Vittoria si lavava le gambe nel fiume quando abbiamo sentito il primo boato. Abbiamo visto volare le rondini, correre i conigli e i serpenti. Siamo rimaste entrambe immobili, io accovacciata nel prato, mi afferravo i gomiti con le mani. Vittoria, le gambe distese, i piedi sulla superficie dell’acqua, mi cercava con gli occhi, pieni di indifferenza. Siamo tornate a casa in silenzio, ridendo senza saperne il perché.
Prima che potessi cominciare ad avanzare congetture, Vittoria iniziò a ridere in maniera convulsa, sempre più forte, sempre più forte, così da coprire il suono già flebile delle mie parole. Decisi di rimanere in silenzio e di aspettare.
Quando arrivammo alla fattoria il cortile era già pieno di gente. C’erano i vicini, la signora col grembiule sporco di sangue e delle interiora dell’ultima bestia sgozzata. Il marito faceva “no” con la testa, che, lucida e quasi completamente pelata – se non fosse per una rada peluria ramata intorno alle orecchie e sulla nuca – si carezzava con le mani lentigginose, una passata dopo l’altra. Una donna che non avevo mai visto era stesa a terra, a faccia in giù, singhiozzando e tossendo. Ricordo di aver pensato allo sfinimento che il suo corpo doveva aver provato, tornato allo stato di quiete dopo tutti quei colpi. Vittoria sembrava non curarsi delle persone, fissava il recinto dei maiali, la cui reazione faceva una gran pena rispetto al chiasso sguaiato di quei contadini. Se ne stavano ammassati in disordine in un angolo, andavano a sbattere con le teste pesanti gli uni addosso agli altri, disorientati, trasudavano una dolcissima demenza. Dapprima la folla non si curava di noi, pensando fossimo due curiose accorse, anche loro, a carpire qualche brandello della carcassa. Poi, quando l’interesse stava ormai lentamente scemando, gli occhi gli si infuocarono, vedendo nella nostra presenza la promessa di risvolti narrativi succosi, o forse semplicemente aspettandosi qualche spettacolo patetico, che li avrebbe al contempo sessualmente appagati e affrancati dal dovere morale di piangere. La vicina, la faccia gonfia e la pelle contratta in una smorfia di dolore che la faceva sembrare una pesca matura, cercò di prendermi il viso tra le sue mani luride, “bambina mia” diceva, io mi scostai bruscamente, facendola quasi cadere a terra. A tavola, la sera, con i famigliari, dopo aver raccontato l’accaduto, mi avrebbe dato della troia, mentre si riempiva la bocca di pane. Cercavo Vittoria, seduta di fronte ai maiali, come un demone che contempla l’Apocalisse con le gambe a penzoloni sull’orlo di un baratro. Quando finalmente riuscii a raggiungerla, la gente si quietò, aspettandosi chissà quale performance.
Prima che potessimo varcare la soglia di casa, nel silenzio totale che ormai si era stabilito, fu nostro padre a uscire. Camminava a gambe larghe, muovendo la testa a destra e sinistra, guardando su e giù, la bocca semiaperta. Sembrava essere diventato cieco all’improvviso e cercasse di incamerare quanti più stimoli e immagini possibili per rimanere ancorato alle cose di sempre. La pistola gli penzolava ancora dalla mano, agganciata, inerte, all’indice e al medio. Dopo pochi passi a tentoni, si gettò verso di noi, non per amore o senso di colpa, pensai, ma piuttosto perché nel quadro umano che gli si deve essere dipinto di fronte, una volta aperta la porta, probabilmente io e mia sorella rappresentavamo la visione meno grottesca. Non seppi mai se avesse voluto abbracciarci o aggredirci, fatto sta che crollò in ginocchio, afferrando Vittoria per i capelli, a cui non smise di rimanere aggrappato, finché lei, dolorante, non riuscì a divincolarsi, per poi andarsene via, a passo spedito, chissà dove. Non la vidi per settimane.
Nel frattempo era arrivata la polizia, il cortile aveva ripreso colore, le persone e i loro belati di dolore si erano dispersi e il luogo aveva dismesso la sacralità del primo mattino. Adesso era una scena del crimine, come piaceva chiamarla agli appassionati del genere.
Mio padre fu arrestato immediatamente, non oppose resistenza e non cercò di scagionarsi. In effetti, credo non avesse mai più parlato fino al giorno in cui, pochi mesi dopo, si era tolto la vita tagliandosi la gola con un coccio di ceramica che era riuscito a ricavare dalla tazza del cesso della sua cella.
Mia madre fu sepolta non lontano da casa, in un campo che non era buono per crescere nulla, deserto e immenso, dove avrebbe potuto restarsene finalmente sola e indisturbata per tutta la durata della sua morte.
