Il dizionario semantico della pandemia, diffusosi tempestivamente e con insistenza nella nostra vita d’ogni giorno dentro la macchina del capitale, ci ha insegnato un nuovo accostamento di valenze di significato. È una delle strategie, forse la più potente, che i governi mettono in atto quando cigni neri come lo stato epidemico attuale rendono “necessarie” pronte misure di contenimento. Per questo, tutti gli emittenti di narrazione e discorso (Internet e social network, televisione, giornali), chi a favore e chi contro, hanno contribuito a plasmare delle nuove associazioni, rimodulando la nostra idea di contatto e corpo e associandola a quella di pericolo e contagio.

Che non sono pronto, poesia musicata de Il Collettivo della Solitudine, narra con profonda oggettività e malinconia il dramma delle voci nascoste, degli estinti, di quella manica di umanità che sa che il nostro bisogno fisico non è cessato. La musica, scandita da funerari accordi minori, ci riporta alla monotonia assillante e chiusa di una vita protetta, chirurgicamente asettica ma triste e bisognosa di contatto. Così si profilano i lineamenti di quei gesti e quelle esperienze un tempo talmente stratificate nelle nostre abitudini da passare inosservate, come il tocco dell’aria fresca, l’abbraccio di un simile o il suono della voce di un altro essere umano. La domanda di fondo che corre inesorabile lungo tutta la poesia è allora questa: saremo ancora considerabili esseri viventi se la qualità organica di toccarci e di trasmetterci calore con la vicinanza dovesse venir meno? Saremo ancora considerabili branco, se il nostro stare insieme è veicolato da schermi e immagini bidimensionale, forieri di una morte del corpo che ha l’estetica delle lapidi?
Accanto a questo dubbio post-umano, tanto applicabile alla pandemia quanto allo stadio di tecnologicizzazione e conseguente digitalizzazione delle relazioni umane cui il progresso e le ragioni di mercato ci stanno conducendo, si scorge velata anche una critica al mondo precedente la pandemia: ciò che chiamiamo comunità e che ispira in noi senso di comunione e di fratellanza è, come la paura, come l’epidemia, una parola, un rituale o meglio un’associazione semantica stabilita dalla gerarchia governante e dal suo storytelling. Al ristrutturare di questi significanti e significati viene meno anche la reazione che ad essi abbiamo legato, il processo di stimolo-risposta. Possiamo stare in gruppo solo e unicamente con i rituali del nostro tempo, e venuti meno i mitologemi e i dispositivi che ci tengono uniti e forniscono al nostro mondo interiore la nozione di insieme, di gruppo o di altro come la liturgia della scuola, […] dell’assemblea, dei riti […], di tutto il teatro possibile delle bevute fatte in cerchio, viene a cercarci la nostalgia. Nostalgia di un mondo non virtuale, virulento e vero come la vita.
(Lorenzo Lombardo)
Che non sono pronto
Che non sono pronto, questo ho capito
ieri al supermercato
osservando distanza d’un metro
osservando quelle facce di altri
chiedersi se l’aria sia ostile
proprio come ho fatto io.
Non sono pronto a salutare
a un tempo in cui temere i fratelli
a perdere il privilegio del tocco
sfiorare casuale di corpi
stare caldi e odorosi, insieme
fastidiosamente a volte, ma insieme
sui mezzi, nelle piazze.
Non sono pronto a vedervi i volti
sottilissimi costretti da schermi
con l’estetica delle lapidi,
a non sapere da dove sbuca la voce
a perdere l’unicità di ogni voce,
vedervi frammentati e intangibili
come – a volte – nei sogni – gli estinti.
A perdere la liturgia della scuola
non sono pronto
dell’assemblea, dei riti a cui non credo
di tutto il teatro possibile
delle bevute fatte in cerchio.
A questa virtualissima relazione
che mi assomiglia a quella dei morti
io non sono pronto.
Non sono pronto a svestirmi
della qualità di questo esser vivo:
osservare forse la morte
mantenendo una certa distanza.