Alessandra Greco | Praticare un territorio in erranza

Alessandra, le diverse forme della tua ricerca poetica ti hanno portato a sondare più linguaggi, dalla parola scritta alla performance, dalla spoken word all’installazione video e fotografica. Cosa avviene nella trasformazione della parola, quando passa attraverso la scelta del linguaggio con cui vuoi esprimerla? Nasce prima il desiderio del linguaggio, o è l’espressione di un tema che ti genera la necessità di attuarlo in una specifica via?

Desiderio del linguaggio ed espressione di un tema sono interdipendenti, col tempo ho chiarito le aree tematiche che desidero praticare, allora resta solo il desiderio di esprimere (linguaggio). Tutto è linguaggio, non solo la parola. Muoversi in diverse aree espressive è naturale, mi consento di esplorare e di approfondire un’esperienza estetica, che per me è una forma di conoscenza. Non si tratta di rappresentare qualcosa, ma di osservare, secondo un tipo di ascolto che diventa pratica. Si tratta letteralmente di praticare un territorio in erranza, e che a ragione di questo implica in sé la complessità, ma che è anche una forma di libertà. Complessità non è sempre sinonimo di complicato. Siamo esseri complessi, pensa solo a un haiku, che con poche parole ci porta ad immaginare una serie notevole di significati che abbracciano la sfera mentale, fisica, emotiva della nostra persona. L’esperienza estetica è fondamentalmente un’esperienza ontologica, di conoscenza degli esseri e delle loro relazioni.

Nulla si mostra per quello che è, occorre trovare o recuperare quello che apparentemente non si vede, ma insiste ‘a lato’, praticare una forma, Infrasottile, di duchampiana memoria, di rilevamento. Penso di aver fatto di questo, per quanto io possa, la ricerca di tutta una vita, seguendo un tipo di conoscenza intuitiva che prevede per forza un approccio espressivo diversificato, perché stimola esperienze nuove.

Sono stata sempre interessata, per esempio, alla categoria dei passaggi di stato, categoria che rientra tra le definizioni che Duchamp ha dato di “Infrasottile”. Ho una formazione come artista visiva, anche se in seguito mi sono dedicata principalmente alla scrittura. Le emozioni sono passaggi di stato e le esprimiamo attraverso diversificati linguaggi.
Si tratta di capire e scegliere, in base alla fruibilità, alla comunicazione di un discorso, il mezzo che più si avvicina alla trasmissione di quel tipo di esperienza.
Per preparare una lettura da Del venire avanti nel giorno, Libro Azzurro (Bologna in Lettere, Disseminazioni, 2019), per dare un’idea del messaggio profondo contenuto nel libro, ho rimontato i suoi punti essenziali in un testo adattato alla durata della lettura. Il progetto prevedeva la presenza di Gisele Alberto, voce mezzosoprano e di Roberto Cagnoli, sperimentazione elettronica. Seguendo itinerari diversificati, questi linguaggi si sono riorganizzati attorno al tema.   
Mi piace il jazz, l’improvvisazione, e un lavoro non sarà mai uguale ad un altro. In un’idea musicale la variazione sul tema è simile all’improvvisazione biologica nella dinamica creativa. Anche la natura improvvisa e si riconfigura evolvendo. La variazione si fa su un tema preesistente, ma a volte i rapporti tra tema e variazione possono invertirsi: una serie di variazioni possono precedere il tema e cristallizzarsi nel tema, che si riconfigura auto-organizzandosi. Il tema è fenomeno di formazione: in cui il comportamento, infrastruttura tra somatico e psichico, mette in forma l’esperienza stessa. È l’idea filogenetica del preadattamento, quel processo per cui la specie utilizza una propria dotazione con tutt’altra funzione rispetto a quella per cui essa sembra essersi generata. Lo sviluppo dell’organismo e l’evoluzione della specie sono messi in atto attraverso inciampi e derive – il senso dell’ordine è un processo costruttivo, che procede per fluidità e salti, prove ed errori. Ed è un ordine sempre influenzato dal disordine, sempre aperto al cambiamento. Si sta come funamboli, in un certo senso.
Reperire riferimenti, su questa linea di corda che diversificandosi compie il medesimo ufficio e dischiude nuove traiettorie (riferimenti, così come li intendeva Fernand Deligny, repères: punti di riferimento, linee vaganti che si intersecano in un punto preciso, indicando che è stato stabilito un punto di riferimento o qualcosa di comune) significa portare insieme cose che apparentemente non hanno una diretta relazione. In scrittura lavorando con il metodo del cut-up, mi trovo sempre a che fare con qualcosa che è sempre sul punto di manifestarsi, e questo apre a molte direzioni fertili, e che nello studio indica: un’interrogazione, un sintomo. È come aprire una mappa con molte vie e dire: c’è qualcosa lì.
In ogni caso, a partire da quel momento, la forma, la scelta del linguaggio espressivo si definiscono da sé, anche se non chiaramente sin da subito il loro destino, ed è un dono il fatto di poter realizzare un’opera.

