Continua da Neutopia Vol. VII
Quel pomeriggio se ne sbatté di essere in anticipo e far sì che gli altri credessero alla sua presunta voglia di lavorare. Arrivò alle tredici e trenta precise, si diede una rinfrescata al viso, indossò i guanti e andò dal vecchio tornitore, lo guardò dritto in faccia e gli disse che voleva fare qualcosa di diverso, si era stancato di pulire, voleva tornire e dimostrare a tutti, soprattutto a se stesso, di potercela fare. L’anziano strinse un cilindro di ottone nel mandrino, gli chiese di avvicinarsi e, durante la lavorazione, gli spiegò nei minimi particolari come avrebbe dovuto procedere. Elia osservava e seguiva con attenzione ogni movimento e ogni parola del vecchio; il suo viso riprese colore e quando la punta in widia asportava i trucioli sotto il getto d’olio emulsionato, le sue pupille si allargavano coprendogli il grigio-verde dell’iride.
– Fai tu – gli disse il tornitore allontanandosi.
Sbagliò tutto. I cilindri erano stati lucidati male e la maggior parte era da buttare. Il vecchio, una volta tornato, non ebbe la forza di arrabbiarsi e nemmeno di guardarlo in faccia. Il capo li raggiunse, camminava avanti e indietro sperando di scaricare nel minor tempo possibile la rabbia che gli si arrampicava dai piedi fin sopra la testa. Si avvicinò al giovane, lo prese per le spalle e lo trascinò in ufficio dove c’era la segretaria che, appena li vide entrare, accennò un lieve sorriso. Elia si sedette con una mano appoggiata alla fronte e l’altra in tasca; gli tremavano le viscere e riprese a sentirsi l’animo e le gambe spezzate.
Il titolare gli chiese se ci fosse qualche problema. Disse che lo capiva, non aveva esperienza, era normale che fosse distratto e impacciato; restava il fatto che in pochissimo tempo aveva rischiato di sfasciare un macchinario costosissimo e farsi male.
– Che vogliamo fare? – gli chiese.
Elia non rispose, aveva lo sguardo fisso sul pavimento, sembrava non gli importasse nulla del motivo per il quale si trovava lì.
Il titolare si alzò, aprì la porta e gli chiese di farsi dare uno straccio e di pulire da cima a fondo un’enorme pressa piegatrice appena arrivata dalla Turchia.
Il macchinario da tirare a lucido stava in un angolo lontano dagli occhi di tutti, sotto il carroponte e vicino a un portone che si affacciava su un vasto campo coltivato a grano e segale. Non c’era nemmeno un recinto; bastava poco per scomparire senza che nessuno se ne accorgesse.
Tra una passata di straccio e una spruzzata d’alcol sulla lama in acciaio il giovane si accendeva una sigaretta sperando che il turno finisse in fretta. Da un angolo sbucò l’operaio quarantenne che lo aveva beccato in quel precedente tentativo di fuga. Chiese a Elia se era tutto a posto e se gli sarebbe piaciuto scappare tra i campi e non tornare, essere libero di poter fare quello che voleva e in qualunque momento della giornata.
– Tieni – gli disse porgendogli una sigaretta. Gliel’accese e tornò nella sua postazione.
A fine turno il capo richiamò il giovane in ufficio.
Prima lo invitò a darsi una pulita e a cambiarsi. Poi lo fece sedere di nuovo e gli chiese come stava. Elia rispose che non c’erano problemi, voleva impegnarsi ed evitare di commettere certi errori, gli serviva tempo e si sarebbe dato da fare ogni giorno per migliorare.
– Non ti ritengo idoneo per continuare, ma sono sicuro troverai di meglio, hai sedici anni e tutta la vita davanti – gli disse estraendo delle banconote dalla tasca della tuta da lavoro. Elia le prese, se le infilò nel pacchetto di sigarette, si diresse negli spogliatoi e svuotò l’armadietto.
A casa fece finta di nulla. Il padre era seduto sul divano in salotto, guardava un film con una sigaretta in una mano e una tazza di caffè nell’altra. La madre era appena tornata dal supermercato; ordinò al figlio di darsi una mossa a tirare fuori la spesa dai sacchetti.