Io e Vittoria ereditammo la baracca senza troppo clamore. Cadeva a pezzi giorno dopo giorno. Le piante all’interno, beneficiando del clima umido e dell’oscurità, presero dimensioni gigantesche, straripando dai vasi e perdendo le loro forme originali, come delle bestie gravide e assetate di spazio, verdi, nere, chilometriche. I serpenti avevano trovato l’habitat perfetto, moltiplicandosi e strisciando su soffitti e pavimenti. Il cibo non finiva mai, grazie alle scorte che mio padre si era premurato di accumulare nelle dispense e nello scantinato, vedendo nell’Apocalisse un’imminenza prossima a venire. Dopo aver finito i maiali, che consumammo a una velocità sorprendente, in preda ad una fame irrefrenabile e cieca i primi mesi dall’omicidio, iniziammo a cibarci perlopiù di semi e radici, trovando appagamento nel vedere i nostri corpi deperire lentamente. Presto smettemmo di curarci dei vestiti e dell’igiene, quando realizzammo che nessuno, probabilmente, ci avrebbe mai più viste.
Infestavamo le stanze, nude e magre, assaporando intensamente la quotidiana mancanza di finalità. Non ci stavamo lasciando morire, incapaci di tollerare il peso di una tragedia troppo grande per due adolescenti, come si compiacevano di romanzare alcuni giornali che ogni tanto riuscivano a penetrare le mura di casa. Eravamo al contrario gonfie di vita, al massimo delle nostre forze fisiche, i capelli che crescevano, come liane, di diversi centimetri a settimana, gli occhi sempre più limpidi, la pelle, ormai quasi trasparente, vista la totale assenza di luce solare, sembrava plastica robusta. Ci passavamo di fianco senza neanche rendercene conto, come riflessi riverberati da un vetro rotto, portando avanti azioni di mera sussistenza, impantanate in una letargia costante e confortevole. A volte, quando un suono, un odore o un evento inaspettato ci riportavano per un attimo alla realtà degli altri, ci incontravamo di nuovo, ci prendeva una forte tenerezza e ci veniva da ridere a vederci così mutate, incantevoli.
Ci rintanavamo allora in uno dei nostri numerosi giacigli, cumuli di fieno, cuscini e stoffe, che mamma teneva accumulate in un ripostiglio, per quando la prendevano i suoi periodi compulsivi e doveva confezionare montagne di vestiti. Lì ci amavamo per ore, folli, estatiche, sfinite.
Le cose andarono avanti così, immutate, per diversi mesi, forse anni. La casa stava in piedi per miracolo, sembrava dovesse polverizzarsi da un momento all’altro. Da qualche tempo ci avevano tagliato l’elettricità e non avevamo più acqua corrente. Questo aveva inevitabilmente creato una falla nel nostro microcosmo, perché ci costringeva, a turno, a recarci al pozzo dietro alla fattoria, almeno una volta la settimana, per riempire diversi barili d’acqua. Lo facevamo di notte, quando nessuno poteva vederci o cercare di entrare in contatto con noi. All’inizio era stato facile, non eravamo mai state notate. Forse per eccesso di confidenza, iniziammo ad abbassare la guardia al punto che una sera Vittoria, esausta dopo aver cercato per ore di riparare un buco sul tetto, non riuscì ad aspettare il buio più profondo ed uscì quando il sole non era ancora del tutto tramontato. Tornando, in fretta, dal pozzo, inciampò su una radice, cadendo a terra e rovesciando l’intero contenuto d’acqua di due barili stracolmi. Fece molto rumore e la signora con la faccia da pesca si precipitò alla finestra della casa a fianco come un cane con la bava alla bocca, sicura di averci nel sacco, questa volta. Iniziò a strillare a suo marito per svegliarlo dal suo sonno di contadino, di piombo. L’uomo si alzò in un balzo, più agile che se la posta in gioco fosse stata una borsa piena di banconote o una fornitura a vita di whisky pregiato. Si infilò i pantaloni da lavoro, fradici di sudore, ed uscì nel cortile, correndo e rantolando verso Vittoria. Nonostante lei si fosse rialzata all’istante, con la prontezza di un’antilope che sta per essere addentata da un leone, lui riuscì ad afferrarla per un braccio, che strinse con forza fino a lasciarle le impronte delle sue unghie consumate e sporche impresse nella carne. Forte del successo ottenuto, e probabilmente ancora ubriaco dalla cena, dimenticandosi degli occhi della moglie fissi sulla sua schiena e infuocati, iniziò a slacciarsi i pantaloni e, presa Vittoria per i fianchi, cercò di penetrarla. Lei gli assestò un morso alla gola, cosa che istigò l’uomo a schiaffeggiarla ripetutamente e con una violenza tale da farla cadere nuovamente, di pancia, sui barili vuoti. Io assistetti allo spettacolo nascosta dietro alla finestra, terrorizzata e pietrificata dalla meraviglia, provando il gusto morboso di chi percepisca la propria condizione di benessere messa improvvisamente a repentaglio.