Tra le forme da te scelte c’è anche quella del reading, nella sua forma più diretta di passaggio tra un testo concepito scritto e la sua espressione orale. Nel tuo modo di leggere, un ruolo forte lo ha il respiro tra una parola e l’altra, lo scavo dell’ambiente nel suono della voce. Come lavori, con la tua voce, per localizzare in quel silenzio i versi e portarli alle orecchie?

I due riferimenti principali sono per me la spazialità e le modulazioni. All’origine di tutto c’è il suono. La nostra voce la ascoltiamo dall’interno. I sensi dell’udito e del tatto principalmente, oltre alla vista, ci consentono una formalizzazione dello spazio. Quello che sento o ricerco è un senso, legato allo spazio, che sta come una traccia di modulazioni sotto la parola o in consistente coesione, come un ‘intorno’, in intuitiva vicinanza.
In tutte le sue sfumature, la voce si fa portatrice di senso, nel suo rapporto con la spazialità. È una disposizione alla pronuncia e all’ascolto diversa dal ‘pensato’, dal ‘parlato’, diversa da una ‘voce interiore’. Porta insieme immagini e sensazioni corporee, da lì nasce il movimento sentito che ogni singola parola contiene.
La pausa di respiro è uno ‘snodo’, fondamentale tel-quel la pausa in scrittura: è uno ‘snodo’ dove si contestualizzano e riorganizzano sensi (ciò che concerne le sensazioni) ‘afferenti’, afferenti perché lì incontrandosi, concentrandosi, raggiungono il nucleo di quello che si enuncia, che si pronuncia.

La pausa è un respiro, un soffio, un innesto, un peso, uno spazio di tensione dove tutto si riorganizza, una postura anche fisica che sta prima del/e nell’impulso-voce.

La parola è effrazione, la parola parlata erompe. Il suono modula le emozioni. Sempre è presente la voce come un gesto di presenza del corpo, nelle letture più semplici e piane, come nel caso della lettura di alcuni testi di Giorgia Romagnoli, come in quelle più complesse, penso a (BALEEN) lupo_struttura dell’abitare in superficie, da NT (nessun tempo)[1]. O forse il mio sentire travisa a causa della mia passione, forse si tratta solo di un’attenzione particolare, sono in tutto autodidatta. Mi affido al testo, a quello che sento e che emerge. In me, e per quello che posso, semplicemente, accade che io senta e tenti di raggiungere, almeno un poco, questi intendimenti.

In Couplets sono presenti due elementi specifici che, drammaturgicamente, aprono altre linee di analisi nel tuo lavoro. Il primo è il codice Morse, usato in più componimenti e che, in dialogo sia con la sonorizzazione che con la parola, genera una pulsazione interna alle composizioni. Come hai lavorato con questa pulsazione, ed in che modo questo movimento ha influenzato la parola ed il suono?

