Uscito dal tribunale prendo una navetta gratuita che mi può portare fino al centro della città.
Noto che però ci sono delle obliteratrici a bordo, e la gente timbra il biglietto, e mi viene il sospetto che la navetta non sia gratuita, e visto che l’ho presa solo per muovermi senza usare biglietti del bus scendo vicino alla stazione di Porta Nuova e prendo una bici del bike sharing.
In piazza San Carlo stanno montando un grande palco, e intorno alla piazza sbarramenti e metal detector per la festa di capodanno.
Con la bici attraverso in fretta il centro e scendo verso la Dora e verso Barriera di Milano. Vado in una biblioteca dove ho fatto il servizio civile fino ad alcuni mesi fa; continuo ad andarci quando mi capita per fare un po’ di volontariato, per continuare un’attività che avevo cominciato e che farei fatica ad abbandonare.
L’attività consiste nel dare una mano ai bambini a fare i compiti. In quel quartiere ci sono moltissime famiglie straniere, tanti genitori non sono in grado di aiutare i bambini a fare quello che la scuola dovrebbe insegnare. Vengono quasi solo bambini delle elementari, qualche ragazzino delle medie, qualche raro studente delle superiori: magrebini, cinesi, sudamericani, qualche rumeno – a volte anche italiani.
Ci vado sostanzialmente perché mi diverto. Aiuto bambini egiziani di sei anni a imparare a leggere, ragazzini nigeriani a studiare la storia dei persiani e degli assiri, ragazze marocchine a fare le espressioni di secondo grado. Nessuno me l’ha mai chiesto, nessuno mi ha mai dato niente in cambio, se non l’affetto dei bambini e la gratitudine dei genitori. La maggior parte di quelle famiglie non avrebbe la possibilità di pagare qualcuno per dare ripetizioni ai loro figli.
Inoltre, molti di loro di solito non sono affatto abituati ad avere una figura maschile adulta che si prenda cura di loro, in particolare per una cosa come i compiti. La mia presenza, per certi versi, li elettrizza. Sono l’unico uomo a fare volontariato in quella circostanza – oltre a me ci sono alcune vecchine, maestre in pensione o semplici volontarie, e le ragazze del servizio civile che mi hanno sostituito quando il mio contratto è finito.
Quello forse è il lavoro più sensato della giornata. Perché poi torno a casa, pranzo da solo, vado in bici a fare un paio d’ore di ripetizioni, ma quello che ne ottengo sono venticinque euro, niente di più.
In piazza San Carlo stanno montando un grande palco, e intorno alla piazza sbarramenti e metal detector per la festa di capodanno.
Mentre rientro a casa stanco, appena girato l’ultimo angolo, all’improvviso un cane mi viene addosso.
“Ma che cazzo”, esclamo per la sorpresa.
È un cane di taglia piuttosto piccola, con le zampe corte e il pelo lunghissimo e marrone; il tizio di mezza età che lo tiene al guinzaglio è colto alla sprovvista almeno quanto me e non riesce a trattenerlo. Sento una zampa della bestiola che si impiglia nei miei pantaloni, ma riesco a scansarlo.
Me ne vado senza dare uno sguardo né al cane né al padrone – voglio solo andare a casa – il tizio mi chiede scusa e poi sento che tira calci alla bestia.
“Che cazzo ti prende”, dice imprecando, e il cane guaisce.
Il cielo è ormai squarciato; per metà è ancora un’unica nube grigia di foschia, ma da una parte, verso sud, c’è un immenso varco dai bordi dorati, da cui si intravede la luce diretta del sole.
Il giorno dopo devo ancora passare al centro per l’impiego. Ho bisogno di un documento chiamato “certificato storico del lavoro”, di cui non so niente. So solo che serve al mio potenziale datore di lavoro.
Quindi di buona mattina prendo un bus e mi inoltro nella periferia meridionale della città – è un bus che percorre lunghi corsi, lunghi spazi di periferia – quando salgo è completamente vuoto, c’è solo una guardia giurata in uniforme, che starà andando a lavorare, chissà, ma forse gli utenti abituali di questo bus l’hanno preso per un controllore, e dev’essere per questo che il mezzo è quasi vuoto.
Man mano comincia a salire della gente, provo a leggere fino a che non salgono dei ragazzi che fanno un discorso chiassosissimo e, da come ridono, divertentissimo, su qualcosa che è capitato loro in treno che mi fa perdere la concentrazione.
Scendo dal bus e faccio un bel pezzo di strada a piedi. Ci sono chiazze di pasta vomitata, biancastra, e merde di cane tra le erbacce che spuntano dalle crepe dei marciapiedi vicino alla fermata.
Faccio una piccola deviazione per passare vicino a una sala prove dove ho suonato per tanti anni. Il locale apparteneva – e credo appartenga ancora – ai testimoni di Geova; il gestore li odiava per la loro inflessibilità nel chiedergli l’affitto, e credo che alla fine lo abbiano pure sfrattato. Mi fermo un istante, davanti alla ripida rampa che scende giù, ai garage riadattati dove ho passato tanti pomeriggi e tante sere, dò un’occhiata agli alberi del giardino di fronte, dove mi mettevo a leggere quando arrivavo in anticipo alle prove o dove andavamo talvolta a fumarci qualche canna dopo aver finito di suonare. È tutto svanito.
