Vivevamo prose celeri senza chiuder capitoli
accontentandoci degli indici sporchi di fumo.
I miei versi sono più liberi di me. Libertà è volere quel che si fa.
Siamo fragili e irresponsabili costretti da barriere architettoniche
di cuori affaticati impenetrabili i suoi occhi quella notte d’ottobre.
La pazienza dei semafori i marciapiedi butterati interrotti da strisce
discontinue come noi. Passeggiate calpestate lungo la Martesana
sana come la morte – le prime e le ultime volte conservano eguale
intercedere d’incertezze – le frasi a effetto si pensano sempre dopo.
Districarci dal tempo. Tutto il resto lo aggiusteremo poco per volta.
Una pena e un canto. Il mistero di quando bambino pensavi la morte.
Succede solo agli onesti di perdere il treno mentre pagano il biglietto.
Il mondo impuro e la purezza d’immaginar la gioia
ripensandoci siamo palloncini dalla base di piombo.
Ricordi Parigi, la neve, la notte in cui credesti d’amarmi?
Il cielo è lo stesso, il tempo una somma di respiri.
Non ricordo la voce di mia nonna – ma le mani sì.
Cosa volere quando si ha tutto – come evitare il niente?
Le città crescevano -noi no- giocavamo a farci la guerra.
La vita passa e non diciamo davvero quanto amiamo o meno.
Ci contavamo le costole – quanto costa amare? Conta fino a zero.
Un pogo al mese a rateizzare rabbia – centellinare morte fumando 100’s
avvelenarsi di vino – amnesie antimuse – musiche dei muscoli
più tonici del gin – attonito nei tropici tristi e rivisti
sogni palle al piede – scannerizza i pensieri
comprimili e lasciali alle nuvole.
Che ci piovano in testa.
