I soggetti ritratti in questa immagine sono morti, tutti tranne uno.
L’uomo è sulla trentina, ha i baffi e tiene in braccio un fagotto avvolto in una coperta verde, da cui spunta la testa di un infante con un ciuffo di capelli rossi. Alla loro sinistra, una donna sulla sessantina, corpulenta e vestita di scuro con capelli ricci dello stesso rosso. Alla loro destra, una ragazza di qualche anno più giovane dell’uomo. Èmora e bellissima, anche lei sorregge il piccolo malloppo con una mano. Sono tutti in piedi, a parte l’infante.
Li sto osservando, sono distanti da me circa due metri, al centro di un corridoio incrocio: stanza a sinistra, stanza in fondo, forse una stanza sulla destra, non lo so, lo stipite di una porta mi blocca lo sguardo.
Il rosso e il verde sono gli unici colori vivi. Tutto il resto ha i toni del grigio.
Non è un’istantanea, vedo il sorriso di quella che sembra una bambina quando rotea la testa verso di me, come in un’immagine a doppio riflesso, di quelle in regalo nelle confezioni di merendine, applicate su un righello o una figurina, in cui la luce mostra due scene diverse a seconda dell’angolazione con cui l’occhio le guarda: profilo di neonata, sorriso di neonata, profilo, sorriso, profilo, sorriso. Tutto il resto è immobile. Però la mia prospettiva non cambia angolazione. Io non mi muovo: ho venti, trenta, quarant’anni. Sono felice, sono triste, sono apatica, ma non mi sposto. Le mie impressioni sono sempre uguali guardando questa scena, questo ricordo di cui nessuno mi ha mai parlato.
Non ci sono filmati né fotografie. Niente prove, solo intima certezza.
La bambina sono io, lì ho sette mesi. Aggiungo a questo ricordo vergine il sorriso dolce ma imbarazzato di Gemma, mia madre, che non avrebbe voluto trovarsi lì, accanto alla tremenda suocera. In quell’attimo non sapeva che un’emorragia cerebrale le avrebbe spappolato mezzo cervello a cinquantotto anni, lasciandola viva ma completamente disabile per altri dieci anni in cui avrebbe capito tutto, ma non sarebbe riuscita a esprimersi a parole in maniera comprensibile, a camminare, a provvedere ai propri bisogni primari per la sopravvivenza, che a ogni cambio di pannolone il suo pudore già estremo sarebbe diventato vergogna e che sarebbe tornata neonata; l’espressione un po’ arcigna di mia nonna anche in quel momento: è la prima volta che incontra la sua prima nipote e sarà anche l’ultima, visto che morirà pochi mesi dopo a causa di un cancro al colon; manca solo il sorriso orgoglioso di Francesco, mio padre, la sua espressione di estatica felicità. Ignora che il suo demone prenderà il sopravvento e che morirà solo, alcolizzato e con la lettera dell’Inps, che ha finalmente accolto la richiesta per la pensione d’invalidità mentale, in mano.
Riapro gli occhi. Perché questa immersione appena sveglia, questo viaggio alla ricerca del ricordo più lontano nel tempo? Forse è stato il silenzio. Adesso è costante, qualche abbaiare di cane, qualche vicino che bestemmia e niente più. Ormai è un anno, è diventato normale. Forse è stato il sogno: ultimo piano di un grattacielo altissimo di vetro, tutto inizia a tremare, il pavimento sotto i piedi sta per spaccarsi, io e un signore con la pancia, in giacca e cravatta, appoggiato a un muro bianco con le braccia stese come un Cristo in croce, ci guardiamo: – È troppo alto, qua sta per crollare tutto! – mi dice, ma non ci agitiamo più di tanto. Se deve essere, sia.
Ma no, certo, ecco! Tutta colpa della busta biodegradabile sotto il letto. Odora di materiale organico e liquirizia, odora di contemporaneità. Le particelle sono state sparate a razzo dalla busta verde bio direttamente ai recettori della corteccia olfattiva del mio cervello senza passare per il talamo, nessuna mediazione preconcetta, dritte dritte verso la memoria dell’ippocampo e l’amigdala delle emozioni per conficcarsi come frecce nel cuore. L’olfatto, il più primitivo dei sensi, ha innescato questa piccola ricerca del tempo perduto: la pelle di mia madre, adesso che ricordo, sapeva di liquirizia. E anche di qualcos’altro che non riesco ad afferrare.
Sdraiata nel letto, nel mio limbo senza soluzione di continuità, penso al fatto che pochi giorni fa qualche umano è atterrato su Marte.
Ho visto delle immagini, terra rossa e crateri, è come lo immaginavo. Quello che proprio non riesco a immaginare invece è l’odore. Chissà che odore ha il pianeta della guerra, chissà se anche su Marte c’è qualcosa che profuma di liquirizia.