un immaginario del tutto inedito, per lui ch’era russo. Esprimendo il potere delle cose, descrivendole, si potevano scoprire dettagli sulla vita privata di chiunque, rivelandone la sontuosa contraddizione, la routine.
Andò avanti verso l’ingresso, avendo cura di non fare rumore, vista l’ora tarda. La finestra a lato mostrava una scena d’una famiglia riunita durante le feste natalizie: chi si tirava i piatti, chi pisciava di nascosto nel sugo dell’arrosto e i soliti due cugini che tentavano di toccarsi sotto al tavolo, senza farsi notare dagli occhi disapprovanti dei genitori. Un abominio per l’immaginazione e per lo spirito, conclusosi con la morte del padre, accoltellato dalla sorella in preda a raptus di gelosia verso la madre, che meditava di far fuori in un secondo momento.
Esprimendo il potere delle cose, descrivendole, si potevano scoprire dettagli sulla vita privata di chiunque, rivelandone la sontuosa contraddizione.
Scostò lo sguardo giusto in tempo per rinsavire, chiamare un taxi e andare al bar più vicino, dove una donna di nome Lilia gli versò un doppio scotch in un bicchiere di cristallo. Allora si sedette e bevve un sorso, il primo da un centinaio di parole, e si soffermò sui suoi tatuaggi, sul suo piercing sotto al naso, sui suoi capelli a caschetto e sul suo trucco, per nulla sciatto. Ci mise un po’ a finire il drink, per non rovinarsi lo spettacolo, ma seguitò la sua ricerca senza chiederle il numero di telefono. Scorse un uomo incappucciato che stava per fare il suo colpo da maestro ad una cabina telefonica, telefonando al commissariato di polizia, dicendo:
«Tra un’ora e mezza, scoppierà un ordigno alla mole antonelliana!», ma nessuno gli credette, per cui la giornata proseguì insensatamente, senza sbrogliare la matassa.
Nei sogni non esistono volgarità né mezzi di comunicazione, né social network, né telegiornali. C’è spazio solamente per Eros e Thanatos, che talvolta si scambiano di posto per fare spazio ad un unico, solitario e desolato divenire, di quelli che non recapitano con sé alcun messaggio, ma ti fanno rendere conto di come tutto possa cambiare in pochi istanti.
Ebbene, si ritrovò d’un tratto in mezzo al bosco, con la sola immagine di un dio apollineo scolpita nel marmo. Il viso della statua, per nulla corrucciato, lasciava trasparire un auto-compiacimento difficilmente fraintendibile, chiaro sentore della scoperta d’una verità sconosciuta ai più. In quel momento suonarono gli ottoni dal vicino Teatro Regio, e la statua si animò, come d’incanto.
«Chi sei?», volle domandare il nostro al misterioso dio elegante nel suo smoking su misura.
«Sono Vertumno», egli rispose. «La sola certezza degli uomini».
Si trattava dunque della morte?
«No», rispose il dio, prima ancora che i pensieri di lui si potessero articolare in parole pronunciate.
«Io sono semplicemente colui che è, in rapporto a tutto ciò che era: io sono il mutare, dischiuso nell’incontenibile impulso delle cose a diventare altro da ciò che erano. Mia è la giurisdizione della maturazione dei frutti, mia la stagione degli amori, mia la pratica dell’innesto tra le creature, mio il mutamento degli eventi e l’atto di cambiare idea».
Sul serio?
«Niente affatto, in realtà non sono mai stato diverso da così, ma mi piace farmi rappresentazione dell’inevitabile. Ora osserva: ho con me questo biglietto, recapitatomi per te da una giovane ninfa di queste langhe».
Il biglietto, ma certo! Come aveva potuto dimenticarsene? Svelandone il contenuto, sarebbe giunto finalmente alla soluzione di quel mistero.
Appena toccò il foglio di carta con le dita, Vertumno scomparve. Rimase dunque solo, a decifrare quegli strani segni, che ricordavano moltissimo il greco antico. Quando ebbe finito, si era fatto giorno, e piccoli satiri cominciavano a fare jogging intorno a lui, mentre alcune bestie brucavano l’erba. La traduzione così riportava:
“Osserva il gregge che ti pascola innanzi: esso non sa cosa sia ieri, cosa oggi. Salta intorno, mangia, riposa, digerisce e torna a saltare, e così dall’alba al tramonto e di giorno in giorno, legato brevemente con il suo piacere e dolore, attaccato cioè al piolo dell’istante, e perciò né triste né tediato. Il veder ciò fa male all’uomo, poiché a confronto dell’animale egli si vanta della sua umanità e tuttavia guarda con invidia alla felicità di quello – giacché questo soltanto egli vuole, e lo vuole però invano, poiché non lo vuole come l’animale”.