Couplet, Relazioni tra i recinti e l’ebollizione, è un progetto del 2016 (soundcloud.com), in collaborazione con Luca Rizzatello che ha creato ed elaborato le sonorizzazioni per i file audio dei miei testi in cui faccio dialogare voce e lettore automatico. È un progetto che, a partire da quei file audio, abbiamo studiato e ampliato, il suo apporto è stato determinante.
Couplet è cominciato da un gioco. Avevo creato un piccolo archivio di immagini reperite dalla rete: mappe, migrazioni, fotografie satellitari, etc. Salvavo insieme con le immagini i link di riferimento, queste mi davano delle suggestioni ed erano abbinate a piccoli testi, era un lavoro in gestazione: piccoli spunti. Per avere un’idea, insolita, quasi ‘meccanica’ del ritmo, ho utilizzato il lettore automatico per ascoltare i testi. L’anomalia si è verificata quando un link di riferimento a una di queste immagini, rimasto nel file di testo, è incappato nella lettura automatica.
Il mio desiderio di utilizzare il morse code sta nel fatto che è un impulso molto preciso, intermittente, e che fu uno dei primi metodi di comunicazione a distanza, presuppone una dislocazione nello spazio. In qualche modo il lettore automatico ha un ritmo di esecuzione vicino alla sequenzialità del morse code. Questo codice ritorna in seguito anche in NT (nessun tempo), Arcipelago itaca 2020, utilizzato nel settore-nodo VI., nella parte che prende il titolo di “zona ignota – aree non mappate” dedicata al faro. Ed è poi anche presente in forma di traccia solo visiva, in Del venire avanti nel giorno, Libro Azzurro (Lamantica Edizioni, 2019), dove appaiono sequenze di trattini liberi, la cui funzione è quella di suggerire un andamento ritmico.

Alessandra Greco, Del venire avanti nel giorno, Libro Azzurro, pag. 33.

Il morse code nella sua ricezione è un ritmo, un codice che si traduce in significato linguistico. Chi non conosce il codice non ha accesso al significato, solo avverte una sequenzialità di impulsi a sollecito, un ritmo intermittente porta un’informazione altra, un messaggio nascosto che ci raggiunge da una distanza, attraverso una serie di impulsi, come dei salti. Associavo per astrazione l’impulso del morse code alla modalità che ha l’informazione di viaggiare lungo il sistema nervoso. In questo percorso l’informazione deve rallentare per poi fare un salto, che lungo il percorso del nervo si verifica nel punto dove non è presente mielina (nei cosiddetti “nodi di Ranvier”), dunque deve acquisire questa lentezza, ed è grazie a questa propagazione per mezzo di un meccanismo a salti (il quale rallenta l’informazione), che essa acquista una grande velocità di trasmissione. Nel loro andamento complessivo, parole e pause sono contromovimenti e forze contrastanti, l’esecuzione verbale di un testo di volta in volta è rimodulata da contrazioni e rilasci. Ancora torno alle scienze naturali, torno al corpo, alla spazialità, qui si possono citare gli studi di Mikel Dufrenne, filosofo francese, che si è occupato di fenomenologia della percezione e di estetica, sull’evoluzione degli organismi vegetali e animali, per cui l’origine dei sensi della vista e dell’udito è tattile. Le unità unicellulari situate all’interno del protoplasma attuando la prima differenziazione della sensibilità generale causano il cosiddetto tropismo; fenomeno per cui una cellula di un organismo animale o vegetale reagisce, tende a muoversi, in risposta ad uno stimolo esterno. [2]
Si può pensare, di conseguenza, in modo astratto, alle unità linguistiche e alle sonorità sillabiche, così come ai brevi impulsi acustici del morse code, come a reazioni primarie, mattoni di base della localizzazione in uno spazio che si fa-con l’organismo che lo percepisce. Si può pensare anche che dopo il sussurro e le foglie fruscianti le più basse frequenze udibili sono un suono che diventa tatto, sensazioni tattili, scrivevo in Rabdomanti.