Misero la carne nel freezer, la pasta nella credenza sopra i fornelli in cucina, la marmellata nell’armadio, e il pane sul ripiano vicino alla finestra che si affacciava sul cortile.
Il padre non aveva fame, ribadì che non voleva essere disturbato e che si sarebbe mangiato qualcosa più tardi, dopodiché si richiuse in salotto.
Elia cercava le parole giuste per affrontare il discorso sul lavoro, ma la madre sembrava in un’altra dimensione, non lo guardava neanche in faccia, teneva gli occhi bassi come stesse contando le formiche sul pavimento.
Si sedettero a tavola senza accendere il televisore. Mangiarono spaghetti in bianco, bastoncini di merluzzo e tonno in scatola. Elia andò in bagno, si fece una doccia e, una volta tornato al piano di sotto, disse che sarebbe uscito a sgranchirsi le gambe. La madre acconsentì.
Uscito di casa passò dai giardinetti, si sedette su una panchina accendendosi una sigaretta e, una volta consumata, se ne andò verso la provinciale. Al semaforo attraversò la strada, svoltò a destra e raggiunse la pensilina dei pullman. Il cielo era ancora chiaro; si guardò attorno con un’altra sigaretta in bocca e, non vedendo nessun mezzo arrivare, s’incamminò verso il centro del paese.
Davanti al bar Democrazia c’era uno dei tre ragazzi con cui si era sbronzato. Fece per nascondersi dietro un furgone parcheggiato, ma il ragazzo lo vide e gli andò incontro chiamandolo a voce alta; finse di volerlo schiaffeggiare, poi lo strinse tra le braccia e rise.
– Vieni – gli disse.
Salirono sul cinquantino e, senza casco, partirono alla volta dei Mulini bassi. Lasciarono il mezzo tra le erbacce che costeggiavano il fiume, fecero a piedi un vialetto sterrato, delimitato da un muro di pietra. All’altezza di una grotta c’era un tizio che li guardava immobile: robusto, giacca in pelle, cappellino bianco e pizzetto.
Elia si fermò qualche metro prima. Francesco gli chiese di aspettare, avrebbe sistemato lui.
Si scambiarono qualcosa e, dopo essersi stretti la mano, si separarono.
Francesco estrasse dal portafoglio un quadratino di cartone con sopra stampato il volto di un bambino, lo divise a metà e, – Apri la bocca – disse a Elia. Poi glielo appoggiò sulla lingua e gli chiese di ingoiarlo.
Tornarono al bar, si sedettero al tavolo vicino ai video poker, c’era molta gente e i posti a sedere erano quasi tutti occupati. Chiamarono la cameriera, lei si avvicinò a loro, diede un bacio sulla fronte a Elia e gli chiese se si fosse ripreso; lui arrossì senza nemmeno avere il coraggio di guardarla in faccia. Francesco le accarezzò il dorso della mano e, guardandole il seno e l’inguine, ordinò mezzo litro di vino bianco secco; lei gli strinse la mano, e tornò ad occuparsi della sala non prima di aver portato loro il vino. Bevvero un paio di bicchieri a testa, Elia fece per alzarsi ma crollò sulla sedia, non sentiva bene le gambe e aveva la vista appannata. Si alzò di nuovo e cercò di raggiungere il bagno senza riuscirci; tutti lo guardavano male, tranne la cameriera. Lei, ogni volta che lui le passava accanto, faceva delle smorfie seguite da una strizzata d’occhio.
Uscirono a testa bassa e a braccetto per prendere una boccata d’aria; chiesero una sigaretta a un passante e lo ringraziarono ancora prima di ricevere risposta. L’uomo si fermò, mise le mani in tasca, estrasse un pacchetto, lo aprì: era vuoto; Francesco glielo strappò di mano e lo lanciò verso Elia, che lo prese a calci. Il passante, invece di reagire provocando una rissa, se ne andò e i due rimasero immobili a guardarlo scomparire dietro l’angolo di una palazzina in fondo alla strada. A quel punto, si guardarono e rimasero colpiti l’uno dall’aspetto dell’altro. Francesco, oltre ad avere gli occhi esageratamente lucidi, era tirato in volto, malfermo sulle gambe, faticava a parlare; Elia aveva la pelle della faccia olivastra, gli occhi scavati e grondanti di lacrime, la mascella in continuo movimento, le narici arrossate e i capelli scarmigliati; camminava verso l’entrata del locale, poi ci ripensava e tornava indietro. Infine Francesco, smascellando, spinse la porta e rientrò. Cambiarono posto, si accomodarono a un tavolo vicino ai bagni, c’era tanfo, ma non gli interessava; volevano stare appartati, lontano da tutti. La cameriera tornò da loro.