Fu la signora pesca che pose fine alla lotta, fiondandosi a suon di pugni su suo marito e prendendo a calci Vittoria, pazza di gelosia. Quello si piegò come un verme sotto i colpi di sua moglie e scoppiò in un fragoroso pianto, mentre Vittoria correva verso casa, quasi sfondando la porta, e in un attimo fu addosso a me, abbracciandomi fino a farmi soffocare. Non le venne mai in mente di biasimarmi per non essere intervenuta, avrebbe fatto la stessa cosa, mi disse. L’episodio non fu un caso isolato. La vicina aveva punito suo marito costringendolo a dormire nella cuccia dei cani in cortile per diversi giorni, incatenato per il collo e con una ciotola lercia per lui a malapena raggiungibile, vista la lunghezza ridotta della catena, che la moglie riempiva una volta al giorno della sbobba dei maiali. Il quadro aveva stuzzicato l’ilarità degli altri fattori e al tempo stesso aveva riaperto una questione per loro a lungo dimenticata.
Ovviamente le nostre escursioni notturne erano state messe in pausa, nella speranza che l’evento fosse presto archiviato e le nostre esistenze piombassero nuovamente nell’oblio della comunità. Approfittammo di un lungo periodo di piogge per accumulare una scorta di acqua che bastasse fino a quando non fossimo potute tornare ad avventurarci fino al pozzo, di notte. Continuammo con le nostre routine, vagando per i corridoi e cercando di salvare una casa che giorno dopo giorno, nonostante i nostri continui interventi di riparazione, perdeva di consistenza e robustezza. Le pareti sembravano essersi assottigliate di parecchi centimetri, lasciando filtrare un inverno tagliente e famelico. Anche i suoni del mondo esterno rimbombavano ora per i grossi androni, spaventando gli animali, che avevano preso a nascondersi nei numerosi anfratti della fattoria, e disturbando i nostri sonni, sempre più rari.
Una notte riuscimmo ad addormentarci più profondamente, i nostri corpi sfiniti dal gelo e dai lavori della giornata. Mi svegliai per un istante, sentendo un soffio d’aria fredda sfiorarmi il viso. Quando aprii gli occhi notai che un pezzo di vetro mancava dalla finestra e dovetti trattenermi dal vomitare nel vedere il viso scheletrico di un uomo che, le mani infilzate nei vetri rotti, il sangue che colava lungo la parete, boccheggiando, mi guardava con disperazione. Doveva essere in piedi su una scala instabile, a giudicare dall’ostinazione con cui, nonostante il dolore, si aggrappava ai bordi della voragine che aveva aperto, senza alcun rumore, nella finestra. Non osai avvicinarmi, sperando che il vento avrebbe fatto oscillare la scala al punto da farlo precipitare a terra, consentendomi di non avvicinarmi e farmi toccare. Così fu in effetti. Lo sguardo pieno di desiderio e tristezza, i dorsi delle mani completamente perforati, l’uomo sembrò lentamente perdere i sensi e, sfinito dalle scosse del vento, si lasciò cadere all’indietro, portandosi dietro due grossi cocci di vetro e la scala. Fu il tonfo a svegliare anche Vittoria. Ci sedemmo sul davanzale a contemplare la grossa macchia di sangue sul terreno e la posizione curiosa che il corpo aveva assunto nell’impatto, facendolo sembrare un burattino rotto. Il mattino seguente, ci ripromettemmo, avremmo riparato la finestra.
