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La diffusione ha preso il sopravvento.
Si produce per poter diffondere.
C’è qualcosa di molto totalitario in questo.

– Nanni Balestrini, L’esplosione

Nel 1957 nell’Universale Economica Feltrinelli usciva Il lavoro culturale, l’ironica storia di un intellettuale di provincia che, convinto della forza emancipatrice della cultura, con l’aiuto del fratello minore e il sostegno di un manipolo di intellettuali anarcoidi, sperimenta le forme dell’organizzazione culturale tipiche del decennio immediatamente successivo al dopoguerra. Da quel periodo florido, di Luciano Bianciardi non ne nascono più, il gruppo Feltrinelli è molto diverso da ciò che il rivoluzionario Gian Giacomo aveva immaginato e la figura dell’intellettuale engagé è oggi più che mai assente, in un contesto dove il lavoro culturale è sempre più patinato e preconfezionato, il cui processo è sempre più automatizzato e i cui contenuti si conformano sempre più agli standard dell’industria culturale.

Luciano Bianciardi in una foto del 1960

Quello che cambia radicalmente le biografie e le opinioni spesso avviene in un evento epifanico: per Bianciardi è stata la morte dei quarantatré minatori nel grave incidente del pozzo di Ribolla nel 1954, per noi potrebbe essere la morte dei giovani Lorenzo Perelli e Giuseppe Lenoci, che nel febbraio del 2022 hanno trovato la morte mentre svolgevano il proprio stage durante l’alternanza scuola-lavoro. Malgrado le imponenti proteste che si sono succedute dopo questi avvenimenti, gli apprendistati non pagati e non sicuri sono oggi nel nostro Paese parte integrante dell’orientamento dei giovani lavoratori. Il DL approvato dalla maggioranza del governo Meloni proprio il 1° maggio non ha fatto che peggiorare la situazione: invece di stabilizzare il lavoro, lo precarizza ancora di più liberalizzando i contratti a termine; invece di varare un salario minimo per legge, mette pochi euro in busta paga tramite il taglio delle tasse sul lavoro voluto da Confindustria; invece di combattere la povertà, mette il lavoro povero contro le persone escluse dal mercato del lavoro cancellando il Reddito di cittadinanza.

Di fronte a questo ulteriore attacco ai diritti del lavoro, non possiamo restare a guardare. Le dinamiche che hanno determinato questa situazione si riflettono anche sul lavoro culturale, perché in un contesto che guarda solo a se stesso e al proprio tornaconto, il lavoro cognitivo diventa un vezzo malpagato per i pochi che se lo possono permettere.

L’arte e la cultura possono, al contrario, suggerire ancora un orizzonte conflittuale, esattamente come faceva Bianciardi, che da intellettuale di provincia aveva compreso che la cultura del “progresso” propagandata dalle logiche industriali, in una città come Milano, negli anni del boom economico ha dato sì un’opportunità lavorativa a molti, ma alimentandosi di emigrazione e di emarginazione sociale. In altre parole, Milano non è la metafora dell’amore, come cantano i Baustelle, ma il sintomo di una modernità grigia e omologata, che si nutre di esistenze standardizzate e anonime.

Via Andrew Boyle

Resistere all’omologazione, così come all’emarginazione in una nicchia qualsiasi di mercato, è ancora la nostra sfida. In questo momento, guardando con buon auspicio alla ridefinizione di un immaginario working class, come è stato fatto durante il primo festival di Letteratura proletaria organizzato dalle edizioni Alegre e dal collettivo di lavoratori dell’ex fabbrica GKN negli stabilimenti di Campi Bisenzio, la classe lavoratrice può raccontare la sua storia, mutando l’orizzonte possibile e provando a cambiare le regole del gioco. Per arrivare, un giorno, a poter dire vittoriosi che “la musica è cambiata.”

In copertina, ELENA MARINI, SPOT N° 372

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