– Altro ragazzi?
– Birra – disse Elia alzandosi in piedi.
Appesi al muro c’erano dei quadri raffiguranti scene di caccia e campi coltivati a grano e bambù. Il ragazzo rimase immobile a fissare i dipinti. Era incuriosito dagli animali in fuga, dai cacciatori che imbracciavano balestre e fucili, dai contadini avvinazzati, e dalle ragazze che aspettavano solo di essere prese nelle stalle o nei pollai tra galli e tacchini; nel frattempo pensava a come sarebbe rientrato in casa: dalla porta sul retro dopo aver lasciato le scarpe fuori. Poi si sarebbe infilato sotto le coperte senza passare dal bagno e, qualche ora dopo, avrebbe ammesso di essere stato cacciato dal lavoro.
Francesco emetteva un grugnito dopo l’altro e di andare a casa non ne voleva sapere; si mise di fianco all’amico sotto lo sguardo stranito di una tavolata di ragazzi che erano seduti a pochi metri. Elia propose di contare tutti i personaggi dei quadri, lui si sarebbe occupato dei cacciatori e l’amico degli animali in fuga. La cameriera, Eleonora, con un vassoio vuoto in mano, sussurrò qualcosa all’orecchio di Francesco, lui annuì e – Venti – disse ad alta voce dopo averle passato il palmo della mano su un fianco. Elia non aveva ancora finito, i colori erano spenti, non riusciva a capire quanti fossero, alcuni sembravano scomparire e riapparire, altri nascondersi dietro gli alberi e i cespugli, altri ancora sembravano addirittura muoversi da una parte all’altra del paesaggio, come volessero sfondare la cornice, spalancare la porta del locale, correre per strada e sparire al di là della provinciale. Anche lui faticava ad aprire la bocca e a parlare, si guardava attorno, poi tornava sul dipinto e con le dita si strofinava la testa; si sentiva addosso gli sguardi dei ragazzi della tavolata. Aveva bisogno di qualcuno al suo fianco.
Eleonora gli andò incontro, avvicinò la bocca al suo orecchio e gli chiese di sedersi. Lo prese per un braccio e lo accompagnò al suo posto; sorrideva e lo guardava dritto negli occhi. Sembrava gli volesse sfondare le pupille. Lui non aveva nemmeno il coraggio di dirle “grazie”, assecondare i suoi teneri gesti. Strofinò il braccio contro il suo seno, si sforzò di dire qualcosa, ma non riuscendo ad emettere alcun suono, le strinse il polso e, dopo aver dato un’ultima occhiata ai quadri e ai ragazzi della tavolata, si sedette.
Eleonora tornò dietro il bancone, sciacquò a mano le tazzine incrostate di zucchero e caffè e le mise nella lavastoviglie insieme ai bicchieri. Elia la tampinava da lontano, aveva i bollori in faccia e sentiva una palla d’energia espandersi all’altezza dello stomaco, aveva paura di esplodere, era come se ci fosse un’altra persona dentro di sé che voleva uscire e arrampicarsi sui muri o, peggio ancora, sfondarli a pugni e a craniate. Non gli veniva più da ridere, avrebbe voluto alzarsi in piedi, andare dai ragazzi della tavolata, dirgli di non guardarlo più e di sparire. Si sentiva deriso.
Francesco finì la sua birra in una sorsata. Toccò il braccio di Elia e gli indicò uno dei quadri col dito. Elia scosse la testa, afferrò il suo bicchiere ancora pieno e lo svuotò anche lui in un colpo solo.
