Elvis dei Baustelle è un album che mescola sapientemente sonorità pop, rock e blues, dando vita a un lavoro fresco e retrò allo stesso tempo. Le melodie accattivanti accompagnano i testi, spesso malinconici e nostalgici, che riescono a fare breccia nel cuore degli appassionati. Ogni canzone è un piccolo teatro di emozioni, come “La nostra vita”, una ballata commovente in cui l’amore è una scritta al neon, o “Contro il mondo”, che racconta l’essenza di questi tempi amari. Il sound ricorda in alcuni momenti la musica degli anni ’80 e ’90 dei Pulp, ma il tutto è rivisitato in chiave moderna e originale. Spesso fanno capolino, complice il cambio di line-up, sonorità anni ‘60 e riff beatlesiani, come sottolinea il videoclip di “Milano è la metafora dell’amore”. In definitiva, “Elvis” è un album che non delude le aspettative dei fan e che segna il ritorno dei Baustelle ai loro temi più politici. Ne abbiamo parlato con Rachele Bastreghi e Francesco Bianconi.

Ciao Rachele, ciao Francesco. Innanzitutto, come state?
Bene, grazie.
Nel vostro nuovo album, “Elvis”, avete dato al vostro sound una virata decisamente rock n’ roll. Chi sono i vostri nuovi musicisti?
Rachele: Pur avendo fatto generi diversi negli anni, l’attitudine rock l’abbiamo sempre avuta. Io stessa quando sono entrata nei Baustelle – più di vent’anni fa – avevo insieme una fascinazione e una diffidenza per quello che facevano. Però gli serviva una voce, quindi eccoci qui dopo tutto questo tempo a parlarne. Questo disco rispetto ai precedenti ha sicuramente un’anima più soul, passando anche per la musica nera, per il gospel e per il blues. Abbiamo attraversato generi con i quali non ci eravamo mai confrontati e ci siamo detti che per il nuovo album fosse necessario rivoluzionare tutto, e così è stato.
Francesco: Non solo, è stato un disco che a differenza degli altri è partito da un bisogno comune di esprimere delle cose a partire da quello che i nostri lavori solisti ci avevano lasciato dentro, suonando insieme in sala prove, senza congetture o decisioni a priori. Non c’è stato un concept, come in Fantasma, nel quale si parlava dello scorrere del tempo, né un’impronta forte come ne L’amore e la violenza. Tutto si è amalgamato liberamente. Abbiamo voluto fortemente questo nuovo sound perché la musica dei Baustelle è sempre stata in divenire e stavolta – complice la lunga pausa dovuta alla pandemia – abbiamo fatto ampio uso di sessioni aperte con Claudio Brasini e i nostri nuovi compagni di viaggio, molto bravi e molto giovani, che hanno partecipato anche ad alcune fasi di arrangiamento e di scrittura dei brani: Alberto Bazzoli (piano e Hammond), Lorenzo Fornabaio (chitarra elettrica e acustica), Julie Ant (batteria e percussioni) e Milo Scaglioni (basso e chitarra).
Più che a Elvis, in molti brani sembra che strizziate l’occhio ai Beatles del “White Album.” A cosa dobbiamo questo revival anni ‘60?
Rachele: Elvis è la rockstar decadente per eccellenza. È come una parabola discendente, che ha il suo apice e poi cade, con tutto quello che sta in mezzo. Come la vita.
Francesco: Da ragazzo amavo molto quel periodo. Poi ovviamente cresci e ascolti altro, però ci siamo resi conto di avere un debito non ancora chiuso con i Beatles, anche se ovviamente poi accetti che sia esistita anche la new wave, la black music, l’elettronica. Volevamo darci qualche riferimento che oltre al rock n’ roll venisse dal vecchio blues. Questa è l’attitudine che unisce tutte le canzoni.
Il Re era solito affermare “quando non puoi dire qualcosa, canta.” In quest’epoca di “fascismo e squallore” per voi è la stessa cosa?
