Sputare nella neve | Adriano Giotti

Giorgio affonda il pugno chiuso dentro la neve. Le nocche si bagnano, diventano rosse, bruciano. Osserva l’ex ospedale Forlanini abbandonato da tre anni. La neve ovatta e rende silenziosa ogni traccia di vita. Il Forlanini sembra disabitato, nessun volto si affaccia da quella muraglia di finestre spaccate. Giorgio apre la mano, ne sente la consistenza. Erano anni che non nevicava così a Roma. L’astio della capitale ha invaso quel luogo e spetta a loro il compito di ripristinare l’ordine. L’armatura antisommossa è perfettamente chiusa, impeccabile. Scura. Come la violenza alla quale attinge ogni volta. Quella violenza accecante che alberga dentro di lui fin da quando era piccolo. Non sa perché. Ma c’è da sempre. Sputa nella neve. Osserva lo sputo caldo ferire la neve, scavarsi un buco. Non sente quando viene dato l’ordine, si accorge solo che la prima fila di figure scure indossa il casco e inizia ad avanzare.
In fretta, Giorgio tira fuori la mano da dentro la neve e si rimette il guanto.

I passi di Giorgio avanzano dentro il corridoio della scuola elementare. Si guarda attorno. I suoi ricordi confermano che non è cambiato niente. I disegni affissi alla parete raffigurano soggetti diversi ma lo stile resta lo stesso. Lo stile senza talento di generazioni di bambini indistinguibili l’uno dall’altro. La periferia ai margini di via Tiburtina, all’altezza di Santa Maria del Soccorso, non lascia spazio a nessuna forma di distinzione. Sua moglie Sara gli fa strada, lei è già venuta altre volte ai colloqui. Giorgio e Sara non si parlano.
Hanno smesso di parlare ad eccezione di quando la bambina è con loro e sono costretti a simulare una normalità acquista. Ne hanno già discusso a suo tempo, il matrimonio come un lavoro; sopportare in silenzio per assicurarsi che il loro prodotto venga confezionato nel modo migliore. Linda è il loro prodotto e lui non tollera che qualcuno si azzardi a dirgli che qualcosa di errato si è verificato nei primi sei anni di assemblaggio.


Linda è bionda, minuta, i capelli tagliati corti per essere più rapidi a infilarle la cuffia del nuoto e per uscire in fretta dagli spogliatoi, a fine allenamento. La velocità è la prima cosa che le hanno insegnato. Velocità come sinonimo di intelligenza e perfezione. Giorgio la osserva serio dalla tribuna. Non è una campionessa in acqua, ha un difetto nella bracciata quando nuota a stile libero. Non sa far scivolare correttamente la mano quando spinge sotto prima di risalire. Ma negli altri stili è un po’ più brava. Giorgio sa che sua figlia non diventerà mai una nuotatrice professionista, ma il nuoto le insegnerà la disciplina e il rispetto per se stessi.

L’acqua si increspa appena ai bordi della piscina, ogni volta che passa la fila di bambini. Sono piccoli, privi di forza e di peso specifico. Linda finisce la vasca, si toglie gli occhialini e si accorge solo adesso del padre. Gli sorride. Mette la testa sott’acqua e gli fa vedere che è migliorata nel fare la virata. Il padre annuisce, sorride. Gli aveva insegnato lui a fare la virata. Si sorridono. Mentre gli altri bambini, a turno, ripartono per continuare con l’allenamento.

A volte, Giorgio, vorrebbe avere anche lui un cronometro in mano come gli altri genitori. E vorrebbe avere il lessico per spiegare alla figlia come far scivolare in modo corretto la bracciata sott’acqua.