Giuliano arrivò alle undici. Ordinò un altro mezzo litro di vino bianco e, prima di sedersi coi due, diede un bacio a Eleonora. Lei gli disse qualcosa all’orecchio, poi tornò ad asciugare i bicchieri sorridendo agli ultimi clienti che si apprestavano ad uscire; pulì la macchinetta del caffè, dopodiché riempì un secchio incrostato con acqua bollente e ammoniaca profumata.
Il titolare del bar uscì dalla cucina, le diede un’occhiata e la pregò di levarsi di mezzo, si sarebbe occupato lui dell’angolo bar; lei avrebbe pensato a sparecchiare la sala e a lavare i pavimenti. Giuliano lo salutò ad alta voce e gli chiese se potevano rimanere ancora un po’. L’uomo rispose che non c’era nessun problema, avrebbero potuto anche fumare un pacchetto intero di sigarette, data la mole di lavoro che dovevano ancora sbrigare.
Francesco ed Elia guardavano in continuazione i quadri. Giuliano chiese loro che problema avessero.
– Contiamo – risposero i due.
Francesco aveva riacquistato il dono della parola. Da quando Giuliano era entrato, sembrava un altro. Cambiò espressione del viso, smise di emettere grugniti, di mordersi le labbra e di accarezzare col palmo della mano la superficie del tavolo. Elia svuotò il secondo bicchiere di vino e, dopo essersi stancato nuovamente di contare, chiese a Eleonora se poteva darle una mano, non riusciva a stare fermo, i pensieri avevano acquistato un’intensità difficile da gestire.
Giuliano gli posò una mano tra il collo e la spalla, poi gli diede un buffetto sulla guancia. Eleonora, nel frattempo, aveva già sparecchiato e pulito i tavoli di tutta la sala. Nel locale erano rimasti solo loro. Elia chiese dove sarebbero andati dopo e cosa avrebbero fatto. Giuliano rispose che sarebbero andati da lui.
– I miei non ci sono – disse.
Francesco si alzò: occhi cerchiati di rosso cosparsi di macchioline luminose, pelle del viso giallastra come le dita di un fumatore accanito. Si mise ancora una volta sotto i quadri.
– Diciotto – disse.
Elia, guardandolo, sentenziò che era impossibile. Venti. Erano sicuramente venti i cacciatori.
– Alcuni sono nascosti dietro gli alberi e nel bosco – precisò lui.
Giuliano lo tirò per la maglietta facendolo crollare sulla sedia.
– Usciamo.
Il padrone del bar li guardava serio con un gomito appoggiato alla spillatrice. Non voleva più che rimanessero.
Una volta fuori, si misero sotto i portici di fronte a un parcheggio. Alle loro spalle c’erano le scuole medie. Giuliano tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un pacchetto di sigarette. Lo aprì e ne diede una a Elia, che non riusciva ad accenderla, gli scivolava l’accendino dalle mani. Giuliano si mise a ridere, Francesco lo guardava dondolando sulle gambe e strofinandosi il palmo delle mani sul petto.
Eleonora uscì dal bar da una porta laterale. Indossava dei pantaloni elasticizzati che le valorizzavano i fianchi, una maglietta a maniche corte attillata, scarpe da ginnastica senza lacci, borsa di finta pelle a tracolla.
Giuliano offrì una sigaretta anche a lei, che si mise vicino a Elia.
Dieci minuti dopo, a parte Francesco che era in motorino, salirono sull’utilitaria bianca della ragazza.
Casa di Giuliano stava al quarto piano di un palazzo coi mattoni a vista che sovrastava il centro sportivo del paese. L’ascensore era rotto. Giuliano mise un braccio attorno al collo di Francesco, che aveva la faccia deformata e, da gialla, era diventata verdastra.
Appesi ai muri di ogni piano, tra una rampa di scale e l’altra, c’erano degli enormi specchi ossidati con delle cornici in legno lavorato, le porte degli appartamenti sembravano essere state rigate dalla lama di una spada, i citofoni non avevano nome – alcuni erano sventrati – gli zerbini erano lerci, i muri pieni di macchie grigiastre e rigonfiamenti.