Francesco (ride): Da alcuni passaggi in quello che abbiamo scritto si capisce che non siamo proprio “filo-governativi.” Anche se gli altri mi prendevano in giro, quando ho proposto il titolo per Andiamo ai rave tutti mi dicevano “ma dai Francesco, che parola desueta!”, invece un mese dopo l’insediamento del nuovo governo tutti i giornali titolavano quella parola. È così facile trovare materiale di questo tipo in questo periodo, che il nuovo disco è venuto fuori quasi da solo, con tutto l’amore e anche con tutto l’odio che questo momento storico suscita in noi.
Rachele: Tanto coraggio ti viene restituito anche dall’energia sprigionata dal pubblico. Personalmente, non farei questo lavoro e non canterei queste cose se non per le persone che mi capita di incontrare durante i tour. Sapere di parlare a qualcuno che in qualche modo si sente come te ti dà una grande forza.
In molti vostri testi vengono fatti dei riferimenti politici espliciti. Cosa significa per voi, oggi, essere antifascisti?
Francesco: Ogni nostro disco nasce da un’urgenza che è anche politica, altrimenti non avrebbe senso. La cosa che mi fa piacere è che questo momento storico orribile stia costringendo molte persone a schierarsi. È un processo assolutamente naturale. La democrazia che è stata rappresentata dai partiti liberali, comunisti, socialisti e democristiani, erano tutti partiti nati dalla lotta contro il fascismo e su questo si basa la nostra Repubblica. Per questo, pur essendo nato e cresciuto in provincia, mi sento ancora bene a vivere in una città come Milano, che ha segnato una controtendenza alle ultime elezioni politiche rispetto al resto d’Italia, come ho scritto in “Milano è la metafora dell’amore”. Non è un inno al Partito Democratico o cose del genere, ma solo il mio modo di affermare che mi trovo più in linea a un’appartenenza di questo tipo, fieramente antifascista, piuttosto che nell’orrore di cui si sente parlare in altre parti d’Italia. Se me ne andassi da Milano, me la ricorderei eccome.
Rachele: Io credo che Milano si ricorderà di me, invece. Perché gli affitti sono troppo cari (ride). A parte gli scherzi, scriveremmo canzoni di altro tipo se non condividessimo la stessa urgenza.

In un vostro disco del 2008, “Amen”, cantavate che “le avanguardie erano OK almeno fino al ‘66.” Secondo voi quanto è rimasto oggi di quell’approccio radicale all’arte e quanto aiuta a distinguersi nel mercato musicale?
Francesco: È un problema nel quale io stesso mi rivedo spesso. Come ricorderai, in quel testo, Il liberismo ha i giorni contati, facevo riferimento anche al mio modo di prestarmi al gioco al massacro delle vendite, che questa mia amica dell’epoca, molto più radicale di me, trovava assolutamente deprecabile. Ma quando fai questo mestiere devi anche considerarlo. Di più: dopo un po’ capisci che non c’è un modo buono o cattivo di dire le cose. L’importante è che qualcuno ascolti. Per fare questo noi non volevamo essere come tutti gli altri quando abbiamo iniziato. Anzi, ai nostri primi concerti distribuivamo questi volantini con su scritto “viva l’avanguardia di massa”. In un certo senso quindi volevamo essere contro il mondo, pur vivendoci e standoci in mezzo. Allo stesso tempo però avevamo voglia di essere popolari, non nel senso di diventare famosi – al successo non abbiamo mai creduto veramente – ma far parte di quel “sentimento popolare” che nasce “da meccaniche divine”, per citare il maestro.
Rachele: Fare arte ti aiuta a immortalare ciò che è importante e isolarlo da ciò che non lo è. Come in una fotografia. Fai arte se hai qualcosa da dire, altrimenti vai al bar, esci con gli amici, fai un viaggio. Fare arte significa avere un’urgenza, come si diceva prima. Ecco perché per noi è stato importante ascoltarci molto e collaborare a un progetto preciso, pur nella voglia di arrivare a più persone possibili. Poi quando vedi le persone che cantano le canzoni ai concerti, è una bella rivincita. Per fortuna noi abbiamo iniziato a fare questo lavoro in un periodo in cui tutto questo era ancora possibile. Per molte persone questo percorso, nel sistema discografico di oggi, è totalmente precluso.

