La Repubblica dei matti VS la società della prestazione

La malattia non è la depressione ma, come diceva uno scrittore
di Santiago del Cile, la malattia è il capitalismo.

Franco Berardi “Bifo”, Disertate

Sono passati 45 anni da quando – era il 1978 – Franco Basaglia, dopo avere assunto la direzione del manicomio di Gorizia e avere iniziato un laboratorio senza eguali in Italia, che metteva pazienti e operatori sanitari sullo stesso piano, diede il suo nome alla legge 180, che di fatto chiudeva per sempre una pagina di sofferenza e isolamento della malattia mentale per riportarla nella società, da dove proveniva, e non relegandola ai confini del visibile.

Non è tanto il manicomio in sé ad essere stato abbattuto, quanto – e qui stava la vera rivoluzione – l’ideologia che lo sottendeva: l’idea, cioè, che la scienza possa o debba sradicare la malattia mentale dalla società, che la psichiatria abbia il potere di allontanare il trauma psichico attraverso una punizione, sia questa un trattamento sanitario coatto o la privazione della libertà.

Una volta internati, i pazienti diventavano a tutti gli effetti delle “non persone”, private dei diritti civili e – in teoria, temporaneamente, ma spesso, per sempre – di ogni loro bene. Per accoglierli, l’istituzione psichiatrica disponeva di un gran numero di infermieri, spesso impreparati e scelti soltanto per la loro capacità di contenere, nutrire e lavare i pazienti. I medici sono sempre stati pochi e questa mancanza sarà alla base della trasformazione del manicomio, fino ad abbatterlo completamente. Basaglia sapeva che il manicomio sarebbe stato distrutto aprendogli le porte, facendo riconoscere alla società civile che ciò che veniva scambiata per terapia altro non era che una forma di repressione.

A tal proposito, Basaglia scriveva, ne L’istituzione negata:

«Se il malato è l’unica realtà cui ci si debba riferire, si devono affrontare le due facce di cui tale realtà è costituita: quella del suo essere un malato, con una problematica psicopatologica (dialettica e non ideologica) e quella del suo essere un escluso, uno stigmatizzato sociale.»

Nella società contemporanea, l’ideologia manicomiale sta tornando. Non nelle mura dell’ospedale, ma nella farmacologizzazione massificata. A partire dagli anni ’60 del secolo scorso, prima negli Stati Uniti e poi nel resto del mondo, un gran numero di farmaci hanno dato il potere agli psichiatri di regolare i flussi cerebrali, adattandoli agli standard di prestazione del capitalismo, generando un disagio ben peggiore di quello che si pretendeva di curare.

Piero Cipriano, psichiatra riluttante, lo spiega molto bene, nel suo libro Il manicomio chimico:

«Da cinquant’anni a questa parte, le benzodiazepine vengono prescritte, spesso superficialmente, da specialisti o, ancora più frequentemente, da medici di base, per le condizioni più varie, lutti, stress, somatizzazioni, ipocondrie, senza avvertire i pazienti che si tratta di veri e propri farmaci-trappola, che andrebbero scalati assolutamente dopo le prime settimane dall’assunzione.»

Questo tipo di trattamento ha generato un’intera società dipendente dagli psicofarmaci, estremamente fragile dal punto di vista della sanità mentale, che ricorre alla prescrizione di farmaci come il Prozac o lo Xanax anche in stati di ansia o di tristezza perfettamente normali, senza considerare che buona parte delle ansie generate dalla società dei vincenti e della competizione si sarebbero alleviate semplicemente adottando uno stile di vita differente.

Ma quest’alternativa il capitalismo non la consente. Ed è così che la generazione di Mark Fisher (1968/2017), l’ultima generazione che aveva creduto di poter cambiare il mondo con la coerenza delle proprie scelte politiche, addomesticata dal «There is no alternative» di thatcheriana memoria, si è ammalata di depressione: auto-convincendosi che se si è depressi è a causa di una sostanza mancante – o comunque insufficiente – nel proprio cervello, la serotonina, come se si ha male a un ginocchio la causa fosse genetica e non di un trauma.