Eleonora aveva la mano gelida e stringeva con forza quella di Elia che, ancora, non era riuscito ad intavolare un discorso o a guardarla in faccia per più di qualche minuto, ma lei non sembrava darci troppo peso; aveva capito che era introverso e riflessivo.
Una volta entrati in casa, lei si allontanò da Elia e corse in bagno senza chiedere il permesso. Elia rimase impalato a guardarla sparire dietro la porta in fondo al corridoio; non la chiuse nemmeno bene, l’accostò solamente. Sarebbe bastata una spinta. L’avrebbe potuta guardare a gambe aperte. Lei non si sarebbe stranita, gli avrebbe sorriso e chiesto di passarle la carta igienica e il detergente. Poi, dopo averle teso la mano, l’avrebbe accompagnata dagli altri in salotto.
– Che fai? – chiese Giuliano.
Elia fece un sussulto e lo raggiunse senza distogliere lo sguardo dalla porta del bagno. Francesco era in piedi di fronte alla finestra, aveva gli occhi fissi sulla macchina di Eleonora nel parcheggio. Giuliano estrasse dal portafogli una pallina bianca. La aprì coi denti e la svuotò su un piatto. Chiese a Francesco di arrotolare una banconota e a Elia di accomodarsi dove preferiva.
Eleonora tornò dal bagno e si sedette a gambe incrociate sul divano; si era tolta le scarpe. Dalla cucina sbucò un gatto dal pelo lercio. Salì anche lui sul divano. La ragazza chiese ad Elia di mettersi accanto a lei.
Giuliano, dopo aver fatto le strisce, chiese a Elia di alzarsi e tirare. Elia scosse la testa, non voleva, – Sono a posto – disse stringendo il polso di Eleonora.
Giuliano scosse la testa e diede un’occhiata a Francesco che, senza fiatare, si fece una botta; dopodiché tornò davanti alla finestra a guardare i lampioni che illuminavano i parcheggi.
Eleonora si alzò, si fece anche lei una riga, sussurrò qualcosa a Giuliano e, dopo aver baciato sulla fronte Elia, uscì dal salotto.
Le avrebbe stretto le labbra con le dita avvicinando la punta del naso al suo collo per sentirne il profumo; poi le avrebbe tastato le cosce, le avrebbe scoperto la pancia chiedendole di spogliarsi e, una volta nuda, l’avrebbe guardata dalla punta dei piedi fin sopra ai capelli.
Giuliano prese una bottiglia di liquore e quattro bicchieri da un mobile. Li riempì e chiese ai due amici di bere. Elia si alzò con lo sguardo verso il corridoio. Giuliano e Francesco lo guardavano sorridenti, – Salute – dissero in coro. Francesco si fece un’altra riga, Giuliano riempì ancora i bicchieri. Elia sentiva che avrebbe potuto bere per due giorni di fila senza sentire niente; bere in acido era bello, se avesse potuto si sarebbe portato via un paio di bottiglie di grappa e le avrebbe svuotate in una decina di sorsi nell’androne del palazzo.
Giuliano e Francesco parlavano tra loro a bassa voce; poi alzavano il tono e, nominando Eleonora, –Ti piace? – chiedevano a Elia. Lui rispondeva che non lo sapeva. Loro scoppiarono a ridere e lo spinsero facendolo crollare sul bracciolo del divano; lui si rialzò, ma loro lo ributtarono giù. Gli veniva da piangere, non sapeva se rimanere o andarsene sbattendo la porta, camminare fino a casa stando bene attento a non farsi vedere in quelle condizioni; non riusciva nemmeno più a sentire gli odori, la stanza cambiò forma e dimensione, i soprammobili sembravano muoversi, alcuni addirittura scomparvero come Eleonora; Giuliano saltellava da fermo tastandosi l’inguine, Francesco lo fissava immobile con lo sguardo allucinato e con la pelle del viso che aveva cambiato un’altra volta tonalità: bluastra.
Elia si rialzò cercando di raggiungere la stanza in cui si era infilata la ragazza. Giuliano gli si parò davanti e lo spinse indietro.
– Dove vai?
– In bagno – rispose Elia.
Giuliano lo accompagnò chiedendogli se stesse bene. Elia non rispose, si chiuse dentro a chiave.