A partire da quella notte non avemmo quasi più un giorno di tregua. Continuamente qualche vicino o passante cercava di avvicinarsi, a volte in segreto, sperando e confidando di riuscire in qualche modo ad intrufolarsi nella cascina, che, per quanto in totale decadimento, non avrebbe reso possibile alcuna intrusione senza che noi ce ne accorgessimo. Istituimmo inoltre un severo regime di sorveglianza, che presto divenne la nostra unica occupazione. Dormivamo a turni, avevamo improvvisato delle trincee di fronte all’ingresso anteriore e posteriore, che avevamo riempito dei pochi serpenti ancora in vita, e perlopiù innocui e indeboliti dalla fame e dalla sete. Avevamo sparso trappole costruite alla buona, che non avevamo avuto tempo o modo di collaudare e della cui efficacia, pertanto, dubitavamo fortemente. Questi erano palliativi a cui ci aggrappavamo per eludere l’ormai assoluta certezza che il nostro universo sarebbe cambiato per sempre, che il nostro isolamento aveva le ore contate. Le scorte di acqua inoltre erano ridotte al minimo, calcolammo che ci sarebbero bastate appena qualche settimana ancora, centellinando le bevute. Eravamo scheletriche, disidratate, deliranti di paura, sete e sonno. Con noi, si disfaceva la casa, che in molti punti mostrava l’impalcatura di legno e le pareti tremavano ad ogni passo, ad ogni sospiro. Quelle che prima rappresentavano avventure di singoli, divennero vere e proprie spedizioni di conquista. Il cortile si riempì di folle, che a volte si accampavano per giorni, anche loro degli zombie affamati, deperiti, famelici, gli occhi incollati alla fattoria, estatici quando vedevano passare una di noi come spiriti attraverso buchi e finestre rotte. Grattavano la porta, strusciavano i loro corpi magri contro le pareti, gemevano di astinenza quando ci ritiravamo negli scantinati ad elaborare piani di salvezza.
Non fu facile prendere una decisione, deboli e incalzate così violentemente dal mondo di fuori. Pensammo di dar fuoco alla baracca e lasciarci crepare tra le fiamme. Non gli avremmo lasciato neanche un’unghia. Ci sembrò un peccato, però, cancellare così il ricordo della mamma, la sua gabbia e il suo macello. Eravamo inoltre profondamente convinte che per restituire l’edificio al suo antico splendore, o quantomeno decoro, saremmo dovute morire noi, che lo avevamo consumato fino all’osso per anni, assorbendone tutte le energie per costruire il nostro impero oscuro, fin quando ce n’erano. Esaurite queste, non potevamo che corroderci a vicenda, alimentandoci le une dell’altro, scivolando fatalmente verso l’annullamento, come la sabbia di una clessidra capovolta che corre verso il fondo. Il da farsi era evidente, e univocamente accettato. Bisognava sbrigarsi, perché alcuni di quei mostri erano ormai riusciti a entrare. Vagavano, eterei, nello spazio scuro, tra le piante e le macerie, come avevamo fatto noi per tanto tempo. Ci cercavano, come ombre che cercano i loro corpi, persi e ignari di quale fosse lo scopo finale della loro battuta di caccia. Noi ci nascondemmo come meglio potevamo, fin quando il giorno della fine, la nostra piccola Apocalisse, su cui papà tanto aveva fantasticato, non fu ineluttabile.
Ci saremmo tolte la vita a vicenda, così da farci coraggio e impedire l’una all’altra di sottrarsi al proprio dovere. Avremmo compiuto il rito nei sotterranei, più difficili da trovare. Così sarebbe passato del tempo prima che potessero iniziare a cibarsi delle nostre carni, ci saremmo assottigliate ulteriormente e decomposte, per dar loro un’ultima amara delusione.
La notte prima, genuinamente contente del finale che avevamo scritto per noi, dormimmo in pace, quasi dimentiche degli invasori, i nostri scheletri attorcigliati, pieni d’amore e di euforia. Al mio risveglio, non trovai Vittoria stesa affianco a me nel nostro giaciglio. Pensai fosse nervosa e avesse deciso di vagare ancora, forse voleva avere un ultimo momento tutto suo con la casa. Forse, addirittura, con l’animo di chi non avesse più niente da perdere, era uscita in cortile, facendosi largo tra gli zombie, e aveva respirato l’aria fresca del mattino di campagna. Decisi di rispettare la sua intimità e non la cercai. Trascorsero le ore, una strana sensazione sgradevole si stava facendo largo dentro di me, la casa prese a tremare forte, ne erano entrati di nuovi, almeno qualche decina, stimai. Fui presa da una profonda angoscia, volevo ricongiungermi a Vittoria disperatamente, in preda all’affanno, arrancando e correndo senza una logica, rifacendo sempre lo stesso giro. Dovevo sgomitare, qualche volta dovetti liberarmi dalla presa di qualcuno di quelli che erano entrati più di recente, ancora in forze, ancora parzialmente consci di cosa stessero cercando tra le nostre mura. Sudai molto e non badai più affatto a evitare il contatto coi corpi, così che la loro fame, assopita e sfumata per via dell’attesa infinita, prese velocemente nuovo vigore e divenni nuovamente irresistibile. Esausta, realizzai ed accettai quello che avevo, in fondo, capito già da molto tempo. Che sarei stata sola, alla fine di tutto, e che non ci sarebbe stata alcuna catarsi, alcuna rivincita, alcuna vittoria.
Mi fu chiaro quando le bestie avevano già iniziato ad affondare i denti nelle mie carni e quando vidi i primi brandelli di me volare fino al cielo.