Di fronte a tale lettura, si sentì scosso. Cosa poteva centrare tutto questo con le lacrime del suo giovane e acerbo amore? Ma non fece in tempo a darsi una risposta che la scena cambiò nuovamente. L’imperturbabile mutamento di ogni cosa lo aveva colto di sorpresa ancora una volta, lasciandolo spaventato e spaesato in un ambiente a lui sconosciuto.
Qui, sotto le ali dei gabbiani in volo, pescatori a migliaia gettavano le lenze in lontananza, in riva al Bosforo, alla luce del tramonto. Un’immagine idilliaca che per un momento lo aveva allietato, ma che non durò a lungo. Subito fecero irruzione le ruspe, che rasero al suolo ogni traccia di quello che un tempo era stato il mercato del pesce. A nulla erano servite le proteste dei pescatori e degli avventori sul posto, che erano stati presto allontanati da truppe di gendarmi a cavallo. Si sentì uno scoppio e subito le nuvole annerirono il cielo, come un calamaio che avesse rovesciato il suo contenuto d’inchiostro su un foglio bianco. I fulmini illuminavano le cupole delle moschee, così come le facciate delle case popolari. Ora in strada non c’era più nessuno, e il fiume in piena rischiava di rompere gli argini. Decise allora che forse era meglio cambiare aria, e si incamminò verso il portico più vicino, scendendo fino alla parte della città più antica, per ripararsi dalla pioggia all’interno di un chiostro.
Lì dentro, non fece più caso alla bufera. Si tolse le scarpe e ammirò la maestria con cui gli antichi amanuensi avevano realizzato gli arabeschi. Pur non riuscendo a comprendere la maggioranza delle incisioni, ne era rimasto profondamente affascinato. Una donna, seduta sugli scalini esterni, riposava poggiandosi su di una colonna. Il suo vestito scuro lasciava trasparire le bianche gambe nude, che invitavano a una sosta ulteriore. Le sedette accanto e le sfiorò i polsi con due dita. Quella si svegliò di soprassalto, aveva occhi come ghiaccio, e gli sorrise. Purtroppo non parlava la sua lingua, ma con pochi e inconfondibili gesti acconsentirono ad abbracciarsi, tenendosi stretti a lungo, per poi fare l’amore. Venne compulsivamente, venne a tal punto da ridursi ad uno stelo, una pallida ombra dell’uomo che era stato.
Niente, passata quella notte, era rimasto dell’esoterismo portato da quell’atmosfera incredibile, quasi irreale, della sera prima. L’aria della mattina era insapore, la luce pornografica, e quel senso di disagio li accompagnò entrambi anche nelle ore successive, quando le nuvole si diradarono e il sole ricominciò a splendere nel cortile interno. Solo allora videro l’albero di pesco fiorire incontrastato contro il cielo limpido, ergendosi ben oltre le colonne e i capitelli della struttura, fino a espandere la chioma al di là del tetto.
Un uomo, ai suoi piedi, teneva una corda tra le mani. Realizzò risolutivamente un nodo scorsoio e la adattò intorno al collo. Fece due o tre prove, per vedere se teneva. La donna cominciò a singhiozzare e a piangere, allora il nostro corse velocemente i cinque piani di scale che lo separavano dal cortile, per impedire all’uomo di compiere l’insano gesto. Quando mancarono ormai pochi gradini, riuscì solo a urlare fermo!, ma arrivato al piano terra il corpo già pendeva da un ramo, rantolante. Restò così pochi minuti, poi si fermò, sospinto appena da un alito di vento. Il volto del giovane suicida sembrava fisso in un riso di scherno verso la mutevolezza di tutte le cose.
Si arrampicò sul tronco, cercando di sciogliere la corda che lo teneva legato all’albero, ma il nodo era troppo stretto. Allora cominciò a piangere anche lui, e le sue lacrime formavano fiori ogni qualvolta toccavano terra. Poco distante, un bambino passava di lì a giocare, punzecchiando con un ramoscello la corolla di una violetta appena sbocciata.