L’altro elemento è quello della parola affidata alla recitazione automatica di un sintetizzatore vocale, presenza “altra” di parola, spesso carica di inflessioni innaturali e altri giochi, soprattutto quando lavora sopra ad altre lingue da quella per cui è stata programmata – nella tua stessa scrittura talvolta si alternano più lingue, in questo lavoro. Come è arrivata l’esigenza di questa voce altra, parola a cui non affidare il tuo suono?

Ho giocato a portare il sintetizzatore vocale sul filo dell’errore, un errore estremamente preciso, diciamo, ma pur sempre un’errore: in Couplets 03 la macchina a un certo punto si scusa per non poter trovare il termine cercato, dice: Sorry, no information was found for ριξορδο [ricordo] try searching with the current definition ‘déjà vu’ …” nondimeno storpia la pronuncia delle parole in lingua. Era commovente ed ironico al tempo stesso. Nel 2016, anno in cui ho scritto i testi di Couplets, i lettori automatici non erano ancora molto evoluti, li si poteva far deragliare facilmente, io l’ho fatto letteralmente cantare, aggiungendo una serie lunga di vocali/consonanti, comporre suoni gutturali, attraverso la lettura di frammenti di link. Era un modo per interrogarmi sull’errore, umano e dell’intelligenza artificiale, le implicazioni, le interazioni, le imperfezioni, i limiti, nostri e delle macchine.  

Il tuo ultimo lavoro pubblicato, NT, (nessun tempo), si sofferma sul tema della temporalità. In un rapporto che viaggia tra memoria e risonanza degli atti, cancellazione, riscrittura e flusso, con una impressione immaginifica che raccoglie anche le tue esperienze in campo fotografico, il tempo viene osservato da diverse prospettive. In uno spazio come quello performativo, dove il tempo è contestualizzato e condiviso, e ancora più nel rapporto con la musica e col suo specifico significato di tempo, che significato assume, che forma dà al tuo performare?

NT (nessun tempo) è un lavoro in cui guardavo soprattutto alla spazialità, uno spazio in cui intervengono i sensi, uno spazio aptico. Ha usato questo termine Benjamin, ma i miei riferimenti andavano soprattutto agli studi di Giuliana Bruno, professore ordinario di Visual and Environmental Studies presso la Harvard University, che esplora le intersezioni tra cinema, arti visive e architettura e che ha largamente influenzato il mio pensiero. Lo spazio aptico è spazio qualitativo. Il senso aptico è una procedura di esplorazione tattile strettamente legata al movimento e profondamente radicata nell’attività mentale, permette ai nostri corpi di percepire il movimento nello spazio. La mente è cinematografica, il testo così montato permette di formare un ambiente in cui, come nel campo di un’inquadratura cinematografica, una serie di immagini in movimento divengono, se si entra in quel tipo di ascolto, trasporti e connessioni all’interno di un flusso, tableaux mouvants (è infatti anche il titolo di un lavoro realizzato per Eredità delle Donne, Festival 2019, a Firenze, con le sonorizzazioni e i video di Davide Valecchi).
Non sarà necessaria la ricezione di tutte le parole portate, arriveranno per trasporto. Il tempo diviene in questo modo una cascata di istanti.

In copertina, frame da Béance Istantanee, serie dell’autrice

[1] Critica Impura, letteratura, filosofia, arte e critica globale, blog a cura di Sonia Caporossi, accoglie questo lavoro di Alessandra Greco, dove oltre al testo integrale è possibile ascoltare la lettura live di (BALEEN) lupo_struttura dell’abitare in superficie da NT (nessun tempo), realizzata durante la prima edizione della Rassegna Partes Extra Partes, Firenze 2018, con le sonorizzazioni avant jazz dei NOW! Marco Cencetti alla tromba e Roberto Cagnoli, live electronics.

