La scomparsa del mondo e l’illusione della letteratura

Dei punti toccati da Davide Galipò nella puntata precedente di Contro il presenzialismo[1], me ne interessano in particolare due. Uno – di tipo teorico-critico – è il discorso sul “corpo poetico” (poesia orale, performance, palcoscenico…) in relazione alla sua scomparsa di fronte alla pandemia (e cioè alla scomparsa degli spettacoli “dal vivo”); l’altro – più storico – riguarda quelle nuove esperienze artistiche che Galipò segnala (mappa, collega) proprio in merito alla presenza in poesia (del corpo, ma direi anche del viso – cioè del corpo piegato a un’apparenza che ha fini diversi da quelli artistici).

Certamente – e ce lo dice del resto lo stesso Galipò, con la ricognizione che apre l’articolo – la questione del poetico che eccede il foglio, si fa situazione e performance, precede di gran lunga la pandemia. Tuttavia la parola “presenza” oggi acquista un significato specifico, storicamente determinato, dunque diverso da quello che aveva prima del 2020. “La scuola in presenza, “gli eventi in presenza” sono espressioni marcate proprio in quanto alludenti al loro contrario: quello che si è configurato da un anno a questa parte è infatti principalmente uno scenario dell’assenza, delle relazioni umane trasumanate in una messinscena virtuale.

Accelerazione della sottrazione

Suonerà millenaristico, ma concedetemi trenta secondi di Apocalisse: in questa realtà dematerializzata l’Occidente ha trovato la sua forma finale, il culmine di una storia che negli ultimi decenni ha sempre più optato per la spettralità, dai nuovi media al non-luogo dei centri commerciali[2], dallo streaming che sostituisce i dischi al sempre più consolidato smart working. Tutto retto, del resto, da un’invisibilità strutturale, che è quella del capitalismo, sistema – sempre più spesso accettato come natura, per giunta – che per statuto separa la materia (immobile) dal suo valore economico (mobile). Come scrive Marx, «a prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa intricatissima, ricca di sfumature metafisiche e di arguzie teologiche. […] il tavolo rimane legno, oggetto sensibile e comune. Ma quando appare come merce si trasforma in un oggetto sensibilmente soprasensibile»[3].

Eppure, rientrando nell’ambito della letteratura, la pandemia ha portato all’evidenza – dunque, tutto sommato, ha presentato – la struttura occulta su cui si fonda l’intera “fiera del libro”. Basta pensare alle presentazioni e ai festival: interamente crollati. E non si può prevedere con certezza quando (se) si riuscirà a recuperare del tutto la realtà dell’evento (culturale) in quanto esperienza di un tempo in uno spazio. Tuttavia – e questo è il punto – sarebbe semplicistico immaginare un sistema editoriale e letterario sconfitto dalla pandemia come accadimento funesto e oltreumano. Al contrario, ciò che suggerisco è proprio di guardare alla pandemia come occasione di disseppellimento, rivelazione di qualcosa che era già contenuto nel mondo pre-pandemico. Del resto, è evidente in quasi tutti i settori come la pandemia abbia accelerato l’imposizione di alcuni meccanismi cui già si aspirava: lo smart working e la scuola digitale ne sono esempi chiarissimi. Ebbene, in letteratura è successa una cosa simile: la pandemia ha accelerato la rivelazione di qualcosa che già c’era, ovvero la virtualità intrinseca del sistema letterario italiano odierno.

Presenza e presenzialismo

Quando dico virtualità, qui, lo intendo nella sua forza etimologica, cioè come derivato di virtus, dunque facoltà, potenza, qualcosa che sta in potenza. Virtualità vuol dire di fatto assenza, possibilità d’essere ancora a venire. La letteratura è dunque virtuale nel senso che, nella nostra società, non ha luogo, non è presenza. E non lo ha in duplice maniera: come “comunità” (o meglio, connessione, insieme di contatti) principalmente digitale (il “dibattito”, o più precisamente la pubblicità, si svolge sui social); come pratica non premiata dalla logica (in quanto “inesatta”) e dall’economica (in quanto scarsamente vendibile) del capitalismo.

Poiché improduttiva, la letteratura è relegata all’ambito dell’inutile e acquista, al più, valore di intrattenimento. Da questa subalternità, che è strutturale e pre-pandemica, capiamo che la “presenza” (festival, presentazioni, ecc.) che adesso ci sembra fisicamente irraggiungibile, era in verità già prima in larga parte presenza di una messinscena, l’esercizio inerziale di un corpo fantasmatico quale può essere la letteratura privata di incidenza (politica e gnoseologica) nel reale. Anche in questo senso si può parlare allora di presenzialismo: non presenza effettiva (che è un esserci, qualcosa di prezioso, come ci ha mostrato proprio la pandemia), ma virtuosismo del presenziare. Il presenzialismo è l’ideologizzazione della presenza, che, al massimo del suo parossismo, diventa un’assenza di sé a se stessi (alienazione), un essere-per-l’immagine.

