Una guerra che un bambino non potrebbe capire: vent’anni dalla Seconda guerra nel Golfo

Vent’anni fa, senza alcuna dichiarazione di guerra, la coalizione di volenterosi a guida statunitense ha invaso l’Iraq. Per l’ennesima volta l’Occidente ha fabbricato una guerra che ha condotto alla fame e alla morte una quantità enorme di persone, persone in carne ed ossa, anche se può capitare di dimenticarselo; persone che non mangeranno più un gelato, non si innamoreranno più, non andranno più al cinema. Perché le nostre bombe li hanno uccisi. E i nostri embarghi, le nostre menzogne mediatiche, la nostra industria bellica, la nostra alta finanza, i nostri complessi sistemi militari; fino a scendere a noi persone comuni, con un comune cinismo, una comune ignoranza che è volontà di non sapere qual è il prezzo del nostro benessere. Non vorremmo guardarci allo specchio e sentirci sporchi. Ad averli uccisi è stata anche la nostra sostanziale indifferenza nei confronti della gente di laggiù, dove laggiù non indica solo l’Iraq, ma è metonimia di ogni distanza. Ma rispolveriamo velocemente la guerra in Iraq, la seconda nel giro di pochi anni: è stata il culmine di un processo che – formalmente – era iniziato l’11 settembre 2001, ma indubbiamente ha radici molto più profonde.

L’ex presidente degli Stati Uniri George W. Bush durante la conferenza stampa in cui diede al leader iracheno Saddam Hussein un ultimatum di 48 ore per evitare la guerra dichiarando “Saddam Hussein e i suoi figli devono lasciare l’Iraq entro 48 ore. Il loro rifiuto di farlo si tradurrà in un conflitto militare”, 17 marzo 2003

Difatti, nonostante quindici dei diciannove dirottatori fossero sauditi (oltre a due dagli Emirati Arabi Uniti, uno dall’Egitto e uno dal Libano); nonostante Al-Qaeda fosse finanziata in larga parte da denaro proveniente dal Golfo Persico (in particolare saudita) e avesse la propria base in Afghanistan; e nonostante Osama Bin Laden fosse saudita e Khalid Shaikh Mohammed (identificato come stratega dell’attentato dalla Commissione ufficiale sull’11 settembre) pakistano; il giorno dopo già veniva pianificata l’invasione dell’Iraq. Lo dichiara Richard Clarke, all’epoca coordinatore nazionale per la sicurezza e l’antiterrorismo:

Il presidente, in modo molto intimidatorio, congedò me e il mio staff con la chiara indicazione che tornassimo da lui con qualcosa che dimostrasse che c’era la mano irachena dietro al 9/11, perché avevano pianificato di fare qualcosa in Iraq prima ancora di essere eletti.[1]

Condoleezza Rice replicherà affermando che «l’Iraq, data la nostra storia, dato il fatto che ha cercato di uccidere un ex presidente, era un probabile sospettato[2]» e Donald Rumsfeld, sulla stessa lunghezza d’onda, dirà che l’amministrazione Bush aveva una visione più ampia e stava guardando a una «guerra globale al terrore, non solo una guerra contro Al-Qaeda[3]».  

Una manifestante, Desiree Sairooz, protesta contro Condoleezza Rice. 24 ottobre 2007 (AP Photo/Charles Dharapak)

L’attacco all’America e il conseguente clima di paura che si era creato aveva fatto schizzare alle stelle il consenso del presidente Bush jr., portandolo alle soglie del 90% e offuscando il pasticcio delle presidenziali del 2000, forse le elezioni più contestate di sempre, con la lunga disputa legale sul riconteggio delle schede in Florida. I cittadini americani, al fine di combattere il terrorismo, accettarono per lo più di buon grado la limitazione delle loro libertà attraverso il Patriot act. Ciò nonostante, per tentare di convincere l’opinione pubblica della legittimità di un intervento in Iraq c’era bisogno di qualcosa di più tangibile.

La statua di Saddam Hussein in piazza Firdos a Baghdad mentre viene tirata giù a forza, 9 aprile 2003

L’amministrazione americana ha impostato quindi la sua comunicazione su tre punti principali: la destituzione di Saddam Hussein avrebbe portato pace, democrazia e libertà nel paese e nell’intera regione; malgrado gli sforzi delle Nazioni Unite, l’Iraq era ancora in possesso di armi di distruzione di massa; l’Iraq aveva stretti rapporti con Al-Qaeda. Oggi sappiamo bene che tutte e tre queste asserzioni erano infondate ed è lecito pensare che siano state architettate deliberatamente.