[2] CultFrame arti visive, Tra presenza e rappresentazione, di Pietro D’Agostino:  https://www.cultframe.com/2013/02/discorsi-sulla-fotografia-tra-presenza-e-rappresentazione/

𝐼𝑙 𝑐𝑜𝑟𝑝𝑜 𝑢𝑡𝑜𝑝𝑖𝑐𝑜

Molto spesso, immaginiamo il corpo come l’eterotopia per eccellenza: il luogo – cioè – prediletto e al contempo il confine dell’essere umano, il nostro “qui e ora”; limite invalicabile e immenso, non lascia spazio ad altro che non siano i bisogni puramente fisiologici, in una netta distinzione tra corpo e mente, com’è tradizione in Occidente, come se il nostro corpo dovesse automaticamente negare ogni utopia e viceversa. Se travalichiamo questa separazione, però, scopriamo che il corpo potrebbe essere, dal punto di vista non solo strettamente biologico ma anche filosofico, il tramite per un altrove. Ed ecco allora che, per essere utopia, basta avere un corpo.

Vipera | Un tentativo di volo che si stacca da tutto

L’EP di debutto di Vipera, progetto di Caterina Dufì con la collaborazione di Niccolò Cruciani (CRU, C+C=Maxigross), ha la rarità di un progetto le cui scelte sono leggibili come conseguenze, seppur di azioni ed influenze lontanissime o non esplicitate, magari persino non coscienti, ma non premeditate. Necessarie.

Difficile da situare in una definizione, Tentativo di Volo (uscito quest’estate per Dischi Sotterranei) è anche un continuous video (diretto in collaborazione con Federico Rizzo) in cui Vipera propone l’immaginario che porta nei suoi live, descritti dal pubblico come veri e propri riti che fanno convergere performance e concerto, spoken word e teatro. Ali di legno, costumi, performer i cui personaggi vengono indicati con nomi come La Parca o La Sibilla, richiami a simbologie sacre e ai miti, un lavoro sul linguaggio che rifiuta la narrazione per immergersi nel dipingere una sensazione più sottile e profonda, che nella consegna delle parole, e non solo in esclusiva a loro, si nasconde strisciando e che va percepita a pelle, a naso, a tatto, shiftando in modo strumentale tra inglese e italiano. L’intento, che fiorisce di brano in brano, è dichiarato già dalla presentazione del progetto: “superare l’esaltazione che la forma-canzone (specialmente italiana) ha tributato alla narrazione, al significato, al “retroscena” del testo. O al vissuto dell’artista. Non è tempo per questo”. È tempo, sembra suggerire, di immagini senza tempo, di risonanze tra pezzo e pezzo, di perdere i paletti di relativismo, di comparazione, di giudizio, per concentrarsi sulla natura specifica sottesa in ogni singola cosa.

È con questa attenzione all’unicità che va letta la proposta sul piano sonoro, nel quale la voce di Caterina si infila con una sincerità disarmante, senza stilemi estetici da canto o recitazione, con la precisione assoluta di una necessità che vada oltre i linguaggi, che vari anche radicalmente di pezzo in pezzo. Una proposta simile è stata raccolta nella maniera più coraggiosa e rispettosa da Cruciani, che ha tessuto assieme a Caterina (e col sassofono di Jacopo Finelli, in “As With Fire”) una mappatura sonora che si sposta tra indie e musica concreta, sintetizzatori precisi e chitarre sguaiate, campionamenti cinematografici, il respiro del silenzio ed un amore vero per ciò che spezza gli standardismi per restituire al suono la sua precisione emotiva: talvolta la pulsazione è assente o subisce uno scarto, le dissonanze emergono d’un tratto, la struttura collassa, l’accuratezza che dovrebbe spettare ad un prodotto da studio sembra mancare, eppure è proprio lì che appare con chiarezza quanto sia in realtà la scelta più accurata, più giusta, la conseguenza più naturale. Parla per enigmi, Vipera, comunica per esempi e con simboli senza rimando, proprio come ad invitare l’ascoltatore a quella ricerca propria degli alchimisti del cercare un significato altro. Perché serve farlo, perché il Tentativo lo si crei assieme: in una selva di rimandi, da Artaud a Battiato, dai Dead Can Dance a Jodorowski, Vipera sembra lasciare tracce per terra in attesa di comprenderle appieno lei stessa, condividendole per dialogare, non per imporre una certezza. Ed in mezzo a questa selva intricata e contraddittoria, vivida, scalciante, non formalizzata, emerge con chiarezza ciò che tra gli elementi ricorre, forma densa e personale, diretta, libera.

