Trenodia (in parola) | Danilo Luigi Fusco

IV

Potenza verbale venne d’accusa a chiamarmi
confesso perché loro giudicano la macchina
alla produzione di parole dentro il mio palato
schiocche, sono sempre cornucopie colme
eppure è paura il vimine vampiro al dito intrecciatore:
al vizio di forma scelgo il silenzio, il selettivo
perché contro il peculiare è il nome della
Comune, chiamarsi a vita s’erge il muto belare
caprino. Deciso giudizio di dispetto, maschero
la gola con afonia, copione di istrione
che si sforza di gonfiare arterie al nullo servizio.
Ricordo il semplice passato dove fonetica cantava:
metriche leggere per capire il periodare umano
poi sfrutto sintassi pesanti a tradurre muscoli
facciali in vero agire, quando vedo emozioni
al nosocomio – temendo la retorica, tacevo.
Conto la scadenza del dirò ancora ‘io uomo’.
L’autonomia fisica, scrivo per non ritrovarmi
inerme – il primo scarto ipotetico, l’immediata
caduta è la mia riduzione a bestia. Torno a
sillabe raddoppiate e ai versi di suzione, s’addensa
rogna di schiuma agli imberbi labbri ignoranti.
Attività di fare contro l’essere isolano mostro.
Amore di Parola, nessuno ti pensa. Il coreuta prova.
Dalla botola galleggiano suggeritori morti.
I pensieri sono becchini come locuste
ai lati di navate bianche a confinare fedeli e lobi
in allerta al cenno ultimo del prete innaffiatore
– sì, ha liberato il feretro piovoso ad affittare loculi.
Nessuno firma sui libri delle defunte dediche.
Ricordo l’autografo dell’iniziatica edizione.
Ho pubblicato la prima poesia dietro le esequie
in un volantino a bomboniera di dolore:
era la preghiera per la fotografia
funebre di atavia paterna. Sembravo un mimo
all’atto della correzione letta nella voce
interna, sopra rottamente placida bocca.
E nel pubblico silente di riservati anfiteatri
in posti occupati dai miei fantasmi a questa ora
provo vergogna prima di accenno di parola
perché, come tuono tarda alla veduta, così
allampa il pensiero vergine a sintassi
dentro la grotta cranica che staglia l’ombra
all’eco contro la tempia trave a un impiccato.
In fila ero tra le condoglianze sussurrate timide:
livore al marmo nel cordoglio di un saluto
acquaforte nelle mani con versi ancora di puntelli –
mi affetto a perfezionare strofe senza lingua.
E risa giunsero immotivate dal silenzio
avendo mostrato il ridotto mutare animale:
avevo artigli e ritegno di fame e la fedeltà.
La parte mancante alle catene volle la fuga
perché dimentico diventerei del rifiuto umano
e ancora volentieri lo scuorno pubblicamente esposto;
il cambio d’estetica è da essere taciuto
per mezzo di Mnemosyne alla schiavitù costretta:
ho riscritto la metamorfica medesima storia su risme
contate contando i dettagli nutriti a differenze.
Un misero mutamento di colore di luce di manto di arto
in righe di paragrafo daccapo riscritto fino alla miseria
lucida menzogna di un innocente che non distingue
quanto vero esista in una narrazione portata di dolore.
In mezzo alle cose accadute scompagino grafia e miti –
ho laudano negli occhi per il disordine a convinzione
di pregarti, dea. Confondevo muscolose isterie di sterno
per incubi – nell’indigestione d’alba conservavo sincero
la cura autunnale: prima del morso al verdetto di neve
da mano a mano mi dò a imboccare otto morsi
di melograni in chicco, s’abbonda il patto terrigno
così, senza cura, che vita di sicuro non torni.
Immagine di Miguel Vallinas

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