Per un io lirico esprimere la propria esperienza (spesso, la propria pena), equivale a rappresentarsi, nell’arena di una poesia, come detentore di un dolore unico e speciale, così tanto da crederlo utile ai propri simili. In questo l’io lirico confessa, accusa e sfoga, e bellissimo e pieno di pathos ricade nell’egopatia che l’aveva condotto a quella coraggiosissima e un po’ autoritaria parola io. Può succedere però anche il contrario: che un io lirico più coraggioso e sincero tenti di donarsi al testo con l’umiltà di scomparire in esso, di affiorare e affondare ancora come la verità che cerca. E allora diventa una scena, qui particolare, privata, sconosciuta se non alle retine degli occhi interni, una scena forse archiviata nelle viscere da generazioni da cui emerge un nome impronunciabile o pronunciabile solo nel silenzio. E in quel silenzio si ritrova una concreta e materica vecchia sarta che con gesto creativo e liturgico prova a recuperarsi, a non disperdersi nel caos che la chiama, a vivere ancora nella tremenda violenza di un nome indicibile, di un’origine perduta per sempre, poiché mai avuta. Ogni occhio che passa passa e non comprende, interpreta quelle stoffe come mostra d’orgoglio identica alla propria superbia e non vuol vedere. Che le stoffe che lei tesse senza pace sono ciò che l’essere umano non ha mai smesso di fare: tentare di riprodurre nella materia, con la materia, l’angoscia di non aversi.
(Lorenzo Lombardo)
Retina
Dal vetro, verso l’interno:
ossatura perlacea di plastica
un manichino mantiene la posa,
la faccia vuota estatica – premuta
in un grande cappello. Agli altri
identico, occupa il margine
estremo del pavimento.
Su di esso scende copiosa
una luce azzurrognola – aspersione,
battesimo celere: chi passa alimenta
la doccia elastica, il nodo
lento; la morsa; le braccia
lunghe d’inverno.
Dietro:
retrobottega.
Una vecchia che mastica
quel ronzio caldo e sudato
sul tavolo;
s’agita, ferma, in un punto:
lo segna precisa, assetata
del prossimo; in scia
pulitissima alterna
allo spazio il suo rovescio:
sistema binario,
vita – decesso – vita – decesso.
Una voce nasale introduce i clienti.
Si fanno avanti, specchiano
gli occhi sulle pareti.
I passi vanno e vengono
i posti sempre occupati:
così il pubblico fronteggia
i retroscena.
Retrobottega.
La sarta non si dà pena
dei suoi burattini; la irrita
l’esposizione violenta
degli arti: gli zigomi alti,
gli occhiali pigiati, lei vuole
soltanto la stoffa distesa: pianura
inaudita, retina orizzontale
a fiaccarle le dita, la superficie
ultima; una terra
da consolare.
Ripete sempre
quel salto dal piede
alla sedia: sventola
un nome, bianco,
le lettere chiuse
sotto qualche strato.
Nella mano che sale,
che scende, che cerca,
qualche volta il nome
si dimena; non emerge.
Allora sbaglia,
riproduce lo strappo.
Rattoppa. Ricuce.
Un tratto – uno spazio – un
tratto – uno spazio – mare
aperto – un tratto – uno strazio –
Dov’ero rimasta?
Solleva lo sguardo.
Vede soltanto una fronte piana,
distesa, e una barca fiaccata:
come lingua strana,
in mezzo alle labbra
di plastica.
Dov’ero rimasta?
Mastica e chiama.
Un nome che sale,
che scende, che cerca.
Si dimena; non emerge.
Si dimena non emerge
dalla tela.
Dov’ero rim–astica e chiama.
Si nasce si cresce ci si assottiglia.
Mi somiglia sempre.
Si chiama:
Karōshi (過労死), è un progetto spoken word music nato dall’unione della musica elettronica di SOFIA_ con i testi di Elena Cappai Bonanni. Nel 2022 è risultato vincitore al Premio Roberto Sanesi di poesia in musica. Il loro primo album, dal titolo omonimo, è in uscita per ENF/RBN a marzo 2023.