Le noie si ripetono spesso in questo lavoro e ogni giorno occorre rendere comprensibile al mondo esterno, inesperto e facile al moralismo, le regole severe che governano la vita all’interno di questa struttura. L’estraneità è – in primo luogo – ciò contro cui deve intendersi la nostra quotidiana battaglia di uomini e di dottori. Ho scritto “dottori” anche se sono solo un infermiere, perché – è questa la mia convinzione – dovrei poter accedere fin da subito al titolo di medico, per il quale sto studiando duramente. Conosco il particolare mondo in cui viviamo meglio di molti laureti in medicina, io che lo attraverso di giorno e soprattutto di notte, senza risparmiarmi, e ho a che fare con i pazienti in ogni occasione, in un’intimità che mai nessun medico, che non abbia fatto la medesima esperienza, potrà ottenere. E sicuramente con più competenza, ricavata da questa mia estrema esperienza, rifletto sulla macchina denominata corpo umano, e su quel di più che talvolta vi prende alloggio, un pilota prezioso e raro che alcuni chiamano ‘anima’. Mi piace studiare, e molto ho riflettuto, nei ritagli di tempo, sulla questione che esamino.
Le connessioni e le interferenze tra macchina e pilota sfuggono ai più, ma, peggio ancora, pochissimi sono consapevoli del fatto che alcune ‘macchine’ sono del tutto prive di pilota – vuoi per abbandono, vuoi per difetto di fabbrica fin dall’origine. E che, ben prima dell’ultimo respiro, si ritrovano come involucri vuoti, dai quali è assente la minima traccia di reale umanità. Soprattutto la maggioranza degli attuali dottori dà prova di scarsa riflessione, e nessuna capacità di analisi, per quanto riguarda il loro stesso operare, quando tentano di aggiustare macchine ormai palesemente ridotte a pura lamiera incidentata di carne e ossa.
Io ritengo che sforzi maggiori andrebbero diretti a mantenere in salute e benessere gli esseri che, in modo completo, possono essere definiti umani e che abbiano davanti una vera vita da vivere, e so che la maggioranza delle persone, seppur non attualmente consapevoli di ciò – o solo segretamente convinta – si troverebbe in accordo con me. Sforzi maggiori andrebbero diretti a cercare di comprendere cosa sia ciò che alcuni chiamano ‘anima’, piuttosto che affaccendarsi in modo inutile e irragionevole attorno a qualcosa che – in modo evidente – quell’anima non la possiede più. Dottori migliori potrebbero formarsi se, abbandonata ogni morale ipocrita, avessimo il coraggio di affermare a piena voce ciò che tutti, nel nostro intimo, sappiamo e pensiamo.

Faccio un esempio. I nostri ricoverati, di fronte a una serena osservazione non presentano alcuna traccia di umanità e non si differenziano in nulla da un qualsiasi animale privo di ogni comportamento raziocinante e perspicace. Esprimere emozioni è comune fra gli animali, e non è certo indice di comportamento “superiore”. Ma quale animale sarebbe, per esempio, in grado di apprezzare la musica, l’arte, la letteratura dei geni dell’umanità? In questa capacità – per esempio – risiede di certo quell’anima di cui vado parlando.
Abbiamo inserito nei programmi rieducativi la musica, secondo le testarde indicazioni dei soliti dottori illusi. Crederanno davvero a quello che fanno? Ma la musica proposta era fiacca, come quelle che si sentono nelle sale d’aspetto, così ho voluto portare avanti un ulteriore esperimento per verificare le mie convinzioni. Sono un uomo ragionevole, dopo tutto, disposto a cambiare opinione se lo ritengo utile. Ho dunque sostituito la sciatta musica del programma con capolavori assoluti: le Suite per violoncello di Johann Sebastian Bach. Ho dato le indicazioni ai miei infermieri, per poter osservare le reazioni dei ricoverati. Ho avuto sempre una grande passione per la musica. Ho ascoltato tutti i brani dei più grandi geni riconosciuti della musica, ho studiato le loro opere, sono in grado di apprezzare nel modo più profondo i loro capolavori. Nella musica – è noto a tutti – si riversa la maggiore quantità d’anima umana.