Il maestro fa segno di accomodarsi.
– Prego…
Giorgio e Sara si siedono. Il maestro è giovane, ha dieci anni meno di Giorgio, cerca nel suo registro i voti e le annotazioni sulla bambina.
– Lei è la madre di Linda, giusto? Il primo anno ci metto qualche mese ad associare i nomi ai volti…
– Sì, siamo i genitori di Linda.
– Giorgio, piacere.
Giorgio allunga la mano, il maestro gliela stringe frettoloso.
– Piacere mio. Un attimo, prego…
Il maestro continua a sfogliare il registro, ma quando alza lo sguardo sembra a disagio. Come se qualcosa nello sguardo freddo di Giorgio lo turbasse.
Il maestro incrocia le mani sul registro.
– Linda è una bambina tranquilla in classe. Sembra aver socializzato bene con i compagni. Lo avevo già detto alla madre.
– E allora come mai ci ha fatto convocare?
– Non dovete prenderla nel modo sbagliato, non dovete pensare che quello che sto per dirvi sia… insomma, ogni bambino ha bisogno del proprio tempo per sviluppare le proprie capacità…
– Scusi di quali capacità stiamo parlando?
– Un attimo, sto arrivando al punto… sto solo dicendo che Linda, anche secondo gli altri docenti, sembra essere un attimo indietro rispetto ai suoi compagni.
Giorgio è indignato: – Indietro? Mi sta dicendo, ci sta dicendo che è ritardata?
– No. Non mi azzarderei mai… sto solo dicendo che…
Giorgio sta per intervenire di nuovo, ma Sara gli poggia una mano sul braccio per tenerlo a freno. Il maestro prende fiato, sposta lo sguardo imbarazzato per un attimo.
– Sto solo dicendo che, per adesso, si tratta solo di seguirla di più a casa. Aiutarla con i compiti, spiegarle quello che non le è chiaro o che le sembra non chiaro. Al massimo mandarla a ripetizione di matematica dove sembra avere le lacune maggiori…
– È nata a dicembre. È chiaro che, come dice lei, alcune sue capacità sono in ritardo.
– Ma sì infatti, magari è solo questione di tempo. O magari no.
Lo sguardo di Giorgio è freddo, ostile.
– Mia figlia non è ritardata.
Il maestro prova a sostenere lo sguardo, lo abbassa.
– Nessuno sta dicendo che lo sia.
– Va bene.
– Non la prenda sul personale. Anche noi vogliamo che Linda si sviluppi al massimo delle sue capacità.

Giorgio annuisce. Tiene a freno la rabbia prima che vada in frantumi. Sara interviene per evitare il protrarsi del silenzio e dell’imbarazzo.

– Bene. Quindi si tratta solo di starle più vicino?
– Per adesso sì. Fino a che non avremo un quadro più chiaro.
Giorgio stringe le mani sotto al tavolo. Le stringe forte facendole vibrare fino a che le nocche diventano bianche. Dopo si alza, fa un cenno di saluto svogliato. Sara lo segue con un sorriso di circostanza stampato in faccia.

Lo squadrone antisommossa attraversa compatto il cortile del Forlanini. Ghiaccio e neve avvolgono i fabbricati abbandonati allo sfacelo e le erbacce marroni che spuntano qua e là in quella distesa bianco sporco dove prima c’erano i giardini. Giorgio è in mezzo al gruppo. Si guarda attorno, pronto a scattare alla comparsa di qualsiasi bersaglio in movimento.
Il capo si volta, il tono della voce alto.
– Vi ricordo che non sappiamo di preciso cosa ci troveremo di fronte. Quello che ci siamo detti prima resta valido. L’obiettivo è farli uscire tutti.
Il gruppo annuisce.
– Entriamo.
I primi cinque del gruppo spalancano le porte del padiglione centrale del Forlanini, entrano nell’edificio ordinati, rapidi, aggrediti dall’odore di sporcizia, di fiato, di chiuso, di rancido. I senzatetto sono i primi ad alzare le mani e a raccogliere le loro cose. Borbottano. Molti non sono neanche italiani. Li lasciano stare. Non sono loro i veri problemi. Loro sono quelli che se ne vanno. Giorgio osserva i loro cartoni, i loro materassi bucati e sporchi, i loro vestiti, gli avanzi di cibo, le pozzanghere di vino. Prova schifo. Lo schifo fa aumentare la violenza.
È impaziente di arrivare a quelli che non se ne andranno.

