Ne mangio mille al giorno vuoi sapere perché, sei tutto naturale niente è meglio di te.
La stanza cambiò forma e dimensione. Gli oggetti persero angoli e misure. Il foglio A2 sul quale Vittorio progettava la bestia sembrava ingigantirsi e acquistare profondità a ogni tratto di matita o pennellata. Il viso: marchiato da rughe simili a crepacci; le unghie: lesine paleolitiche grondanti liquido opalescente; i denti: paglierini e acuminati; le braccia: ricoperte di pelo argenteo.
I muri della camera da letto erano spogli, non una croce di legno a indicare l’orientamento religioso della famiglia, e nemmeno quadri raffiguranti ceste di frutta bacata o paesaggi marini; solo crepe, ragnatele orbicolari agli angoli delle pareti e un armadio sfondato.
Vittorio smise di disegnare. Avrebbe completato l’opera a casa di Romualdo, suo confidente e ispiratore.
Mise nello zaino le matite, la crema lenitiva e, nella cartella trasparente in polietilene, il progetto; passò uno straccio inzuppato d’alcol puro sulla scrivania e si diresse al piano di sotto per avvertire i genitori che sarebbe uscito. Il padre era addormentato sul divano in salotto con una mano infilata nei pantaloni e un fazzoletto imbrattato sul petto. Il computer portatile era acceso e sintonizzato sul video di una diciannovenne sodomizzata dal suo professore di anatomia artistica:
ᴇʀᴀ ꜱᴛᴀᴛᴀ ɪɴᴄᴀᴘᴀᴄᴇ ᴅɪ ᴜꜱᴀʀᴇ ɪ ᴘɪᴀɴɪ ꜰᴀᴄᴄɪᴀʟɪ ᴘᴇʀ ʀᴇɴᴅᴇʀᴇ ɪ ᴠᴏʟᴜᴍɪ ᴅɪ ᴜɴ ᴠᴏʟᴛᴏ ꜱᴜ ᴛᴇʟᴀ
Aveva i capelli amaranto, il seno piccolo, un paio di calze bianche tirate giù fino alle caviglie e, sotto i piedi, i vestiti che l’insegnante le aveva strappato a forza. Lui aveva un paio di occhiali dalla montatura rotonda, una matita in bocca, la fronte cosparsa di sudore.
Il padre schiuse gli occhi mentre la studentessa si accasciava sul pavimento e l’insegnante le si sdraiava sopra lasciandole cadere la matita in faccia. Vittorio uscì dal salotto; entrò in cucina, salutò la madre — seduta a tavola con gli occhi fissi sul televisore spento — e sgattaiolò via dalla porta sul retro. Raggiunse il semaforo in fondo alla strada, a luce verde attraversò la provinciale, prese via Mameli, superò l’ufficio postale e acquistò una focaccia con le olive e una lattina di aranciata fresca dal panettiere oleoso di piazza Garibaldi.
Romualdo uscì da un cortile poco distante, vide il ragazzo e gli fece un cenno con la mano. Vittorio gli corse incontro e, una volta raggiunto, si fece stringere caldamente tra le sue braccia e accarezzare i riccioli che gli cadevano sulla fronte.
Entrarono in negozio in fila indiana: il ragazzo davanti, il vecchio in coda. C’erano dolci ovunque e un solo angolo occupato da giocattoli di seconda mano.
– Posso fare il giro da solo? – chiese Vittorio.
– Certo – disse Romualdo stringendogli debolmente il braccio, – fai tutto quello che vuoi. Tutto.
Vicino alla porta dei bagni, dopo un lungo scaffale bianco, c’erano degli enormi barattoli in plastica trasparente contenenti marshmallow a forma d’animale: pantere, elefanti, leoni e leonesse color sugna e scimmie rosa a gambe divaricate e braccia tese verso l’alto.
Il ragazzo non poteva credere a quello che vedeva. Romualdo si fermò davanti alla cassa a conversare con la titolare: una donna sui cinquant’anni coi capelli bruni e la pelle del viso grigiastra. Vittorio se ne stava immobile davanti a tutto quell’ammasso di zucchero e colore con un dito in bocca e gli occhi sgranati; faticava a scegliere, tutte quelle forme non facevano altro che confondergli le idee.
Si appoggiò a una parete, estrasse dallo zaino il quaderno e iniziò a disegnare un uomo con la cerniera dei pantaloni aperta da cui fuoriuscivano coccodrilli gommosi, minuscole bottiglie di cola frizzanti, more zuccherate, barrette di liquirizia.
