Capitolo III – Le onde del destino
La porta del taxi si era chiusa con uno schiocco sordo e lei aveva mormorato un indirizzo. Il profumo di cocco e lavanda si era propagato nell’abitacolo arrivando fino alle narici di Mohamed che, professionale, l’aveva osservata attraverso lo specchietto retrovisore e aveva affondato il piede sull’acceleratore. Subito dopo la partenza dell’auto la donna aveva sbottonato la camicia di seta, verde acqua, e aveva cominciato ad aggiustarsi il reggiseno color panna. L’auto procedeva a ritmo di crociera mentre lui la osservava.

Mi avevano detto che era normale mettersi a proprio agio su un taxi, aveva scherzato la donna, per nulla imbarazzata, quando si era accorta che Mohamed le fissava le tette.
I genitori di Rowena si erano trasferiti in California quando lei aveva sette anni; aveva raccontato mentre era alle prese con l’aerodinamica del reggiseno.
Arrivati a destinazione il taxi aveva accostato, con il motore acceso. Mohamed sorridente aveva intascato la corsa; Rowena gli aveva sventolato sotto il naso un assegno. Lui lo aveva afferrato, senza girarsi, e lo aveva roteato tra le mani.
– Devi solo consegnare questa lettera.
Mohamed aveva soppesato il plico, fissandole la scollatura.
Lei aveva maneggiato l’incartamento con lunghi guanti bianchi.
Mohamed aveva osservato il suo nome, inciso come beneficiario, e aveva annuito.
Rowena lo aveva ringraziato, aveva mostrato il tesoro della sua scollatura per l’ultima volta, si era riabbottonata la camicia ed era scesa dal taxi.
Mohamed aveva tre figli, due di loro non li vedeva da nove anni. Una volta all’anno, se era fortunato, mandava loro dei soldi; il più grande, Aboubaka, aveva raggiunto buoni risultati e gli aveva chiesto di poter frequentare il college.
Prima di scendere dalla macchina aveva impugnato il telefono:
– Pam? Preparati, ci prendiamo una vacanza. Ho appena ricevuto cinquemila dollari di mancia.
Senza immischiarsi negli affari altrui avrebbe potuto incassare quell’assegno, inviarne metà ai suoi figli, e godersi un weekend a Las Vegas.
Se non fosse entrato in quella villa, sarebbe rimasto in California, a guidare il taxi e a progettare il futuro.
Invece scese dall’auto e suonò il campanello.
Capitolo IV – Il rientro

Appoggio la bottiglia sul tavolino, il sole è sparito oltre il mare. Daphne, la nostra amica, ci ha lasciato due birre fa. La proprietaria del piccolo chiringuito sulla spiaggia mi chiede se ne voglio un’altra. Il mio fegato da alcolista accetta; non sono ancora sbronzo e ho pisciato solo due volte: posso reggerne altre tre. Il mio cervello, dal luogo che gestisce tutte le mie dipendenze, brama un’altra bottiglia. Ma sono le 8.12 pm. Non c’è tempo; il coprifuoco scatta alle 9.30pm. Siamo usciti senza auto e dobbiamo trovare un taxi o un kehkeh, per rientrare a casa. Rifiutiamo, la abbracciamo, e ci avviamo sul lungomare, in attesa del mezzo che ci accompagni.
Il traffico è scarso, qualche rivenditore di sigarette si affretta sulla strada; non c’è illuminazione pubblica, solo quella dei bar, alle nove sarà tutto buio.
Cosa potrebbe accadere se ci trovassero in giro?
Punizioni corporali o una multa?
Un volenteroso autista di kehkeh va nella nostra direzione e si accontenta di un euro. Le nuove limitazioni gli impediscono di portare più di due persone alla volta. Abigail si sistema e poi salgo io.
Sono le 8.24 pm, riusciremo a rientrare in tempo?
Una vecchia motocicletta, residuato della guerra civile, con la marmitta sfondata dai troppi sforzi, ci oltrepassa assordandoci. Sobbalza in prossimità del piccolo dosso all’ingresso dell’Atlantic Hotel e, dopo il salto, accelera ancora.
– Quello si va a schiantare, dice l’autista. Con questa paura del coprifuoco per arrivare prima a casa passano la notte fuori:in caserma, conclude.
Il fuoristrada nero che arriva in direzione opposta suona il clacson. Entrambi stanno correndo. Temono la punizione.
Il motociclista non vede l’auto e, lento, si dirige sull’altra corsia. Il suono del clacson assordante.;il rumore della frenata; L’auto sterza per evitare l’impatto.
Poi la moto si conficca nel muso del fuoristrada.
La Land Cruiser non fa neanche una smorfia. Accenna a un principio di starnuto e si ferma.
L’autista e il suo accompagnatore incolumi, grazie alla cintura di sicurezza, osservano quella bizzarra scultura metallica che si è conficcata nella carrozzeria dell’auto, poi si avvicinano a controllare che il pilota della motocicletta sia ancora in vita.
Il centauro ha fatto un balzo di qualche metro. Il rumore del tre ruote ci impedisce di sentire se si stia lamentando.
Il motociclista è immobile a terra, il casco spaccato. Forse è ubriaco. Si tiene una spalla, ha degli ematomi; c’è del sangue sull’asfalto.
– Se volete posso chiamare l’ambulanza. Dice il nostro autista rallentando, senza fermarsi.
Dobbiamo correre, il coprifuoco non ci permette di prestare soccorso. Il nostro accompagnatore compone un numero e si mette a parlare in krio.
Quei tre non arriveranno a casa prima del coprifuoco, io e Abigail dobbiamo trovare un modo per fuggire.

(continua)