Le pareti erano ricoperte di piastrelle raffiguranti paesaggi marini. Elia fece il possibile per evitare di guardarsi allo specchio, sentiva che la sua stessa immagine riflessa lo avrebbe spaventato. Pensava a Eleonora in continuazione. Forse lo aspettava sdraiata sul letto della stanza a fianco o, forse, era solo addormentata e si sarebbe risvegliata all’alba.
Tirò lo sciacquone e, cercando di evitare lo specchio, aprì il rubinetto. L’acqua era fredda, fece un sussulto. Si lavò mani e faccia con gli occhi chiusi ed uscì gocciolante.
Anche il corridoio gli parve cambiato. Vide un quadro appeso vicino all’entrata: colori sgargianti, cavalli e uomini stilizzati in posizioni innaturali. Voleva avvicinarsi per guardare meglio l’opera, ma pensò sarebbe stato meglio tornare dagli altri; in realtà avrebbe voluto stare solo con la ragazza, trovare il coraggio di ascoltarla parlare fino al mattino e fingere di capire tutto quello che diceva o, meglio ancora, entrarle dentro e starle addosso.
In salotto non c’era più nessuno, solo il gatto. Elia guardò fuori dalla finestra. La macchina di Eleonora e il motorino di Francesco erano ancora nel parcheggio. Prese la bottiglia di amaro e riempì uno dei bicchieri. Lo svuotò in un sorso e si rimise sul divano. Guardava la parete spoglia davanti a lui mordendosi nervosamente un labbro e tastandosi l’inguine con una mano. Si alzò più volte per bere. L’alcol gli scivolava in gola come aranciata fresca.
Francesco si rifece vivo, aveva i pantaloni slacciati e un fazzoletto di carta in mano. Fece un cenno con la testa all’amico e, anche lui, bevve dopo essersi acceso una sigaretta, prese un’altra pallina e la svuotò sul piatto. Stese altre quattro strisce, se ne fece una e, dopo aver guardato il soffitto ed essersi stropicciato il naso con le dita, si sedette di fianco al gatto.
Elia si alzò e si mise di fronte a una delle porte in corridoio. Francesco gli disse di tornare indietro. Elia fece per aprirla, era chiusa a chiave, appoggiò l’orecchio, sentiva dei respiri. Francesco gli ripeté di tornare indietro e starsene buono.
Elia sentì dei passi e la chiave che girava nella toppa; corse in bagno e si richiuse dentro sbattendo la porta. Una volta dentro incrociò la sua immagine riflessa: naso enorme, narici arrossate, occhiaie scure, guance scavate, pelle grigiastra, bava agli angoli della bocca, fronte bagnata.
Giuliano cercò di entrare, bussò due volte; Elia non rispose, era disgustato dal suo aspetto. Aprì l’acqua, si passò le mani sui capelli e in faccia sperando che l’acqua potesse migliorarlo.
Dieci minuti dopo uscì. Giuliano era seduto su una sedia coi gomiti appoggiati al tavolo, a petto nudo e in mutande. La bottiglia di amaro era vuota. Chiese a Elia perché fosse stato tanto al cesso. Lui rispose che non si sentiva bene, aveva le vertigini e il voltastomaco. Eleonora non era ancora uscita dalla stanza; la voleva vedere, abbracciare, sentire le sue labbra morbide sulla faccia, sul collo, sulla fronte, lasciarsi toccare, venirle su un fianco, e andarsene, a piedi, solo e aspettando lo schiarire del cielo e il cinguettio delle rondini. Si sarebbe calato dalla finestra se solo avesse avuto tra le mani una corda. I due lo fissavano come se fosse un intruso, uno che non c’entrava niente con le loro particolari abitudini e serate.
Eleonora riapparve. Uscì dalla stanza silenziosamente. Nessuno, a parte Elia, sembrava essersi accorto della sua presenza. Indossava reggiseno e pantaloni corti. Diede un’occhiata ai tre e, dopo essersi fatta l’ennesima striscia, andò in cucina, prese una birra, tornò in salotto. Si accese una sigaretta appoggiata al muro e con lo sguardo verso il gatto che ancora dormiva e continuava a fottersene di tutto e tutti: dei rumori, del fumo, dell’intonaco che cambiava in continuazione colore, del tremolio dei mobili, e delle pareti che parevano restringersi. Si avvicinò al tavolo, passò da bere a Giuliano, prese in mano il piatto e lo pulì con la lingua.