Abbiamo concesso ai nostri ospiti l’ascolto di quanto di più alto l’umanità abbia creato, ed ero pronto a ricredermi, davvero. Ma, come volevasi dimostrare, tutto ciò che ne abbiamo cavato è stato un orrendo spettacolo di ribellioni, atti osceni, urli disumani, ecolalie nauseanti o immote assenze. Io venero la musica. In essa mi rispecchio, con essa alimento e curo la parte più nobile di me stesso: la mia anima. E devo dire che mi ha offeso profondamente assistere a un tale – purtroppo previsto, nonostante la speranza – ‘spettacolo’. Le cavie hanno dimostrato la correttezza del mio pensiero. Sbavavano, pestavano i piedi, rovesciavano la testa, roteavano gli occhi, cacciavano urli animaleschi anche se soffocati dai bavagli. Nulla valeva a richiamare la loro attenzione sulla musica di Bach. Sono poveri pezzi di carne che danno l’illusione di umanità, carcasse piene di mucose e organi. Lascio alle pie donne di carità l’inutile occupazione di pregare per la loro anima. Ai dottori, che – ne sono consapevole – devono pur guadagnare dalle prestazioni che offrono in questa struttura, lascio l’infantile illusione d’essere utili. E alla politica, che deve imporre morali di comodo per trarne profitti, concedo l’ipocrisia dell’eventuale sdegno contro chi osasse condividere le mie opinioni.
Le capacità e competenze del personale sanitario vengono quindi impiegate – o scialacquate – a favore di un falso benessere al fine di garantire prosperità ad una vergognosa ipocrisia sociale.
Ieri, insieme a un collega, eravamo impegnati a trasferire dal letto alla poltrona un degente particolarmente critico. Puzzava di piscio, il letto ne era zuppo, e con le braccia rachitiche cercava di afferrare le nostre teste. Mi ha acciuffato i capelli e li ha tirati con forza. Il mio collega allora gli ha mollato un paio di ceffoni.
– È inutile che gli parli. Tanto non capisce, ho detto.
Ho scrutato fino in fondo gli occhi dell’infermo, le rughe della faccia risucchiata, i capelli, radi e bianchi, fini come quelli di un neonato, dritti sulla testa per il decubito prolungato. Ho abbassato lo sguardo sulle mani nodose, artigliate al mio camice, incapaci, a causa dell’artrite, di chiudersi completamente e mantenere la presa.
– Dobbiamo tagliare al più presto quelle unghiacce, così non potrà graffiarci, ha detto il mio collega.

Ho guardato con curiosità quel corpo svuotato che quando stava buono potevamo sollevare e trasportare senza fatica alcuna. Le dimensioni, ormai, erano quelle di un bambino, in apparenza non possedeva forze sufficienti a opporsi alle nostre manipolazioni, eppure adesso si ostinava ed era riuscito a strapparmi una ciocca intera. Sono ritornato ai suoi occhi, uno sguardo vuoto e acquoso. Ha biascicato qualcosa d’incomprensibile e dopo un lavorio di gengive ha tentato di scatarrarmi addosso, ma il mio collega è stato più lesto e l’ha immobilizzato sul letto con le cinghie. Quando il mio collega è uscito a fumarsi una sigaretta, io sono rimasto in stanza. Volevo osservarlo ancora per un paio di minuti, perché qualcosa nel suo sguardo mi aveva incuriosito. L’ho trovato con la testa rovesciata indietro, gli occhi la finestra, la bocca tutta gengive aperta stupidamente, con un filo di bava. Emetteva un mugolio sottile, ritmato. Ho guardato verso la finestra e ho scorto un passero che emetteva un breve richiamo senza melodia. Quella bocca scardinata in una bizzarra espressione di meraviglia rimaneva immobile e in silenzio. Che provasse qualcosa? Che fosse attirata da una minima manifestazione di armonia? Ho atteso che facesse un movimento, che la testa si mettesse di nuovo a solcare l’aria dondolando.
Invece è rimasto immobile per tutta la durata del cinguettio. Pareva assorbito in una visione mistica. Se avesse avuto un barlume di coscienza! E quando il passero è volato via, l’unica reazione del degente è stata quella di lasciar scivolare la testa in basso, gli occhi sulle mattonelle del pavimento, il respiro pesante e rauco. Aveva trattenuto il respiro!
