Bambolotto di pezza | Francesco Quaranta

Ho circa cinque anni e passo il tempo ad allineare tutti i giocattoli preferiti di mia sorella tra gli spazi della ringhiera.

Poggio l’indice sulle loro testoline di plastica. Sorridono. Comincio a spingerli uno a uno giù dal balcone, continuano a sorridere volteggiando nell’aria. Uno a uno, giù tutti. Resta, al termine della fila, un bambolotto di pezza senza un occhio, con gli arti abbandonati e le orecchie smangiate. Ci poggio l’indice. Prima di buttarlo di sotto, almeno a lui chiedo scusa.
Lucide e setose. Le gambe delle Barbie in villeggiatura sono dorate, lucide e setose. Le curve fasci di muscoli plastificati nell’abbronzatura, capelli che sanno di fiori, papaya e mango, camomilla e stramaledetta aloe vera. Il sudore delle Barbie è una bibita da succhiare al tramonto in riva al mare. Salgono sul bus con quei loro costumini salati ancora mezzi umidi. D’estate le regole della decenza che valgono per il resto dell’anno non si applicano più, evaporano: le Barbie lasciano intravedere capezzoli tropicali, monti, valli esotiche, labbra a sud dell’Equatore. Ma guai a te se le guardi, quello no, quello è indecente, è poco professionale. Tu guida il pullmino e non guardare, altrimenti sei un pervertito.

Il piccolo bus parte dal centro città ed è l’unico mezzo che arriva alla spiaggetta dove tutti vogliono andare e che viene tanto bene nelle foto. Là non c’è strada asfaltata, non c’è parcheggio, solo un sentierino che scende tra le rocce dentro l’insenatura naturale slinguazzata dal mare. Da quando i turisti americani e le compagnie cinesi hanno comprato  l’intera isola, i prezzi sono lievitati e sul mezzo per la spiaggia ci salgono solo ricalchi della vecchia Hollywood, influencer del jet-set Instagram, star della TV, VIP dell’Isola, insomma i brillocchi della specie umana. Per lo più sono nel fiore della gioventù, ma anche chi ha qualche annetto di troppo lo nasconde con una bella iniezione di tossine e plasticume.
Da quando la nostra isola è diventata il luogo di ritrovo di questi apici di bellezza ho perso il sonno. Non posso confidarmi con nessuno, ma le desidero con tutto me stesso. Vorrei essere l’obiettivo delle loro fotocamere, il tubetto di lucidalabbra, vorrei essere il crostaceo che palpa i loro talloni nell’acqua bassa. Le Barbie cambiano ogni estate, ma il desiderio è lo stesso ed è un sasso che mi schiaccia lo sterno e mi fa scricchiolare le giunture col suo peso.
Sul bus assieme alle Barbie ci sono i Ken. Sui Ken mi soffermo poco perché non reggo il confronto e perché i Ken sono tutti dei bastardi. Vogliono che le loro Barbie rapiscano il tuo sguardo: tu devi sbavarci dietro, ti sembrano dire, guardala, invidiami, guarda che bon bon cichi bon, e guarda invece che schifo fai tu, in confronto a loro, che sono praticamente di un’altra razza rispetto a te. Questo sembrano dirti. Se invece guardi proprio loro, i Ken, ah se osi guardare loro, prima parte il gesto inquisitorio della manona a cucchiaio e poi, a seguire, i cazzo guardi, i che minchia vuoi, i te meno, i vuoi il poster? I Ken non hanno bisogno di essere particolarmente intelligenti poiché la vita fornisce loro certe cose solo per il fatto che sono maschi alpha. Così anche quelli più svegli, col tempo, impigriscono.
Oggi guido e penso ai loro sorrisi Vivident, Mulino Bianco porno soft, gridolini e canzoncine Baby Annalisa Michelin Kardashian Swift. E nel frattempo massaggio la leva del cambio come se avessi una mano nei pantaloni. C’è sempre la risata sguaiata di un Ken, quell’abbaiare infame, che mi spegne il durello.

E pensare che per un periodo mi ero dato alla poesia pur di conquistarle. D’altronde a loro piace l’idea della letteratura, del falò, del mare, della lirica, della lacrimuccia romantica, però non si innamorano del poeta, questo mai. Soprattutto se è un pupazzo di pezza come me. Io pendo in tutte le direzioni con le mie estremità a sacchetto di sabbia, spina dorsale di corallo deforme, cranio in tufo e capelli come alga marcia. Non sono tanto più vecchio di loro, anche se dimostro molti più anni. E la poesia alla fine me la sono infilata nella caletta segreta tra le chiappe e ho preso la patente D per guidare taxi e autobus. Al mare ho smesso di scenderci perché sarei l’unico pezzo di stoffa in un mare di plastica: affonderei mentre questi bei culetti galleggianti prendono il sole.
Io sono morbido, l’ho capito col tempo, mi deformo per fare posto agli altri, piego la testa su cui questi bellocci impettiti camminano. Incasso i colpi, le cadute, i rifiuti. Mi schianto sui muri come un pupazzo del crash test e mi rialzo senza cambiare espressione. Però non significa che non soffra. Non significa che non possa far soffrire.