Sottraendo una volta per tutte il reale oltre il virtuale, la pandemia ha dimostrato definitivamente il grave scollamento letteratura/realtà.

E si colloca qui, allora, la domanda circa le esperienze artistiche, che, private del loro habitat (festival, presentazioni, ecc.), si sono trovate sfollate nel non-luogo della loro spettralità, faccia a faccia con la propria irrealtà storica. Ora, di fronte a questa presentificazione dell’assenza, si hanno in linea di massima due possibilità: o trasferire del tutto la kermesse letteraria in una realtà seconda che non sia infettata e impraticabile come la prima (dunque, ovviamente, sui social), o problematizzare il rapporto dell’arte con la realtà attraverso una dicotomia presenza-assenza che appare più complicata del previsto e più simile, forse, a una dicotomia tra presenzialismo (che è, come detto, un’alienazione, dunque un’assenza nella presenza apparente) e assenza vera e propria (cioè rifiuto del sistema tout court, esilio, «contro il presenzialismo»). Nel primo caso, naturalmente, la natura virtuale del sistema letterario non viene risolta, ed anzi, funzionando interamente anche sui social, dimostra definitivamente la propria inconsistenza. Nel secondo, al contrario, assistiamo a un tentativo di dialogo con la storia, a una reale domanda sull’esserci e sul senso della poesia di fronte alla sparizione del mondo.

Fuori dall’immagine oppure immagine fino in fondo

Osservando le nuove proposte artistiche segnalate da Galipò – che funzionano innanzitutto prendendo la poesia come pratica, non come esposizione – ho pensato che forse sono due, principalmente, le strade da percorrere per un superamento dell’impasse descritta finora.

La prima di queste riguarda, naturalmente, il corpo. Si è capito che questo non può essere inteso come figura, come viso (visum, visto, simulacro), e che la “presenza” d’altro canto può scindersi in un presenzialismo che è presenza d’immagine (quindi assenza di sé) e una presenza effettiva (possesso di sé). Ecco, questa seconda opzione è quella che ci interessa.

Il corpo qui è una tridimensionalità che si scopre oltre l’immagine, irriducibile alla scena, informata da un qui ed ora insignificabile se non attraverso la sua esperienza diretta. In questo senso il valore del corpo potrebbe essere riscoperto proprio come origine, cioè come sostrato “insignificato” che produce significato (la poesia) ma lo tiene legato a un’esperienza indicibile; ne fa, insomma, radiazione di un’origine autentica.

Su questo fronte si possono collocare esperienze diverse. Ci rientrano indubbiamente quelle che insistono sulla phoné, e che quindi danno al corpo un ruolo significante, semantizzato, non di semplice veicolo; ma risultano tridimensionali in tal senso anche l’asemic writing, ad esempio, che sposta la significatività dalla grafia come parola alla grafia come gesto, nonché la stessa “lirica” (post, neo-, qui non importa), se funziona come atto «ritualistico»[4], dunque come unità inscindibile di significato e significante, e non come occasione confessionale.

Esempio di asemic writing

L’altra strada, all’opposto, è proprio la frequentazione (problematizzata) dell’assenza, ovvero la sfida diretta alla virtualità. Il lettore mi scuserà se parlo di un’esperienza che mi riguarda, ma lo si prenda come spunto di riflessione: quello che il liminalismo – dal mio personale punto di vista, è chiaro – sta portando avanti, ad esempio con le sessioni di scrittura collettiva su Dropbox[5][6], è proprio un’esposizione dell’identità ai flussi depersonalizzanti della rete. Non l’uso della virtualità come contenitore, ma la sua esplorazione abissale, spinta al punto da farla deflagrare: è l’allegoria rivelatoria di un processo che avviene quotidianamente, ovvero la trasformazione delle identità negli account, la liquefazione delle persone. Il cambio di medium o di impostazione ad ogni opera, poi, prevede che il liminalismo si auto-esaurisca in continuazione, come azione di una scrittura che deve confrontarsi in primis con una realtà mercificante ed effimera. In conclusione, dunque, possiamo dire così: le due strade sono la pars costruens e la pars destruens di un processo di riscoperta della tridimensionalità oltre la presenza-assenza del presenzialismo, del fondamentale “egologismo” di una letteratura senza realtà. E questa riscoperta, che cavalca la scossa operata dalla pandemia, vale come presa di coscienza e smascheramento delle illusioni – della società come natura e della letteratura come società.

Collage di copertina di Luc Fierens

[1] https://neutopiablog.org/2021/04/16/contro-il-presenzialismo/

[2] «I non luoghi rappresentano l’epoca, ne danno una misura quantificabile ricavata addizionando […] le vie aeree, ferroviarie, autostradali e gli abitacoli mobili detti «mezzi di trasporto» (aerei, treni, auto), gli aeroporti, le stazioni ferroviarie, le grandi catene alberghiere, le strutture per il tempo libero, i grandi spazi commerciali e, infine, la complessa matassa di reti cablate o senza fili che mobilitano lo spazio extraterrestre ai fini di una comunicazione così peculiare che spesso mette l’individuo in contatto solo con un’altra immagine di se stesso.» Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Milano, Elèuthera, 1992, p. 58.