IL SABOTAGGIO 


Ci sarà vento domani, oltre alla pioggia probabile.
Continuo a frequentare la paura come in un luogo asciutto e malsicuro
è familiare
“una casa che vivo stretta” poi me ne compiaccio “e ne approfitto per restare.” 
Nemmeno ti conosco e già si addensa il tuo giudizio, come nuvola,
io terra pronta a farsi un acquitrino 
“questo succede perché in te c’è ancora troppa sofferenza, il genio scaturisce da altre foci,
il genio scaturisce non da qui.”
“Io sono il centro del cerchio entro cui tutti i punti, allo stesso modo, convergono. E tu no.” 
“Io sono il colmo del gorgo entro cui tutti i pensieri, allo stesso modo, svaniscono.
Neanche ho il tempo di farti invidia”. 

Tu vedi per come so di cecità ti affianco.

SCRITTO DA CATERINA DUFì E FEDERICO RIZZO
MUSICA E VOCE DI
VIPERA
produzione dischi sotterranei (2021)

Subalterna di Adriano Cataldo | Nuova vita ai “detti”

Subalterna è il nuovo progetto di Adriano Cataldo, un EP di cinque tracce prodotte da Gabriele Botswana aka Big House che, come annunciato dallo stesso autore, raccolgono diversi sguardi attorno al fenomeno dell’odio di classe nel contesto sociopolitico italiano attuale, passando tra testi già presentati al pubblico e nuove produzioni scritte ad hoc per il concept. Partendo da questo presupposto la prima traccia, “L’identità italiana non esiste”, offre un cut-up di citazioni, da Eco a Montanari, da Savater a Benedetti, da Pasolini a Calabrò, con l’intento di esporre agli ascoltatori un impianto filosofico ancor prima che una proposta musicale.

Nei lavori presenti in Subalterna si osserva infatti una relazione con le strumentali simile al nome del progetto: dal rap di “Europa” alle strizzatine d’occhio reggaeton in “Giorgia”, le metriche dei testi di Cataldo oscillano sempre tra l’adattarsi morbido alle scansioni suggerite dalla base e la frizione di un testo che desidera prendersi uno spazio più ampio, portarsi davanti come vero protagonista. Questa frizione si risolve intelligentemente in una alternanza tra episodi spoken più liberi dalla base e momenti in cui il testo soggiace alle necessità ritmiche di una componente musicale che, eccettuati piccoli episodi espressionisti come nell’intro di “Giorgia”, viene vista quasi esclusivamente come base per lo sviluppo del testo, consegnato coerentemente con una voce che è molto più recitante che musicale.

Il gusto citazionista di Cataldo, espresso con chiarezza nel primo pezzo, rimane ben presente anche nei suoi testi originali, nei quali molto frequentemente avviene l’utilizzo, la modifica e persino il totale capovolgimento di modi di dire, claim popolari che vengono riportati in vita dalla prospettiva di un gioco di parole che è sempre legato alla narrazione sottostante, ma che per la sua frequenza diventa quasi protagonista del suo modo di scrittura, valvola da cui erompe il resto del testo, forse parte del concept stesso del disco. L’identificazione sociale, ed il suo conseguente inasprirsi in ghettizzazioni, stereotipie e razzismi, prende piede infatti anche nel crearsi all’interno dei gruppi un vocabolario condiviso di simboli, rimandi e citazioni, schema che viene scardinato dalla proposta di Cataldo con un’attitudine che è politica, che è di denuncia, e che porta in sé una volontà che fiorisce nell’ultimo verso che chiude l’EP, non a caso anch’essa una citazione modificata: “Scegliersi una sorte che possa dire compagna/Che la vita si sconta lottando” .