Un bombardamento avvenuto il 21 aprile 2003 su Baghdad (Wathiq Khuzaie /Getty Images)

Nonostante un accorato discorso che Colin Powell ha pronunciato alle Nazioni Unite – e che in seguitò lo stesso Powell ha definito la più grande macchia della sua carriera[4] – nel quale si mostravano fiale, si parlava di democrazia, di camion, di antrace e botulino, di fonti che c’erano ma non potevano essere rivelate; il Consiglio di sicurezza ha negato l’autorizzazione a procedere. In assenza di questa autorizzazione l’intervento militare ha rappresentato una grave violazione del divieto di uso della forza nelle relazioni internazionali sancito dall’art. 2, par. 4, della Carta dell’Onu. Come lo definisce Ugo Villani nella sua analisi, fu una «vera e propria guerra di aggressione contro uno Stato sovrano[5]».

L’allora segretario di Stato Usa Colin Powell all’Onu, il 5 febbraio 2003 (Ap/Elise Amendola)

Quando nel 2016 venne pubblicato il rapporto The Iraq inquiry – noto anche come Rapporto Chilcot – fu accertato inoltre che il governo britannico era ben consapevole della totale mancanza di prove circa la reale esistenza delle famigerate armi. Il rapporto accusa il primo ministro Tony Blair di non aver tentato una soluzione pacifica, anzi di averla ostacolata, evidenziando per di più come fosse noto che un intervento del genere avrebbe causato una grave destabilizzazione di un’area estremamente delicata, tale da produrre effetti gravissimi che, come era previsto, si sono verificati.

Accertato che la coalizione anglo-americana nel 2003 ha compiuto un atto di aggressione nei confronti dell’Iraq e che numerose sono le violazioni delle norme di diritto internazionale umanitario documentate nello svolgimento di tale operazione, va notato, ancora con Villani, che:

 l’Onu ha poi finito per tentare di legittimare, se non l’aggressione, almeno l’occupazione militare, adottando soluzioni contrarie a norme imperative di diritto internazionale generale […] e in quanto tali illegittime, anche al fine primario della stessa Onu, cioè di mantenere la pace e la sicurezza internazionale[6].

 Si può dire che l’Onu abbia sorvolato su quelli che dovremmo definire, a ragione, crimini di guerra. Ma non solo, a seguito dell’invasione, gli Stati Uniti e il Regno Unito erano tenuti a garantire la sicurezza in Iraq come potenze occupanti, secondo la risoluzione 1483 del Consiglio di sicurezza. Questo non è mai avvenuto, ma anche questa mancanza è stata tollerata. Una clemenza che nei 13 anni di embargo non si è mai avuta per l’Iraq, il quale non ha potuto importare vaccini: potevano, sembra, diventare armi chimiche; come non ha potuto importare matite, magari accumulando molta grafite sarebbe stata in grado di costruire una bomba.

A conti fatti, la conquista americana dell’Iraq, per quanto semplice, si è rivelata un disastro di pianificazione. Le idee sul “cosa fare dopo” sembravano poche, confuse e comunque errate. A seguito della penetrazione militare non sono state predisposte iniziative di assistenza umanitaria; i vari dipartimenti del governo confliggevano tra loro e la cpa (Coalition provisional authority) – organo istituito come momentaneo governo iracheno – non aveva idea della complessità della situazione.

Irachene e iracheni in fuga da Bassora (Ap/Anja Niedringhaus)

La prima grave conseguenza della pessima gestione americana della situazione è stato lo scompiglio in cui sono precipitate le città. Il ridotto numero di forze occupanti e il loro complessivo disinteresse nel mantenimento dell’ordine ha infatti provocato un’escalation di criminalità, al punto che per anni sono perdurati saccheggi e razzie. Tutto è stato messo sottosopra in cerca di derrate alimentari, armi o soldi. I luoghi istituzionali devastati, i cavi elettrici distrutti per rubare il rame; computer, macchinari e componenti elettronici sono spariti da tutti gli uffici; gli archivi sono stati incendiati facendo sparire per sempre un’enorme quantità di dati e rendendo impossibile una futura ricostruzione certa della storia. Anche il Museo nazionale iracheno, che fu tra i più belli al mondo, è stato saccheggiato di circa quindicimila reperti, la Biblioteca nazionale data alle fiamme; mentre tutto questo avveniva sotto i suoi occhi, la coalizione utilizzava le insufficienti truppe a disposizione per non perdere di vista un secondo i giacimenti petroliferi e il Ministero del petrolio.

Quando il poeta Nabeel Yasin rientra in patria dopo ventisette anni di esilio trova una terra sfigurata che stenta a riconoscere:

Un carro-armato americano protegge la Porta di Ishtar
all’inizio della processione babilonese
sulla facciata del Museo dell’Iraq,
dove un tempo io scoprii la mitologia della mia vita.
La Mesopotamia è devastata
e abbandonata sotto al sole.
I carri armati stanno fermi, mentre ladri rubano il tatuaggio
dal braccio della regina sumera.

L’Iraq post-invasione è un paese nel quale un feroce regime è stato sostituito da una moltitudine di regimi, ognuno dei quali traccia le proprie linee rosse, protetto e sostenuto dai propri referenti politici, dai propri media e dalla propria ala armata. Le milizie hanno velocemente formato un deep state più potente dello Stato stesso, che opera in totale impunità e sembra impossibile da sradicare. La rapida deposizione del regime di Saddam Hussein è stata in realtà l’inizio di un conflitto lungo e sanguinoso, con il quale gli iracheni stanno ancora facendo i conti. Mentre noi invece no.