[3] Karl Marx, Il Capitale, Libro I, 1.

[4] https://www.alfabeta2.it/tag/poesia-contemporanea/

[5] https://www.utsanga.it/aprile-astolfi-caggiula-garrapa-perozzi-latimeriidae-indagine-per-un-manifesto-del-liminalismo/

[6] https://www.utsanga.it/aprile-astolfi-caggiula-garrapa-perozzi-latimeriidae-indagine-per-un-manifesto-del-liminalismo/

Che non sono pronto | Il Collettivo della Solitudine

Il dizionario semantico della pandemia, diffusosi tempestivamente e con insistenza nella nostra vita d’ogni giorno dentro la macchina del capitale, ci ha insegnato un nuovo accostamento di valenze di significato. È una delle strategie, forse la più potente, che i governi mettono in atto quando cigni neri come lo stato epidemico attuale rendono “necessarie” pronte misure di contenimento. Per questo, tutti gli emittenti di narrazione e discorso (Internet e social network, televisione, giornali), chi a favore e chi contro, hanno contribuito a plasmare delle nuove associazioni, rimodulando la nostra idea di contatto e corpo e associandola a quella di pericolo e contagio.

Che non sono pronto, poesia musicata de Il Collettivo della Solitudine, narra con profonda oggettività e malinconia il dramma delle voci nascoste, degli estinti, di quella manica di umanità che sa che il nostro bisogno fisico non è cessato. La musica, scandita da funerari accordi minori, ci riporta alla monotonia assillante e chiusa di una vita protetta, chirurgicamente asettica ma triste e bisognosa di contatto. Così si profilano i lineamenti di quei gesti e quelle esperienze un tempo talmente stratificate nelle nostre abitudini da passare inosservate, come il tocco dell’aria fresca, l’abbraccio di un simile o il suono della voce di un altro essere umano. La domanda di fondo che corre inesorabile lungo tutta la poesia è allora questa: saremo ancora considerabili esseri viventi se la qualità organica di toccarci e di trasmetterci calore con la vicinanza dovesse venir meno? Saremo ancora considerabili branco, se il nostro stare insieme è veicolato da schermi e immagini bidimensionale, forieri di una morte del corpo che ha l’estetica delle lapidi?

Accanto a questo dubbio post-umano, tanto applicabile alla pandemia quanto allo stadio di tecnologicizzazione e conseguente digitalizzazione delle relazioni umane cui il progresso e le ragioni di mercato ci stanno conducendo, si scorge velata anche una critica al mondo precedente la pandemia: ciò che chiamiamo comunità e che ispira in noi senso di comunione e di fratellanza è, come la paura, come l’epidemia, una parola, un rituale o meglio un’associazione semantica stabilita dalla gerarchia governante e dal suo storytelling. Al ristrutturare di questi significanti e significati viene meno anche la reazione che ad essi abbiamo legato, il processo di stimolo-risposta. Possiamo stare in gruppo solo e unicamente con i rituali del nostro tempo, e venuti meno i mitologemi e i dispositivi che ci tengono uniti e forniscono al nostro mondo interiore la nozione di insieme, di gruppo o di altro come la liturgia della scuola, […] dell’assemblea, dei riti […], di tutto il teatro possibile delle bevute fatte in cerchio, viene a cercarci la nostalgia. Nostalgia di un mondo non virtuale, virulento e vero come la vita.

(Lorenzo Lombardo)

Che non sono pronto

Che non sono pronto, questo ho capito
ieri al supermercato
osservando distanza d’un metro
osservando quelle facce di altri
chiedersi se l’aria sia ostile
proprio come ho fatto io.

Non sono pronto a salutare
a un tempo in cui temere i fratelli
a perdere il privilegio del tocco
sfiorare casuale di corpi
stare caldi e odorosi, insieme
fastidiosamente a volte, ma insieme
sui mezzi, nelle piazze.

Non sono pronto a vedervi i volti
sottilissimi costretti da schermi
con l’estetica delle lapidi,
a non sapere da dove sbuca la voce
a perdere l’unicità di ogni voce,
vedervi frammentati e intangibili
come – a volte – nei sogni – gli estinti.

A perdere la liturgia della scuola
non sono pronto
dell’assemblea, dei riti a cui non credo
di tutto il teatro possibile
delle bevute fatte in cerchio.

A questa virtualissima relazione
che mi assomiglia a quella dei morti
io non sono pronto.

Non sono pronto a svestirmi
della qualità di questo esser vivo:
osservare forse la morte
mantenendo una certa distanza.

Parole di Davide del Grosso
Suoni di Ilaria Lemmo