Mi fermo un istante, davanti alla ripida rampa che scende giù, ai garage riadattati dove ho passato tanti pomeriggi e tante sere, dò un’occhiata agli alberi del giardino di fronte, dove mi mettevo a leggere quando arrivavo in anticipo alle prove o dove andavamo talvolta a fumarci qualche canna dopo aver finito di suonare. È tutto svanito.
Infine arrivo nella via dove si trova il centro per l’impiego – una via defilata e tranquilla, parallela a un grande corso. Signore delle pulizie escono dai condomini e gettano secchiate d’acqua sui marciapiedi.
Appena giro l’angolo vedo che c’è già una coda di persone davanti al centro per l’impiego. Anche qui una giovane coppia, un padre con suo figlio, entrambi peruviani, e un tizio sui sessanta che sta con una bionda vestita in modo vistoso e apparentemente molto più giovane di lui.
Entrare è insperabilmente facile e veloce. Una guardia giurata ci apre la porta, non ha nemmeno la giacca addosso, perché dentro fa caldo. Una sgarbatissima signora mi fa scrivere i miei dati su un foglio di carta – dati che avevo già mandato via mail qualche giorno prima, senza ottenere risposta, e non mi avevano risposto neanche al telefono, ma non mi metto a sindacare.
La signora del bancone sta bistrattando un tizio sui quarantacinque, capelli grigi e aria bigia, che è entrato dicendo di avere ricevuto la lettera di licenziamento, e la madama gli sta dicendo che non può farci proprio niente perché il rapporto di lavoro è cessato il giorno stesso, e anche la guardia giurata, che in questo posto fa un po’ da portinaio e interagisce cordialmente con tutti, si intromette e gli consiglia di tornare domani, perché se farà troppo presto richiesta per la disoccupazione gliela rifiuteranno di certo.
Io me ne vado in fretta. Fuori c’è una ragazza che parla col suo cane in mezzo alla strada.
Prendo il bus con lo stesso biglietto dell’andata. Uso un’altra linea – questa passa più vicino al centro per l’impiego ma mi lascia un pezzo a piedi più lungo da fare verso casa. Per di più sbaglio fermata e devo camminare per quasi mezz’ora.
Quando ci sono quasi sento un tonfo alle mie spalle. Quando mi volto vedo una bottiglietta d’acqua che rotola sul marciapiede. C’è un tizio affacciato alla finestra del piano ammezzato, evidentemente la bottiglia gli è caduta. Il tizio ha un’età difficilmente definibile – calvizie incipiente, ma capelli molto lunghi, unti e scuri – sta lì appoggiato al davanzale, con la tapparella abbassata quasi del tutto, in modo tale che ci sia spazio per fare uscire solo la sua testa e un braccio. Gli raccolgo la bottiglia.
“Se vuoi puoi berti un caffè”, mi dice, contento, facendo un cenno verso il portone di casa.
Declino fingendo una fretta che non ho.
Dopo essermi allontanato di un poco mi viene il sospetto inquietante che il tizio passi ore intere lì alla finestra, aspettando che appaia uno dei rari passanti di quella sua stradina, per far cadere la bottiglia e ottenere così un poco di compagnia. Alla fine dell’isolato mi volto e vedo che un vecchio sta passando proprio sotto alla finestra del tizio – mi fermo per vedere se lo stratagemma della bottiglia si ripete, ma così non è.
Dopo essermi allontanato di un poco mi viene il sospetto inquietante che il tizio passi ore intere lì alla finestra, aspettando che appaia uno dei rari passanti di quella sua stradina, per far cadere la bottiglia e ottenere così un poco di compagnia.
Infine, quello stesso giorno, torno al paese dove sono cresciuto.
Ho bisogno di un certificato che solo il mio medico curante mi più fare, e dato che ho cambiato residenza da poco e a Torino non ho ancora un medico, devo tornare al paese.
Il paese, nelle sere invernali, ha sempre un’aria derelitta; mi suscita una malinconia del tutto particolare, peculiare del luogo: ho l’impressione di conoscere tutto, di sapere tutto a memoria, ogni vicolo e strada e piazza, ogni viottolo sperduto tra i fossati, i fetidi campi di cavoli e le cascine in rovina, il laghetto dello sterro della statale – invece ogni volta c’è un dettaglio che stona, una cosa che potrebbe essere una novità ma anche un elemento presente da anni, insignificante e mai notato. Una nuova rotonda o un parcheggio, una nuova fila di villette a schiera, una cascina che è stata restaurata da qualche professionista desideroso di costruirsi un idillio rustico. Il tutto immerso, conservato nella salamoia immensa del buio e del freddo.
Raggiungo il centro, uno strano vecchio mi fissa – un uomo corpulento, vestito in maniera contadina – pare quasi bellicoso. Mi pare di non averlo mai visto, eppure è sempre stato lì.
Arrivo all’ufficio del medico, non c’è quasi più nessuno, solo un alto signore romeno, balbuziente, e una vecchina che in realtà non aspetta il medico, ma che sua figlia la venga a prendere.
Io sono l’ultimo paziente della giornata, sono quasi contento quando il mio braccio viene stretto dall’aggeggio per misurare la pressione, quella sorta di bracciale gonfiabile, e quando con lo stetoscopio il medico percorre il mio torace fa la faccia contenta di uno che veda un albero che cresce bene o una macchina che fa il suo lavoro in modo eccellente. Si tratta del mio cuore.