Prima di riuscire a dare un volto all’essere, Romualdo lo richiamò all’ordine battendo i piedi per terra. Vittorio lo raggiunse di corsa. – Quelle, voglio quelle – disse col dito puntato verso una decina di sacchetti appesi al soffitto.
– Sicuro? – chiese Romualdo estraendo le banconote dalla tasca dei pantaloni.
– Tutte. Le voglio tutte – puntualizzò il giovane.
Poi passarono dal supermercato. Entrarono a braccetto senza preoccuparsi delle anziane che li guardavano di traverso e borbottavano tra loro. Presero due confezioni di latte parzialmente scremato e raggiunsero il banco della carne. Diedero il buongiorno al macellaio, ordinarono un chilo di pollo tagliato a fette e, dopo essere stati serviti, raccolsero dagli altri scaffali il resto: marmellata ai frutti di bosco, fette biscottate.
Prima di tornare a casa si fermarono al centro sportivo; Romualdo era stanco e zoppicava. Si sedettero su una panchina tra la pista di pattinaggio e il campo da calcio. Sugli spalti c’erano ragazzi e ragazze che facevano il tifo per gli amici. Romualdo guardava le pattinatrici fare stretching prima dell’allenamento; aveva gli occhi bagnati. Vittorio se ne accorse. – Andiamo a casa – disse infilandogli le dita tra i capelli.
L’appartamento stava al piano terra di una vecchia palazzina affacciata su una stalla in disuso. In mezzo al cortile c’era un pozzo e i resti di un bagno esterno circondato da sacchi d’immondizia e ferri vecchi.
Romualdo se ne andò in camera da letto; era stanco e voleva riposare. Vittorio appoggiò sul tavolo della cucina la busta della spesa e si spalmò la crema sulle braccia. Mise del latte sul fuoco e si guardò attorno. Sulle pareti della sala da pranzo c’erano tre grandi fotografie: una donna con le labbra imbronciate e un vestito a collo alto; un uomo con dei lunghi baffi all’insù; e un bambino fotografato per intero con una divisa scolastica e un libro tra le mani: Romualdo.
Una volta pronto il latte, lo versò in un’enorme tazza gialla col manico sbeccato, spalmò la marmellata sulle fette biscottate e fece merenda, cospargendo il pavimento di briciole e gocce violacee di confettura.
Romualdo era disteso sul letto con le braccia lungo i fianchi. I muri della stanza erano spogli, non un quadro di santi e nemmeno una croce di legno o metallo a rappresentare l’orientamento religioso del padrone di casa, a parte la parete dietro il letto: rivestita quasi per intero da fogli spessi che immortalavano personaggi nati dalla matita di un artista preciso, attento al dettaglio, brillante.
Vittorio si alzò dalla scrivania e, con del nastro adesivo, fissò in un angolo rimasto vuoto l’opera che aveva appena completato: una creatura con il viso di pietra, gli occhi di cristallo lucente e un immane pene eretto con all’apice una testa di suino ricoperta di liquido seminale e colla di pesce.
Aprì una confezione di caramelle, la svuotò sul comodino e mise due fette di pollo crudo sugli occhi dell’anziano.
– Fermo – disse il ragazzo dirigendosi verso lo stendibiancheria vicino alla porta della stanza; prese cinque mollette e gliene strinse quattro sulle dita e una sul naso collegandole fra loro con delle strisce di liquirizia srotolata. Romualdo sorrideva. Vittorio si tolse la maglietta – Ora l’energia del mio corpo passerà nel tuo – gli disse mettendosi a cavalcioni sopra di lui.
– Mi fai male.
– Zitto. Non sei ancora attivo – disse il ragazzo infilandogli in bocca un paio di orsetti colorati.
Romualdo annuì e sentendosi i quaranta chili del giovane addosso richiuse la bocca allietato.
Lo avrebbe voluto sempre vicino.
Le dita di Vittorio erano sottili e gelide; il petto ampio; le braccia toniche e la pelle ricoperta di squame bianche; la lingua perennemente macchiata di colorante alimentare, lo smalto dei denti lustro, le labbra zuccherate e al servizio di un membro curvo e agonizzante. Romualdo lo guardava dritto negli occhi, intonando le parole di un ritornello pubblicitario: Ne mangio mille al giorno vuoi sapere perché, sei tutto naturale niente è meglio di te.