La luce della camera illumina il corridoio buio. Giorgio, in pigiama, entra nella stanza. Sara sta leggendo, non si volta. La luce gialla della lampada accentua le rughe sul volto stanco della donna. Giorgio entra sotto le coperte, si sdraia, la guarda. Le prende il libro. Con calma decisa.
Sara guarda il suo libro che viene poggiato sul comodino.
Giorgio fa sparire la testa sotto le coperte, le alza, come alza la camicia da notte della moglie e le abbassa le mutandine. Giorgio inizia a leccarle la fica. Sara, con movimenti lenti, si lascia andare. Sara non oppone mai resistenza. Come se mancasse anche a lei ma non avesse il coraggio di chiedere o fare. Anche Sara è arresa.
Piano, piano, Giorgio le lecca le grandi labbra, poi passa alle piccole, movimenti circolari, fino a concentrarsi sul clitoride leccandolo con tocchi verticali, dall’alto al basso. Sapore di fica in bocca, si accorge dell’orgasmo breve, contenuto, della moglie. Un orgasmo come un sussurro. Come se non volesse disturbare. L’impercettibile ribellione di Sara.
E allora Giorgio si tira su, si sdraia nel suo lato del letto e spegne la luce. Ci sono notti che non ha bisogno di altro. Solo di piccole prove di essere ancora in grado di amare.

Banchi di scuola piene di scritte, cartacce e briciole di panini sul pavimento. Giorgio ha sei anni, è alla lavagna, i polpastrelli sporchi di gesso. Davanti a sé ha una semplice divisione da svolgere. È bloccato.
La maestra si avvicina con espressione ironica.
– Giorgio, sembra la prima volta che la vedi.
I compagni ridono in coro.
– Quanto fa sette per sei?
Giorgio si volta, ci pensa.
– Prima che finisca l’ora, Giorgio caro.
– Quarantadue?
– Non era difficile, sta pure scritto sulla lavagna.
– Sì, quarantadue…
– Già. E allora perché non sai risolvere quarantadue diviso sette?
Giorgio abbassa la testa, si mordicchia nervosamente il labbro. La maestra si avvicina, l’odore del caffellatte nel fiato.
– Non va bene sai. Sei l’unico che continua a sbagliare le divisioni nei compiti. Forza, vai a posto.
Giorgio torna al suo banco, il suo compagno ridacchia. Giorgio aspetta il momento giusto, poi con un movimento rapido gli afferra la matita e gliela spezza.

Hanno già sgomberato i primi due padiglioni dai senzatetto e dai migranti.
Entrano in quello degli zingari, la gerarchia della società viene rispecchiata anche qua nel caos, la prima fila dello squadrone scatta a picchiare. Gli zingari vengono aggrediti da dietro, mentre provano a scappare, manganellate e spinte, calci, alcuni provano a reagire ma non hanno speranza, gli antisommossa si accaniscono per spingerli fuori approfittandone per sferrare colpi violenti ai reni e nelle costole dove fanno più male. Roma la capitale dev’essere mantenuta pulita, il loro compito all’interno della società è sacro. Giorgio è tra quelli che picchia con maggior ferocia. Il sudore gli impregna la maglia sotto le ascelle, sulla schiena, se la sente appiccicata addosso. La persona è solo un bersaglio. Un corpo può subire un numero indefinito di colpi. Solo alla testa bisogna prestare attenzione. Giorgio picchia ovunque fuorché alla testa.
Così può colpire forte.

Sul lungotevere, Giorgio cammina con Linda. Le compra una granita anche se è inverno. Linda è felice. Camminano in silenzio, mentre il vento freddo sferza loro la faccia.