Un uomo scappa dopo un’esplosione nella moschea sciita di Imam Ali nella città di Najaf il 29 agosto 2003 (SABAH ARAR/AFP/Getty Images)

Nel caos svaniva la speranza nel futuro. Nel frattempo cresceva l’odio per gli americani, dando spazio alla formazione di movimenti di resistenza. In questo disordine Al-Qaeda è riuscita a infiltrarsi in Iraq tramite Abu Mus’ab Al-Zarqawi e a far confluire molti degli elementi della resistenza tra le proprie file: profughi, saccheggiatori, soldati smobilitati, civili rimasti disoccupati, sunniti che ormai si sentivano esclusi dal futuro del paese ed ex ba’thisti che, nonostante la loro ideologia generalmente laica, sono stati convinti ad abbracciare il terrorismo religioso.

Il Centro nazionale antiterrorismo degli Stati Uniti, nel suo rapporto sugli attentati terroristici nel mondo, ha contato 651 attacchi nel 2004, a fronte dei 175 dell’anno precedente[7]. Come non giungere alla considerazione che questo aumento esponenziale abbia una stretta relazione con l’intervento occidentale in Medio Oriente? A quanto pare, l’occupazione dell’Iraq ha finito per ingigantire proprio il problema che aveva intenzione di risolvere.

Se si vuole analizzare questo brandello di storia come tale e non nei suoi singoli fenomeni, c’è bisogno di tenere conto dell’intero percorso, dell’entità delle forze messe in campo, degli equilibri vecchi e nuovi e dei sentimenti popolari che determinano la storia più delle statistiche. Gaio Ponzio, in un discorso tramandato da Tito Livio, affermava: «la guerra è giusta per coloro ai quali risulta necessaria, e il ricorso alle armi è sacrosanto per quelli cui non restano altre speranze se non nelle armi[8]». È per questo motivo che liquidare come squilibrati tutti coloro che combattono nelle fila di organizzazioni ritenute terroristiche non è solo estremamente parziale ma specchio di un senso di superiorità che proviene dal nostro crederci i prodotti finali di un processo più virtuoso di altri.

Un uomo piange sulla bara del fratello morto durante un attentato a Baghdad nel quartiere al-Sadriyah, 19 aprile 2007 (AHMAD AL-RUBAYE/AFP/Getty Images)

Ci sentiamo impotenti di fronte all’iniquità del mondo, accettarla sembra la sola possibilità, ma forse lo sembra a chi si trova nella parte privilegiata. Occorre approcciarsi cercando similitudini, non ostentando i divari da colmare, ripensando a via Rasella quando si parla del Canal Hotel di Baghdad; ripensando Alle fronde dei salici di Quasimodo per rammentare la frustrazione di sentire «il piede straniero sopra il cuore»; quando ci sembra di non comprendere il rancore e la violenza dei miliziani basta ricordare a cosa ha portato la rabbia dei cittadini tedeschi dopo le sanzioni successive alla Prima guerra mondiale. La nostra storia non è così diversa dalle altre storie, i sentimenti della gente non sono poi così diversi dai sentimenti delle altre genti sparse per il mondo. Se la nazione è una comunità immaginata, allora costruire (o meglio imporre) artificiosamente questo complesso intreccio di legami interculturali e socio-storici è un’ambizione folle. Bisogna conoscere, interrogare, capire, valutare molto accuratamente le conseguenze dell’una o dell’altra condotta e solo dopo, se si è sicuri di poter offrire qualcosa a qualcuno che ha la volontà di accoglierlo, intervenire con la massima delicatezza. Ma forse stiamo già parlando d’altro: gli interessi politici hanno ragioni che il cuore non sente. Per portare avanti questo genere di azioni senza essere percepiti come avversari, credo ci sia bisogno di qualcosa che gli adulti non sono in grado di immaginare, ma che un bambino non saprebbe descrivere.


Collage di Joe Castro
Tratto da Camminare Rasente al muro (Edizioni Malamente), di Fabrizio Sani

[1] Suzanne Malveaux e Barbara Starr, Bush administration rejects Clarke charges, Cnn report, 6 mag. 2004.

[2] Alberto Guidi, 11 settembre: il mondo 20 anni dopo, ispi, 10 set. 2021.

[3] Ivi.

[4] Steven R. Weisman, Powell calls his un speech a lasting blot on his record, “New York Times”, 9 set. 2005.

[5] Ugo Villani, L’onu e la crisi del Golfo, Bari, Cacucci, 2005.

[6] Ivi.

[7] National counterterrorism center, A chronology of significal international terrorism for 2004, 29 apr. 2005.

[8] Tito Livio, Ab Urbe Condita, Libro IX.

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