C’è una donna trans e migrante in carcere, racconta la sua storia. C’è un pastore sardo all’ergastolo per rapina, che la sta ad ascoltare. C’è un militante comunista, anche lui in carcere, che la trascrive. Infine, c’è un famoso cantautore genovese che questa storia la canta, ed è da lui che partiremo per raccontare la storia di una storia di una storia.
Nel 1996 Fabrizio De André dà alle stampe Anime Salve, il suo tredicesimo album scritto a quattro mani con Ivano Fossati; è un disco, questo, che ha come trait d’union fra le canzoni la condizione di solitudine di tutti quei soggetti marginalizzati dalla società: lo stesso titolo dell’album deriva dall’etimologia delle parole “Anime” e “Salve”, che significano letteralmente “spiriti solitari”. L’intero disco può essere considerato un “elogio della solitudine”, che permette di essere liberi e non condizionati dalla società, come spiegato dallo stesso De André durante un concerto.

La prima canzone del disco, Princesa, si apre con queste strofe: “Sono la pecora sono la vacca, che agli animali si vuol giocare, sono la femmina camicia aperta, piccole tette da succhiare”: è la storia di una trans che, dal Brasile all’Italia, “va a correggere la fortuna”, fra amori in vendita e operazioni chirurgiche.
La canzone è arcinota, eppure poco si sa che ha origine da una storia vera.

Fernanda Farias de Albuquerque, nota anche con il nome d’arte Princesa, nasce il 22 maggio 1963 in Brasile. Nata uomo, fin da bambina si sente altro dal suo genere biologico, e subisce fin da subito abusi, povertà e discriminazioni.
Si trasferisce dalla campagna alla grande città, San Paolo, dove comincia a prostituirsi, e infine nel 1982 riesce finalmente a operarsi. Ma la polizia brasiliana comincia una campagna di retate contro la prostituzione delle trans, campagna che comprende violenze e omicidi (“Puliamo San Paolo, uccidiamo una trans a notte”, si trova scritto sui muri).
Fernanda è costretta a fuggire verso il vecchio continente, e arriva a Milano nel 1988, dove ricomincia a prostituirsi in via Melchiorre Gioia, dove solo fino a pochi anni fa – prima della costruzione del nuovo Palazzo della Regione Lombardia – le notti erano popolate da queste donne e dal via vai dei loro clienti.
Scopre i vizi degli uomini italiani e, con essi, anche l’eroina, da cui diventa dipendente.
Nel carcere di Rebibbia, Fernanda scopre di essere sieropositiva, ma scopre anche una persona che vuole ascoltare la sua storia: Giovanni Tamponi, un pastore sardo che nel ’79 aveva cercato, come lei, di correggere la fortuna passando dalla campagna alla città.
Da Milano va a Roma, sempre per fuggire dalle retate della polizia istigata dagli “onesti cittadini”, e sempre per cercare l’amore. Qui, all’EUR, accoltella una mezzana e viene arrestata.
Nel carcere di Rebibbia scopre di essere sieropositiva, ma scopre anche una persona che vuole ascoltare la sua storia: Giovanni Tamponi, un pastore sardo che nel ’79 aveva cercato, come Fernanda, di correggere la fortuna passando dalla campagna alla città; per lei il mezzo era stato il suo corpo, per Giovanni una pistola, e così compie una rapina in banca finita nel sangue. Viene condannato all’ergastolo ma, come lavorante, può esplorare tutte le sezioni del carcere ed è qua che comincia la sua amicizia con la brasiliana.
E, mentre le conversazioni continuano, irrompe nello scenario qualcos’altro, qualcun altro: “La scena quella dell’arrivo nel reparto G8 di un gruppo di brigatisti in piena crisi d’identità. La lotta armata era finita, le antiche certezze che li avevano tenuti insieme sgretolate 1. Venivano da lontano, da migliaia di giornate sempre uguali, assuefatti ai segni di un piccolo universo esclusivamente maschile. Tra loro c’ero anch’io. L’incontro con i trans in principio ci disorientò. Profumi di donna arrivarono ad olfatti disabituati; gonne, calze e reggiseni stesi alle finestre spezzarono le continuità monotone del precedente panorama carcerario.” Così racconta Maurizio Jannelli, nell’introduzione a “Princesa”, del suo arrivo a Rebibbia.