Elia si strinse ancora l’inguine con tutte e due le mani; Giuliano si alzò in piedi, strinse il polso della ragazza, le infilò la lingua in bocca e la spinse verso la camera da letto. Si faceva trascinare da una stanza all’altra come se niente fosse: un burattino ricoperto di pelle liscia e chiarissima, un ammasso di fasce muscolari e vene rigonfie su cui sfogarsi; un gioco da scuotere, aprire e cospargere di saliva.
Elia si tirò in piedi a fatica, tremava. Si diresse ancora una volta davanti alla stanza di Giuliano. Aprì la porta, Eleonora era nuda e si muoveva su e giù con le mani aggrappate al petto dell’amico. Francesco lo tirò per la maglietta facendolo sbattere contro il muro del corridoio. Giuliano gli urlò di unirsi a loro e non perdersi l’apice della scopata; poi lo insultò.
Tornò a casa all’una. Lo accompagnò Francesco in motorino. Entrò dalla porta sul retro. Le luci erano spente e gli alberi nel vialetto sembravano respirare, perfino il noce morto su cui si arrampicava da piccolo sembrava essersi risvegliato.
Accese la luce della cucina e riempì un bicchiere con dell’acqua del rubinetto, non aveva sete ma sentiva di dover fare qualcosa pur di non andare a letto; non ci sarebbe riuscito, era conciato male e i pensieri gli rimbalzavano da una parete all’altra del cervello. Decise di salire al piano di sopra dopo aver sputato nel lavandino e sul muro. Mentre saliva le scale si passava le dita sotto gli occhi umidi, aveva le guance rigate come una maschera di pongo che doveva essere ancora rifinita. Spinse leggermente la porta della camera dei genitori. Sentiva i respiri profondi, il bisbigliare di suo padre e il gemere di sua madre. Era buio, vedeva solo il dito di sua madre puntato verso di lui, come a dirgli “Vattene, sparisci”.
Accostò la porta, entrò in bagno e si mise davanti allo specchio. Il suo sguardo era migliorato: la pelle del viso aveva ripreso colore. Si diede una sciacquata e confuse l’immagine del corpo di sua madre con quello di Eleonora; suo padre e Giuliano erano un tutt’uno e avevano i muscoli di gambe e braccia tirati, lo stesso colore di capelli e taglio, gli occhi di ceramica, il volto ricoperto di vernice scura, le mani cosparse di vene pulsanti, le dita tronche e sporche d’olio motore e benzina.
Tornò al piano di sotto. I genitori avevano smesso di sospirare.
In cucina prese una bottiglia di plastica vuota e sputò nuovamente nel lavandino e sul muro.
Indossò un cappellino scuro, imbracciò lo zaino, uscì dal retro e andò in garage. Vicino alla ruota anteriore della macchina c’era una tanica sporca. Riempì la bottiglia, fece il vialetto e, al posto di uscire in strada, s’incammino nella boscaglia dietro casa fino a sbucare al limitare della provinciale che spaccava in due il paese. Prima di attraversare guardò le finestre delle case vicine e delle palazzine, nessuna era illuminata. Gli appartamenti erano bui e la maggior parte delle serrande erano chiuse.
Il semaforo era arancione e lampeggiante, non c’erano macchine di passaggio e nessuno che portava il cane a pisciare. Percorse via Lambro e, dopo essersi fermato un paio di volte in preda alla voglia di tornare indietro, si trovò davanti al centro sportivo; girò a destra e si mise a camminare velocemente fino ad arrivare nel parcheggio sotto al palazzo di Giuliano. Guardò verso la finestra. Era spalancata e buttava luce rossastra, come andasse tutto a fuoco.
Fuoco.
Aprì lo zaino, s’inginocchiò dietro l’utilitaria bianca di Eleonora, trattenne il fiato, si parlò addosso ancora una volta e, dopo aver tirato fuori dalla tasca l’accendino di suo padre, cosparse l’auto di benzina.