Così, in un orizzonte in cui il Prozac sembra il soma ne Il mondo nuovo di Huxley, l’antidepressivo diventa il minimo comune denominatore nella società della prestazione, con tutte le conseguenze del caso: una su tutte, la cronicizzazione della depressione e l’aumento di diagnosi di bipolarismo, generate proprio dall’assunzione di antidepressivi per un periodo prolungato, quando non strettamente necessari.

Come è stato possibile arrivare a questo punto? Con il cambio del DSM – Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi Mentali – che di anno in anno ha stabilito, ad esempio, che i casi di bipolarismo di tipo II fossero riscontrabili in un paziente che è stato depresso almeno una volta. Si capisce bene che, con queste premesse, l’umanità intera è pronta a entrare nel calderone della malattia mentale.

«Da dove deriva tutta questa infelicità? Uno: la società della prestazione genera stanchezza. Due: gli psichiatri, con i loro manuali diagnostici, chiamano questa stanchezza depressione. Tre: gli psichiatri propongono per la cura gli antidepressivi, che però sono per lo più una trappola.

Piero Cipriano, Basaglia e le metamorfosi della psichiatria

Byung Chul Hun, ne La società della stanchezza, sostiene che l’uomo moderno è una specie di Prometeo incatenato di sua sponte. Vale a dire, oggi non c’è più soltanto la società disciplinare descritta da Foucault, che sorveglia e punisce con le sue istituzioni carcerarie e manicomiali; c’è anche e soprattutto un processo iatrogeno, che determina il passaggio da uno stato di obbedienza a un altro, di prestazione.

I luoghi della prestazione sono diversi da quelli dell’obbedienza: sono le banche, le palestre, i supermercati, gli uffici, i centri commerciali, e così via. È questo che genera la grande stanchezza dell’umanità, è questo che dà luogo al burnout, a quello che gli psichiatri chiamano depressione: l’imperativo della prestazione.

«I manicomi davano lavoro e richiamavano risorse, e servivano a uno scopo condiviso da tutti e considerato indispensabile. In genere le famiglie non avevano alcun desiderio di prendersi cura di chi era considerato “matto”, e lo Stato risolveva il problema incarcerando, spesso a vita, chi manifestava problemi di salute mentale. Lo psicofarmaco rende liberi di vivere nella società, a patto di non sentire più le emozioni, di renderci una società anestetizzata, incapace di affrontare il dolore.»

Adesso, anche se ci troviamo di fronte a uno dei periodi più bui della nostra storia, proviamo a rispondere all’interrogativo che sorge spontaneo: come se ne esce? Le prime crepe in tal senso stanno arrivando proprio dalle nuove generazioni di esclusi, che con le «grandi dimissioni» successive alla pandemia da Covid-19 stanno dimostrando di non credere più al diktat capitalista di competere ad ogni costo. In questa nuova Repubblica dei Matti, si tratterà allora di trattare l’ovvio come strano e lo strano come ovvio.

Secondo Franco “Bifo” Berardi, autore del libro Disertate, la mancanza di attaccamento a questa società da parte delle nuove generazioni sarà l’unico modo per salvarci dalle dinamiche di competizione e di morte. A tal proposito, questa forma di alienazione volontaria sembra assumere l’aspetto di qualcosa di inedito: non si tratta più di depressione, bensì di una forma radicale di rifiuto, di diserzione appunto, dal lavoro, dalla guerra e dal consumo. Questo atteggiamento, che magari qualcuno definirà bizzarro, il risultato di qualche folle utopia e non propriamente integrato, nella Repubblica dei matti non andrà «curato», ma al contrario sarà proprio quello che dovrà essere incoraggiato ed insegnato, sostituendo alla memoria il desiderio, senza dimenticare che un giorno saremo stati anche felici.

Collage di Prozac Nation

Lascia un commento