Maurizio, alla metà degli anni ‘70, era entrato nella colonna romana delle Brigate Rosse, la “28 marzo”, e aveva partecipato a una serie di azioni fino al 1980, quando era stato arrestato dopo un conflitto a fuoco; torturato, come tanti altri militanti comunisti, viene poi condannato a due ergastoli per non essersi avvalso né del pentitismo né della dissociazione, anche se in galera è uno dei fautori, insieme a Curcio e a Moretti, della chiusura delle Brigate Rosse.
Nelle carceri, fra giorni che non passano mai, Maurizio decide di mettere in piedi un progetto di scrittura per detenuti e, quando viene spostato a Rebibbia, Tamponi gli racconta di Fernanda e della sua storia.
Comincia un dialogo a tre fatto di biglietti passati di cella in cella, “pizzini” che narrano la vita romantica e violenta di Fernanda, che si esprime in un italiano ibridato con il portoghese e alcuni influssi gergali dell’amico Tamponi.
Maurizio Iannelli
“Per comunicare con Fernanda partecipai e contribuii al farsi della ‘nuova lingua’. Alla variazione, scritta e orale, che risultò dalla chimica delle nostre lingue materne. Il portoghese, l’italiano e il sardo. Di quest’ultimo, negli scritti originali di Fernanda, ci sono tracce deliziose che rimandano al suo maestro.”
Su consiglio di colui che fu il fondatore delle Brigate Rosse, Renato Curcio, e che dal carcere stava allora dando vita al progetto editoriale “Sensibili alle foglie”, questa storia diventa un libro: Princesa, uscito nel 1994 e clamoroso esempio di letteratura della migrazione.
Il libro narra le gesta, dal Brasile all’arrivo in carcere, di Fernanda – che è citata come autrice – ma la scrittura appare essere pienamente di Jannelli, infarcita di quei barocchismi linguistici propri di una certa narrativa ex brigatista (si veda anche lo splendido Armi e Bagagli di Enrico Fenzi, ex militante della Colonna genovese delle BR).
Questa co-autorialità, comune a tanta letteratura migrante, risulta controversa: la voce italiana si appropria di quella straniera e la sovrascrive, la sovradetermina.
Così, ad esempio, scrive la critica e poeta Marzia Samini in una sua recensione di Princesa: “In questa categoria letteraria sembra che i residui del vecchio colonialismo fascista si risveglino con una certa dose di convinzione, portando l’ascoltatore nativo ad appropriarsi della storia del migrante, approfittando della lingua che, chiaramente, il nuovo arrivato non è in grado di parlare. Perciò quello che sembra essere un aiuto si trasforma fatalmente in un sopruso, l’ennesimo. Le storie vengono rubate e vendute sul mercato grazie alla garanzia di veridicità.”
Questa critica è verosimile e oggi, che le comunità marginalizzate hanno dimostrato di non aver bisogno della stampella dei privilegiati, i limiti di certa letteratura vengono prepotentemente alla scoperta.
Però viene scordato che la storia di Fernanda è una storia ontologicamente polifonica e di una mutazione; polifonica perché nella prima parte del libro Fernandinho, la parte biologica maschile, e Fernanda, la volontà di divenir femminile, dialogano fra loro, si contrappongono.
“Fermo sul rosso palpita ad ogni azzardo nel peccato, segretamente stringo e dilato il mio piacere. Il culo. Fernando, sono spettatore di me stessa. Fernanda mi sorprende, inaspettata, liberata. Mossette, mossettine. Abita il mio corpo, inghiotte la mia coda, la biscia. Eccomi qui, maschio ef emmina con un José-con-me e la voglia che ci riempie mentre viaggiamo un lungomare sconosciuto che allontana la città. Ora lo so, basterà un soffio e lui verrà giù, castello di carte al primo sfioramento.