Per arrivare alla spiaggia dei vip bisogna seguire una strada non asfaltata che si avvita alla scogliera e scende con una pendenza assurda fino al grande tornante. All’altezza del curvone si vede sempre il mare luccicare decine di metri sotto e si sentono le Barbie e i Ken che fanno “Uuu, wow, porcoddighe, bomba, sto volando, volo”. Il tornante è un po’ il balcone di tutta l’isola, da lì si vede una bella distesa di mare bluastra e, lontana, la linea della costa. Se strizzi bene gli occhi, vedi tutte le occasioni perse e le vite non vissute. Capisci al volo, gettando un’occhiata da lì, quanto la bellezza e la felicità siano irraggiungibili.
Ricordo che quando una Barbie di mia sorella perdeva un braccio o una gamba o la testa, a causa delle cadute dal balcone, io recuperavo i pezzi e li riassemblavo come meglio potevo. Con il tempo cominciai a perderne qualcuno, di pezzo, e allora compensavo le mancanze come era possibile, rubando da una bambola o dall’altra. E quando mia sorella guardava queste Barbie Frankenstein e non si accorgeva di nulla, io mi sentivo sollevato, ma anche un po’ deluso. L’unico a non subire mai danni era il bambolotto di pezza, che puntualmente finiva per ultimo giù dal balcone e ogni volta ne usciva solo un po’ sporco. Fino a oggi mi ero dimenticato di certi particolari. Per esempio, di come finì quel gioco sul balcone.
Mia sorella un giorno tornò dal mare con le amiche. Nonostante ormai si considerasse grande per le sue Barbie, intendeva mostrare a tutte la sua collezione. Però le mie esecuzioni nei confronti delle bambole stavano ormai lasciando il segno e finalmente lei se ne accorse: c’era un graffio sul viso di Barbie modella. Al posto della bocca perfetta aveva ora un taglio deforme che ricordava un urlo di dolore.
Volevo che mia sorella mi picchiasse ma lei non osò toccarmi, nemmeno si avvicinò, mi trapassò invece con lo sguardo: mi maledisse con le sue parole, mi disse che ero un brutto rospo e che nessuno mi avrebbe mai amato. Aveva ragione. Feci in modo che quelle parole restassero vere.

La porta del bus si chiude e io ingrano la prima. Esco dal centro pulito, strabordante di souvenir e insegne colorate, attraverso tutto il viale fatto di villette a schiera, dimore estive usa e getta, e mi accingo a scendere verso il mare. La curva a picco sulla scogliera è laggiù, al termine della discesa che esce dal paese e s’immette tra due sponde di roccia brulla. Accelero. C’è una strana placidità nella mia guida, sono tornato il bambino sul balcone. Posso distintamente sentire gli umori intimoriti delle Barbie mentre fanno caso che sto aumentando di velocità nonostante la pendenza pericolosa. I Ken sono gli ultimi a reagire, a prendere sul serio il pericolo. Quando cominciano a dire qualcosa, io ho già messo in folle e bloccato il volante. Mi alzo in piedi e mi preparo a guardarle tutte una a una, le mie belle Barbie porche. Mi tengo forte alle barre ai lati del corridoio centrale. Se in fin dei conti non avessi vergogna, mi masturberei guardando quei loro occhioni strabuzzati dalla paura, immaginando i loro sudori freddi sotto la mia lingua. Si agitano, starnazzano mentre la morte si avvicina.
È in quel momento che la noto: non si è accorta di niente, persa com’è nella musica, con la coccia incastrata nelle grandi cuffie stereo. Guarda a terra, è come se le si fossero scuciti gli occhi e li stesse cercando sul pavimento. È una bambola di pezza, senza dubbio. Certo è giovane e in buone condizioni, ma il tempo le leverà anche quelle due o tre cose decenti che crede di avere. Resta una cozza di vent’anni con un pareo tirato su a mo’ di mantello.
Che cazzo ci fa qui, mi dico, qui sul pullman delle Barbie? Lei si rende conto di cosa sta per succedere, capisce che è tardi.
Il tornante è come il balcone di quest’isola e io ricordo gli ultimi istanti del gioco che facevo a cinque anni, e il mollusco che ho per cuore mi si stringe nel petto.
Tranquilla, dico alla ragazzina, loro hanno paura, ma tu non devi averne. Loro sono Barbie e Ken di plastica, finiranno in mille pezzi. Noi invece siamo bambolotti di pezza.
Nel momento esatto in cui urtiamo il guard rail, la stazza del bus lo strappa in due per penetrare il vuoto a picco sulla roccia aguzza. Ma non precipitiamo. Invece vedo bolle fuori dai finestrini, vedo un blu che appartiene ai sogni o a certe rare tonalità di conforto, vedo uno spazio oceanico allargarsi su tutti i lati e perdersi tra le masse d’acqua, tra le colpe, vedo quel mare al quale da piccolo non potevo avvicinarmi. Mi abbraccia. L’autobus galleggia verso il cielo, viene sollevato verso un sole scomposto dai flutti, un sole nascosto, ma sempre presente. Il sole che c’è sempre, al di là della superficie.

Illustrazione di Cristiano Baricelli

7 pensieri su “Bambolotto di pezza | Francesco Quaranta

  1. Il sudore delle Barbie è una bibita da succhiare al tramonto in riva al mare.
    Oh si, c’è tutto il senso dell’estate anni novanta di un bambino a cui è preclusa la gioia dell’appartenenza.

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