– Quanto fa quarantadue diviso sette?
Linda lo guarda, succhia la sua granita alla menta, le esce il fumo dalla bocca.
– Sei.
Giorgio sorride con un pizzico di orgoglio. Le spettina la testa.
– Sei. Come sei brava.
Linda sorride, perché ha reso felice il suo eroe. Giorgio abbassa la voce: – E non permettere a nessuno di dire che non lo sei.
Linda percepisce la gravità anche se non la comprende. Annuisce per compiacere.
Offre la granita al padre, Giorgio si china e sente il ghiaccio scivolargli sulla lingua, il sapore della menta e il ghiaccio tornare acqua. Mentre attorno a loro inizia a nevicare.

Escono dal padiglione, attraversano lo spazio innevato per entrare nell’altro complesso. Le pareti scrostate, le tubature arrugginite, i sacchi dell’immondizia buttati e squartati coi rifiuti mezzi sommersi dalla neve entrata dalle finestre rotte, decine di scatole di medicinali scaduti sparsi negli angoli. Entrano nel padiglione successivo. Già li stanno aspettando. Sono nascosti dietro scrivanie e tavoli sistemati come fossero barricate. Iniziano a tirare le pietre, bottiglie, pezzi di ferro, qualsiasi cosa abbiano tra le mani. La squadra è compatta, gli scudi trasparenti a proteggersi il volto, scattano sopra i tavoli, la battaglia non potrebbe avere un esito diverso. Colpiscono, massacrano, corpi, teste, sono molti, sono punkabbestia, okkupas, reietti, ribelli, spacciatori, dei grossi cani neri assaltano gli antisommossa, ma vengono tramortiti rapidamente a manganellate. Non c’è spazio neanche per respirare, quando, in mezzo alla battaglia, Giorgio, vede una ragazza. Ha i capelli rasati completamente, gli occhi sottili da cerbiatto, è l’unica cosa bella che c’è. Giorgio si distrae, si ferma a guardarla, non sa perché. Sembra sprecata in un posto così, forse le ricorda qualcuno. Forse quella ragazza non ha avuto l’occasione della vita oppure ha sbagliato qualcosa. Come se lei non dovesse essere lì.
Come se lei stesse là a significare qualcosa che non riesce ad afferrare.
Giorgio viene colpito da dietro alla nuca, e cade giù, la faccia contro il suolo, l’odore dello sporco, del sangue che gli entra in bocca, amaro e salato. Resta a guardarla, sembra spaventata.
Mentre continuano a prenderlo a calci, e non gli importa, vuole solo guardarla, e capire.
Finché qualcuno dei suoi riesce a trascinarlo via. 
Con ancora quel volto negli occhi, come un diamante grezzo che nessuno ha avuto il coraggio di pulire.

Immagine di Simon Prades

6 pensieri su “Sputare nella neve | Adriano Giotti

  1. […] Adriano Giotti è un’artista a tutto tondo. Autore di vari corti e di un lungometraggio, Sex cowboys (2016), che ha ottenuto ottimi riscontri dalla critica italiana ed europea (e che ha vinto il premio come miglior film italiano al RIFF – Rome Indipendent Film Festival), quando non ha una videocamera in mano scrive e dimostra un’abilità fuori dal comune anche con la penna. I suoi racconti sono pubblicati su svariate riviste e su Neutopia è possibile trovare numerosi suoi testi, sia sul blog che sui numeri del magazine (compreso l’ultimo, Comunismo acido, uscito da poco più di una settimana). Sputare nella neve è uno dei suoi primi contributi pubblicati sul blog, un’analisi insolitamente sfaccettata di un celerino fra la sua vita privata e lo sgombero di un edificio occupato da effettuare senza andare troppo per il sottile: potete immergervi fra le pieghe di questa figura scomoda andando a questo link. […]

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