Fernanda Farias De Albuquerque
– Oh, José, se potessi rinascere femmina per un uomo.”
È la norma, la sessualizzazione come maschio imposta dal solo dato biologico e culturale, che combatte con la propria interiorità, che dialoga, che giunge a patti, e che infine scompare nella transizione.
Ecco che la storia di Fernanda trans, appunto, dalla campagna alla città, da una corporeità maschile a una femminile, da San Paolo in Brasile a Milano e poi a Roma, E, infine, dalla libertà formale alla galera.
Nella polifonia del racconto di questo viaggio diventa quindi profondamente simbolico che anche i connotati dell’ autorialità diventino mutevoli e polifonici.
La storia di Fernanda, poi, viene trascritta e, quindi, corrotta, da un’altra marginalità: Maurizio non è un giornalista in cerca di fama, ma un ergastolano che subisce la morte civile che vivono i vinti della Storia, ed è come se nella solitudine di Fernanda volesse raccontare anche la sua.
I surrealisti avevano come motto “Cambiare la vita”, diceva Rimbaud; “Trasformare il mondo”, diceva Marx: Fernanda fa la prima cosa, Maurizio tenta di fare la seconda, e ad entrambi la vita e il mondo risponde con violenza e galera ma, insieme, danno vita alla testimonianza di questo tentativo.
Era quindi scontato che, in questi passaggi e passaggi di voci che si intersecano e mutano, infine anche un cantautore prendesse in mano questa storia e la cantasse.
E, come se fosse la storia stessa a controllare gli autori e non il contrario come logica vorrebbe, anche nel brano di De Andrè assistiamo a una trasformazione: il coro finale, in portoghese, che è un lungo elenco di cose e fatti della vita di Fernanda e, presumibilmente, di tante ragazze di strada, comincia con voci maschili e poi, nel suo fluire, comicia a mutare, a diventare sempre più femminile prima di esplodere in un grido liberatorio che fa a meno di ogni giudizio e di ogni morale: Viver!
Ma essere parte dei “dannati della terra” pare essere una vera e propria maledizione insopprimibile: Fernanda Farias de Albuquerque esce di galera nel ’96, comincia a lavorare per “Sensibili alle Foglie” ma ricade nella dipendenza dell’eroina e ritorna sulle strade. Per un po’ transita per la comunità di Don Gallo, poi viene sbattuta fuori dall’Italia da una polizia che, da San Paolo a Genova, risponde solo con l’odio alla povertà. Torna in Italia agli albori del nuovo millennio, e muore a Jesi il 13 maggio 2000.
Viene dichiarato “suicidio”, caso chiuso, ella dimenticata. Forse.
Nel 2009 viene fondata a Genova l’Associazione Princesa, che si occupa dei diritti delle persone trans, e nel 2014 viene dato luce al progetto princesa20, un sito che raccoglie il libro nella sua versione integrale compresa degli appunti originari di Fernanda, di letture critiche e di video documentari.
“Senza sforzo, nelle braccia del demonio, in Europa, ci si arriva a bassa voce, silenziosamente. Qui da voi, non si muore fragorosamente. Sparati o di coltello, tra urla e sforbiciate. Qui si sparisce zitti zitti in sottovoce. Silenziosamente. Sole e disperate. Di aids e di eroina. Oppure dentro una cella, impiccate a un lavandino. Come Celma, che vorrei ricordare. Dormiva nella cella a fianco, dentro quest’altro inferno dove ora vivo e che ho deciso di non raccontare”
Fernanda Farias De Albuquerque
E così questa storia sbagliata lascia le sue tracce su disco, su carta, sul web e nelle persone che vivono la comune dannazione di Fernanda: ogni storia di emarginazione è, in un domani più giusto, una storia di libertà.