La mia testa è una stanza larghissima,
un bestiario di arazzi interiori.
Tu, vieni.
Bussando sulla porta di ogni occhio
si spalancano,
fiammanti come anemoni di mare,
pop-up di nervi cerebrali.
Così eccoci nell’angolo destro, in fondo:
la prospettiva della mia stanza si arriccia
velocemente come un gatto
sotto una lampada chiamata Bluette.
Ora proseguiamo,
nell’angolo sinistro.
Divano, palla di luce,
tenda, un quadro color seppia
che ritrae Leningrado
(quando ancora si chiamava Leningrado).
E il tuo viso che tuona,
Jennifer.
Tu che calpestavi
le luci minori di Harlem
avevi in realtà un altro nome.
Tu eri di certo la protagonista
di qualche thriller psicologico
(di certo anche un po’ noir):
qui sono rimasti i tuoi occhi
a galleggiare
nelle liquide camere dell’eternità.
Tutto sopravvive,
in questo eterno presente.
Ma a mezzanotte,
nella parte più lontana di stanza,
si fa rumore.
A mezzanotte, gli Inesistenti
– i mai venuti al mondo,
i mai pensati –
scuotono mani di fiaccola
e con gli occhi piantati nella nebbia
fanno i gesti ampi dei mulini a vento,
scuotendo il grigio fumo
del crematorio di ciò che non è stato.
La mia stanza è un ventre di nuvola,
un frappè di vacillanti fuochi.
Se smettesse di girare vorticosamente,
lo spazio accanto a quel dipinto
di Keith Haring mostrerebbe il Vuoto.
Ora che ho fermato con la mano
il vortichìo della stanza,
dalla mia testa larghissima
volano fuori come frecce
cartaplani e aeroclowns.
D’ora in poi, tutto il resto,
non so più descriverlo.