Ecco. Ammetto che certe osservazioni possano indurre illusioni sul fatto che vi sia una qualche forma di sensibilità in questo tipo di residui della specie umana – e spesso i parenti provano a giustificare così il loro attaccamento forsennato ai congiunti degenti nella nostra struttura – ma non è così. Prova ne sia che, se avesse mantenuto una qualche forma di sensibilità estetica, o animica, avrebbe apprezzato Bach. Una torsione del collo e una casuale sospensione dell’attività respiratoria non dimostrano nulla, anche se, come ho cercato di dimostrare, le apparenze potevano indurre a credere che ci fosse un qualche desiderio interiore di ascolto di un cinguettio. Le apparenze di anima, prodotte da reazioni meccaniche, sono quanto di più deleterio affligge il contratto sociale e anche lo sviluppo della medicina. Se fossimo liberi da queste remore che alimentano illusioni e – come ho già detto – ipocrisia e sprechi di risorse e di attenzioni, potremmo intervenire davvero a salvaguardia là dove la vita mantiene la sua interiorità e la sua dignità, che è data dal non essere ridotta a pura “cosa” meccanica, come purtroppo capita ai nostri degenti.
Solo un’immensa ipocrisia di fondo ci costringe a mantenere in piedi strutture come questa e a impiegare in essa infermieri specializzati che potrebbero offrire la propria esperienza in strutture dedicate ai pazienti degni e a loro volta utili alla società, ricevendo inoltre maggiori remunerazioni e soddisfazioni di carriera.
Con queste forti convinzioni studio per diventare dottore e liberarmi del mio attuale incarico, mal pagato, al quale mi costringe il bisogno economico e un malriposto senso di pietas da parte della società. Studio in ogni momento che mi lasciano libero i turni spesso massacranti ai quali sono sottoposto. La mia attuale vita non mi piace, e spesso provo la sensazione dolorosa di sprecare il mio tempo, tranne quando posso dedicarmi allo studio e alla musica. Trovo ancora più dolorosi gli attacchi da parte di alcuni parenti dei degenti, che non comprendono e non vogliono comprendere il lavoro terribile al quale noi, qui dentro, siamo costretti. Se non ci fosse un’ipocrisia di fondo, molto serenamente spiegherei loro ogni cosa, e penso che li convincerei. Quando diventerò dottore, almeno, potrò allontanarmi da tutto questo. Visiterò di quando in quando i pazienti, ma non dovrò avere a che fare con loro nei momenti intimi in cui più ci si domanda se abbiano ancora un’anima. Prescriverò soluzioni. Guadagnerò di più. Non mi tormenteranno le urla notturne di chi non vuole dormire. Non sarò io a dover portare i calmanti, i sonniferi, né a doverglieli fare ingoiare.
Al Direttore,
al Coordinatore assistenza,
al Responsabile attività assistenziali
e ai familiari dei pazienti che hanno presentato reclamo.
Un ematoma è una raccolta di sangue che si forma nello spessore di un tessuto in seguito alla rottura di vasi sanguigni. Il fatto che i ricoverati di questa struttura presentino ematomi evidenti è da imputare alla loro demenza e all’accanimento involontario che talora presentano contro se stessi, difficile da controllare in modo assoluto nel rispetto delle normative vigenti in materia di costrizioni sanitarie. Incapaci di proteggere se stessi da percosse autoinflitte, ricercate con foga nell’oscuramento della ragione che è proprio della loro condizione, spesso i ricoverati di questa struttura presentano ecchimosi o ematomi che non possono essere imputabili all’inefficiente sorveglianza del personale sanitario. Mi sento di dire, d’altra parte, che le contusioni – in questo caso inevitabili – non pregiudicano affatto il benessere psico-fisico, sempre relativo – s’intende – alle condizioni di partenza del paziente, e per le quali si è reso necessario il ricovero.
Per i motivi di cui sopra, dunque, invito i familiari dei pazienti che hanno presentato reclamo, ad affidarsi alle cure a alla gestione del personale sanitario che – assicuro – agisce con grande professionalità. Per quanto – come detto – la nostra competenza è devoluta al benessere e alla salvaguardia dei pazienti, qualora l’ospite dovesse agire involontariamente contro se stesso, assicuro la loro incolumità.
Con ciò rimango a disposizione per ogni ulteriore specifica rassicurazione sulle condizioni di benessere dei pazienti a noi affidati.
IL CAPOREPARTO