IL NOME DELLA RESA



Maschio Bianco Italiano
Radici giudaico-cristiane
Ogni giorno, un residente si sveglia
E sa che dovrà
Odiare più forte
Sognare più forte
Votare più forte.
Il residente è sintassi d’interessi
Sogna un cancello, che in principio era verbo.
Sogna una marcia, che in ultimo è aggettivo.
Il residente è complemento oggetto, soggetto al suo vuoto, soggetto al suo voto.
Sogna il residente, che il vuoto fuori sia quello dentro
Il buon degrado, suo malgrado.
Il vuoto che vuole: diritto di suole.
La lingua italiana batte dove il perdente duole
Percuote ciò che vuole
E più non dimandare.
Sogna il tragitto perfetto
Verso la pattumiera, la raccolta dei rifiuti e dei rifiutati
Il palese pulito.
Difendere e dipendere
Sognare le distanze.
Una nazione che non sia alienazione, inazione.
Possiamo oggi dire al residente che la patria è perduta
Che il nostro popolo è morto a Genova
Al residente ricordiamo di scegliersi bene la parte
Capire
Il limite tra cosa offende e cosa coraggio infonde
Il limite tra chi è più italiano tra i Marò e Giulio Regeni.
Scegliersi una sorte che possa dire compagna
Che la vita si sconta lottando.

Voce e testo Adriano Cataldo
Produzione big house
tratto da subalterna, 2021

Dorso Mondo di Gabriele Stera | Sovrapporre i punti della mappa

Approcciare un universo come quello di Dorso Mondo (Squilibri, 2021) significa immergersi in una concertazione di stimoli che, masticati tra loro e disposti con equilibrio, rimandano ad un qualcosa sempre altro, eppure così vicino. Il lavoro di Gabriele Stera, alla voce e ai testi e all’elettronica e soprattutto all’evidente regia generale, apre alla percezione dell’ascoltatore le porte di un immaginario luogo così aderente al nostro che “ti capita davanti agli occhi muto, e distende una pellicola sul mondo facendone un giocattolo di plastica”, espresso in un linguaggio e con espressioni che non si coglie se siano etiche o emiche, quasi a sottolineare la convivenza di questo Dorso Mondo alla realtà, suggerendo persino una via per collassare all’interno di quest’altra realtà.

Nel brano di chiusura, Dal Dorso Mondo, che in coppia con Al Dorso Mondo, l’apertura, costituisce la grande coppia di parentesi (entrambi pezzi da 19 minuti, divisi in sezioni) entro cui tutta l’opera è circoscritta. Come nel Poetry Comic di Martina Stella, in cui l’attraversamento di una soglia anticipa e conclude l’esplorazione di questo scenario, l’intera opera acquisisce il proprio senso solo se immersa nel suo immaginario specifico, dall’importanza pari a quella che gioca il contesto culturale per leggere le informazioni di un’etnografia.

Tutto, in Dorso Mondo, parla ingannevolmente un plurale singolare, un singolare plurale. La selva di suoni, che parte nella prima sezione con la sola elettronica di Stera ma che poi si allargherà ad interventi di molteplici strumenti, timbri ed apparizioni grazie alla collaborazione di Jérémy Zaouati, di Franziska Baur, dell’altalena di Garance Abouin e del contrabbasso di Giacomo Troncon, è un dettagliatissimo paesaggio che, come in una ripresa della Terra dallo spazio ampio per poi immergersi nella vita brulicante (proprio come in Picture a Vacuum di Kate Tempest, preludio del suo Let Them Eat Chaos), tocca la pace del distacco come il caos della singolarità, non risparmiandosi sfumature tra loro molto dissimili, ma facenti parte della stessa palette, come i riflessi dal fondo oceanico.