Montale, Magrelli, Franco Loi sono solo alcuni dei poeti che riecheggiano in questo nuovo disco. Quanto è importante per voi la poesia italiana e come si accompagna a un sound americano?
Francesco: Essendo prima di tutto lettori di poesia, quello che viene fuori nel nostro caso è un uso consapevole della parola nelle canzoni. C’è quasi una crasi, come in “che antico testamento adesso fermerà/ la sistole del nostro cuore”. Penso che i testi delle canzoni e i testi delle poesie a volte abbiano delle metriche simili. Dopo un po’ impari alcuni trucchi per accostare un linguaggio più arcaico a parole di uso comune e queste sono le canzoni che più amo scrivere e ascoltare. Per me le canzoni si dovrebbero sempre scrivere così, insieme ad una buona dose di incoscienza, a fari spenti nella notte, con le parole della poesia a guidarti. Non esistono parole vietate, tutto dipende dal modo in cui le dici.
Rachele: La poesia come la canzone è anche suono, quindi che si tratti di Baudelaire o di Dante, è la nostra maniera di omaggiare i grandi senza dimenticare che si sta scrivendo per il pubblico di oggi. Ad esempio non è sempre facile unire alcune parole più letterarie alle sonorità rock ‘n roll. Per fortuna ci ha già pensato David Bowie prima di noi. Il nostro interesse è nel fare la stessa cosa in una lingua non sempre facile come quella italiana.
In “Los Angeles” sembra quasi che l’immaginario americano si sposi con una disillusione di fondo. Per voi la musica può contribuire a cambiare la realtà o è soltanto una retorica vuota?
Francesco: Per me la canzone popolare ha sempre avuto la possibilità di essere politica, essendo espressione di un singolo punto di vista. Sembra una contraddizione, ma non lo è. Quando scrivi una canzone, eserciti un controllo rispetto al caos dell’esistenza. In questo senso, dichiararti in opposizione a qualcosa ti aiuta a definirti, prima di tutto come essere umano e come cittadino prima ancora che come artista. In questa cosa io credo fermamente, perché filosoficamente essere contro una certa deriva del mondo ti spinge anche a migliorarlo.
Rachele: Invece io non mi sono mai chiesta perché facessi una determinata cosa prima di farla. Io faccio. Se poi quell’urgenza si riproduce anche a livello artistico e musicale, allora diventa interessante e proseguo per la mia strada, altrimenti mi fermo. L’importante è non diventare banali.
La nostra vita
Che cosa abbiamo a cena, amore?
Che vento ci sorprenderà?
Che ipotesi di cambiamento segnerà
La croce del nostro dolore?
In fondo sono solo un uomo
Perduto nell’oscurità
Continuo a chiedere perdono e poi chissà
Da quale Cristo arriverà
Fine dell’estate della nostra vita
Sembrano rimaste solo sigarette spente
E un gigantesco niente
Notti sconsacrate senza via d’uscita
Pure illuminate da una scritta al nеon gigante
Io ti amerò per sеmpre
Chi ha vinto le elezioni, amore?
Che vuoto ci governerà?
Che Antico Testamento adesso fermerà
La sistole nel nostro cuore?
In fondo sono una ragazza
Nel crollo della civiltà
Continuo a interrogare il cielo e poi chissà
Mio figlio quale nome avrà
Fine dell’estate della nostra vita
Sembrano rimaste solo sigarette spente
E un colossale niente
Notti scorticate senza via d’uscita
Sono illuminate da una scritta al neon gigante
Io ti amerò per sempre
E ora la luce sconvolgente dell’autunno
È rame fuso su di noi
Nessuna morte ci potrà ferire mai
Nessuna morte e tu lo sai
Perché se anche questo fosse il capolinea
Riusciamo ancora a credere
La fine dell’estate della nostra vita
Ben illuminata da un’insegna permanente
Io ti amerò per sempre