La stessa componente musicale ci parla di un plurale concertato e non a caso lo strumento di Stera è l’elettronica, presenza dominante e regolatrice degli altri impulsi a cui si allude anche nella dedica iniziale dell’intero libro, “Ai nostri cavi”. Chitarre, violini, campionamenti rimaneggiati, pianoforti preparati, echi di voci filtrate da un sound design che talvolta prende il sopravvento ribadendo il proprio ruolo registico, ogni strumento è una voce singola che riunisce tasselli per un mosaico più ampio, e così fanno i versi di Stera, che spesso si aprono a sovrapposizioni multilingue e a più voci e che costantemente parlano in prima persona plurale. Anche nei rari esempi in cui il narratore si fa uno, come in Poème, la penna è sempre aperta e collettiva, è sempre intenta a ritrarre dettagli di un paesaggio, a parlare con qualcuno, a descrivere.

Ma cosa emerge, da questo paesaggio? Non è fisico, non è geografico, il mondo di Stera e della sua compagnia, è tutto rivolto ad una interiorità che lo scatena (o da cui essa viene scatenata) e – come in ogni linguaggio alchemico – “ogni simbolo richiama ad un altro”. Vissuti di schiere di singoli non comunicanti ma di cui Stera si sente portavoce, urgenze e fantasie, questa è la patria comune che fa riconoscere gli abitanti del Dorso Mondo: non azioni, non abitudini, non luoghi od oggetti, ma un sentire comune dal sapore indefinibile eppure chiaro, una salsa in cui l’intera opera è immersa e che, in ultimo, unisce voci e suggestioni e le riporta ad un punto preciso nella cartina emozionale. L’intento di Stera e dei suoi compagni di viaggio, col loro lavoro, è definire uno stato mentale. È da questa base che partono e ritornano tutte le linee direttrici di quest’opera che non è un disco, non è una raccolta di poesie nè una graphic novel ma, essendole contemporaneamente e mai completamente, diventa un qualcos’altro che le supera, un ritratto da più punti di vista, stereofonico, di uno stesso specifico nonluogo.

(Isidoro Concas)

MORTUOS VOCO VIVOS PLANGO

ammutinati gli astri è tutto il meccanismo dei disastri
che s’infrange tra le vertebre e le onde
ed il corpo assottigliarsi in una scia di schiuma bianca
        a peso di martello affondare in un filo di voce
e ritrovarsi poi nel cuore: soltanto un tremare

tirandosi dietro la rete bucare                        bucare
la reste stringendo scendere a punta nel mare chiodato
            per ogni parte di cielo viva strappata dall’alto
una tomba finissima e nera tagliata nel buio a lampi
le lettere incise diranno che mortuos voco e vivos plango

e se ancora qualcosa nel corto-circuito lega la frase
                       al soggetto non sono le sinapsi non è
perché abbiamo un sistema comune sotto la pelle
un corpo cablato di rame non è
perchè abbiamo le branchie sul lato del viso incise

siamo i non suicidati                          possiamo
rifare la guerra domani tornare alle armi ogni giorno
                        finora è tutto quello che abbiamo
tutto ciò di cui necessitiamo              finora è
tutto quello che abbiamo tutto ciò di cui necessitiamo

teso il corpo allo sforzo di svanire
                       svaniremo fino al prossimo segnale
e mentre il peso aumenta dall’interno l’atmosfera –
            ci serriamo tra le squame       siamo soli:
possiamo negoziare con le onde        la luce di fuori

Dorso Mondo, di Gabriele Stera
Poetry Comic di Martina Stella
Squi[libri], 2021
Voce e testi: Gabriele Stera
Musica: Franziska Baur e Jérémy Zaouati